1 - Riscrivendo l'art. 38 disp. att. c.c. con l'art. 3 l. 219/2012, il legislatore aveva l'obiettivo, tanto ambizioso quanto meritorio, di dare attuazione al principio della concentrazione delle tutele in caso di minori coinvolti dalla crisi famigliare (coniugale o comunque genitoriale), prevedendo che sia uno solo il giudice che decide sulle questioni che li riguardano.
Principio che, se attuato razionalmente, garantirebbe, da un lato, l'ottimizzazione delle decisioni in materia di minori coinvolti dalla crisi famigliare, dall'altro eviterebbe la dispersione di energie processuali, garantendo in tal modo anche l'economia processuale.
D'altronde, se ci si riflette su, è lo stesso obbiettivo perseguito, prima della riforma del 2012, dal giudice di legittimità, allorquando ha attribuito al giudice della separazione o del divorzio il potere di adottare provvedimenti limitativi della responsabilità parentale (oggi responsabilità genitoriale), che normalmente spettano al giudice minorile ex art. 333 c.c.
Ovviamente il raggiungimento di tale obbiettivo presupponeva un legislatore tecnicamente avveduto e consapevole della complessità delle problematiche di cui intendeva occuparsi.
Purtroppo, come unanimamente riconosciuto, il legislatore della novella 219/2012 non è rivelato, in parte qua, né avveduto, né consapevole, dal momento che ha dettato una disciplina pasticciata ed ambigua, che, come attestano i contrasti interpretativi suscitati, ha probabilmente creato più problemi di quanti ne abbia effettivamente risolti.
Alcuni di quei nodi ermeneutici sono ora giunti al vaglio del giudice di legittimità, che, però, a mio sommesso avviso, non sembra averli risolti in maniera persuasiva.
2 - Ma prima di ogni altro rilievo, è bene esaminare la vicenda concreta sfociata nella decisione annotata (Cass. 14 ottobre 2014, n. 21633), prestando attenzione alle date, che in questo caso rivestono una particolare importanza.
Nel febbraio del 2011 il pm inizia davanti al giudice minorile (la circostanza si desume agevolmente dal punto 10 della motivazione) un procedimento per la decadenza o la limitazione della responsabilità genitoriale (allora ancora potestà parentale) di un genitore sui figli minori.
Nel marzo del 2013 viene instaurato il processo di divorzio dei genitori dei minori coinvolti nel giudizio minorile.
Orbene, entrata in vigore la l. 219/2012 l'1.1.2013, è evidente che il giudizio davanti al giudice minorile era stato instaurato prima, quello di divorzio dopo la promulgazione della legge in questione.
Poiché il tribunale per i minorenni aveva affermato la sua competenza, il genitore interessato, confidando nel nuovo testo dell'art. 38, 1° comma, d.a. c.c., nella parte in cui prevede la concentrazione delle tutele davanti al giudice ordinario, ha proposto regolamento di competenza, che la S.C. ha rigettato confermando nel caso de quo la competenza del giudice minorile.
Tale decisione mi sembra indiscutibilmente esatta alla luce dell'art. 4, 1° comma, l. 219/2012, che, nel dettare la disciplina transitoria, espressamente prevede che << le disposizioni di cui all'art. 3 si applicano ai giudizi instaurati a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge >> (quindi, ai giudizi instaurati dal 2.1.2013).
3 - Sennonché la S.C. non si è limitata a questa affermazione, ma (forse perché stimolata dalla requisitoria del p.g.) ha voluto enucleare altre rationes decidendi alternative, ognuna delle quali idonea a giustificare il rigetto del regolamento di competenza e, quindi, a mantenere ferma la competenza del giudice minorile.
Indubbiamente è meritorio l'empito nomofilattico che ha ispirato il giudice di legittimità; non apprezzabili, però, mi paiono i risultati cui approda.
A questo punto, però, è doveroso confrontarsi con il nuovo testo normativo.
Dopo aver indicato, nella prima parte del 1° comma dell'art. 38 d.a., i provvedimenti rimasti nella competenza del giudice minorile, nella seconda parte la legge dispone che << Per i procedimenti di cui all'art. 333 resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell'ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell'art. 316 codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate dal primo periodo, spetta al giudice ordinario >>.
Assodato che sono numerosi i problemi suscitati dalla pessima redazione della norma, limitiamoci all'esame di quelli presi in considerazione dalla Cassazione nella pronuncia che si annota.
Il busillis nasce dal fatto che l'interprete è costretto a conciliare la parte in cui si fa riferimento solo al procedimento ex art. 333 c.c. con quella in cui si demanda al giudice ordinario, sempre che si sia verificata la pendenza di un processo di separazione, divorzio o ex art. 316 c.c., anche i provvedimenti contemplati dalla prima parte dell'art. 38, 1° comma, tra i quali il più rilevante è quello sulla decadenza dalla responsabilità genitoriale.
A riguardo si è detto tutto e il contrario di tutto: la qual cosa non deve stupire, visto il modo con cui la norma è stata scritta.
La Cassazione sembra abbia voluto privilegiare la tesi che, cercando di salvare capra e cavoli, da un lato, attribuisce particolare valore al fatto che il legislatore abbia fatto riferimento solo ai << procedimenti di cui all'art. 333 >>, dall'altro, non esclude che in determinate ipotesi il giudice ordinario diventi competente a pronunciare anche i provvedimenti contemplati dalla prima parte del 1° comma dell'art. 38 (tra i quali anche quello ex art. 330 c.c.).
Sicché, il salvataggio della capra e dei cavoli avviene affermando che << l'effetto attrattivo previsto dall'art. 38 si riferisce alla ipotesi della proposizione di un ricorso ex art. 333 c..c. e ai casi in cui l'esame di tale ricorso renda necessaria la pronuncia dei citati provvedimenti e specificamente della decadenza dalla responsabilità genitoriale >> (v. punto 9 della motivazione; il corsivo è mio).
Ergo, secondo la S.C., il giudice della separazione, divorzio o del processo ex art. 316 c.c. può pronunciare anche la decadenza dalla responsabilità genitoriale sole se il procedimento davanti al giudice minorile è stato proposto ai sensi dell'art. 333 c.c. e la necessità del provvedimento della decadenza si sia configurata all'interno di questo procedimento.
Argomentando a contrario se ne inferisce che, se è instaurato un giudizio ex art. 330 c.c., ovvero uno in cui siano chiesti tanto i provvedimenti limitativi della responsabilità quanto quello di decadenza, la competenza resterà sempre del giudice minorile anche nel caso in cui sia in corso uno di quei processi che esercitano la vis attractiva.
In buona sostanza la Cassazione è tornata ad allinearsi all'orientamento affermatosi prima della promulgazione della l. 219/2012, che demandava al giudice della separazione e divorzio il (solo) potere di pronunciare provvedimenti limitativi della potestà parentale, con il di più, oggi, rappresentato dal fatto che il giudice ordinario può anche pronunciare la decadenza dalla responsabilità genitoriale quando la necessità di tale provvedimento emerge nell'ambito del giudizio promosso ai sensi dell'art. 333 c.c.
Con la differenza, però, che allora non erano ancora intervenuti la novella 219/2012 e il principio espressamente codificato della concentrazione delle tutela davanti ad un solo giudice.
Non senza trascurare che la tesi oggi affermata dal supremo consesso non appare a tenuta stagna neppure sotto il profilo della coerenza logica, giacché non so quanto ci sia di logico in una tesi che consente al giudice ordinario di pronunciare la decadenza dalla responsabilità genitoriale nel caso di procedimento instaurato soltanto ai sensi dell'art. 333 c.c. e lo esclude nell'ipotesi in cui il giudizio davanti all'organo minorile sia iniziato solo ai sensi dell'art. 330 ovvero cumulando entrambe le domande (ex artt. 330-333 c.c.).
E non mi si obbietti che la tesi adottata dalla S.C. sarebbe imposta dalla lettera della legge, giacché è agevole replicare che il nuovo testo dell'art. 38, 1° comma, è talmente ambiguo da non essere in grado di esprimere un significato univoco, sicché, come impone l'art. 12, 1° comma, delle preleggi, nel caso in esame per raggiungere un risultato ermeneutico ragionevole è necessario rifarsi all'intenzione del legislatore.
E la ratio legis - su questo non mi sembra che possano sorgere dubbi - è quella di voler assicurare la concentrazione delle tutele davanti ad un unico giudice.
Se poi l'obbiettivo della Cassazione era quello di preservare un margine operativo al giudice specializzato (uscito molto ridimensionato dalla novella 219/2012) e di non oberare eccessivamente il giudice ordinario, alzo le mani perché non saprei che dire.
4 - Altro motivo per cui non sarebbe possibile nel caso in esame l'accentramento delle tutele davanti al giudice ordinario sarebbe rappresentato, secondo la S.C., dalla mancanza del requisito della identità delle parti: e ciò perché la legge impone che il processo che esercita la vis attractiva deve essere in corso tra le stesse parti.
Peccato, però, che la Cassazione non abbia considerato che, nel caso scrutinato, il processo minorile era stato instaurato dal p.m. (la circostanza emerge con chiarezza dal punto 10 della motivazione) e nel processo di divorzio (quello che avrebbe dovuto esercitare la vis attractiva) è previsto l'intervento necessario del p.m., che, in virtù di ciò (cioè intervenendo), acquista la veste di parte processuale.
A tutto concedere, pertanto, vi sarebbe una diversità di poteri processuali tra p.m. agente e p.m interveniente, anche se non va dimenticato che nelle cause matrimoniali (diverse da quelle di separazione) al p.m. viene riconosciuto anche il potere di impugnazione.
Tale rilievo, però, non mi sembra idoneo a fondare il presupposto della mancanza del requisito soggettivo richiesto (identità delle parti).
In un solo caso il problema si pone ed è quello in cui il processo minorile non è iniziato da uno dei genitori o dal p.m., ma da un parente (come consente l'art. 336, 1° comma, c.c.).
In tale ipotesi la lettera della legge, che - lo ripetiamo - prevede che il processo che esercita la vis attractiva debba essere in corso tra le stesse parti, sembrerebbe ostacolare la realizzazione del simultaneus processus.
L'interprete, però, non può limitarsi ad una presa d'atto notarile del dato esegetico, anche perché, come si è detto più volte, lo stesso non brilla per chiarezza.
Ancora una volta è necessario rifarsi alla ratio legislativa, soprattutto se si tiene conto che in casi del genere le decisioni sui minori vengono prese sulla base degli stessi fatti allegati tanto nel processo minorile, quanto in quello ordinario che dovrebbe esercitare la vis attractiva: il che comporta il pericolo, molto concreto, come sanno tutti coloro che si occupano di tali questioni, che sulla base dei medesimi presupposti fattuali si giunga a decisioni di senso opposto.
E' questo il rischio che il legislatore ha voluto scongiurare favorendo la concentrazione delle tutele davanti allo stesso giudice tutte le volte che debbano essere assunte decisioni che riguardino i minori coinvolti nella crisi famigliare.
Se ciò è vero, se, cioè, questa specifica ratio legislativa diventa la bussola che l'interprete deve utilizzare per orientarsi nella galassia di un testo normativo ambiguo e suscettibile di essere riempito di una pluralità di significati spesso opposti, allora non deve essere considerata una grave torsione del dato letterale interpretare quell'espressione "processo in corso tra le stesse parti" come procedimento in cui vengono coinvolte le questioni dei minori figli degli stessi genitori che contendono davanti al giudice ordinario in un processo di separazione, divorzio o instaurato ai sensi dell'art. 316 c.c.
5 - Ed infine siamo all'ultima delle rationes decidendi alternative, che, nell'ottica della S.C., sarebbe idonea ad impedire il simultaneus processus davanti al giudice ordinario nel caso in esame.
Infatti, a dire della Cassazione, << ragioni di economia processuale e di tutela dell'interesse superiore del minore che trovano riscontro nelle disposizioni costituzionali (art. 11 Cos.) e sovranazionali (art. 8 C.E.D.U. e art. 24 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea) impediscono una interpretazione dell'art. 38 che vanifichi il percorso processuale svolto, a seguito di una domanda ex art. 333 c.c., davanti al tribunale per i minorenni anteriormente alla proposizione del giudizio di separazione o divorzio da parte dei genitori. Così come si dimostrano inconciliabili con una interpretazione della citata norma che renda possibile l'uso strumentale del processo al fine di spostare la competenza >> (il corsivo è mio).
Quella appena riportata è un'affermazione che va ben oltre il caso deciso e, se confermata dalla successiva giurisprudenza, appare in grado di ridimensionare drasticamente la portata della nuova normativa.
E' bene essere chiari allora a riguardo.
Nella fattispecie scrutinata dalla S.C. il processo davanti al giudice minorile era iniziato ben prima dell'entrata in vigore della l. 219/2012, sicché, sulla base della disciplina transitoria prevista dalla stessa legge, era agevole negare il simultaneus processus (da svolgersi davanti al giudice del processo di divorzio instaurato dopo la l. 219/2012 ) e sostenere il permanere della competenza del giudice specializzato.
Ma la Cassazione ha detto ben altro, ha detto, cioè, che, anche dopo l'entrata in vigore della novella 219/2012, ove il giudizio ex art. 333 c.c. sia iniziato davanti al giudice minorile prima di quello ordinario idoneo ad esercitare la vis attractiva, comunque dovrebbe permanere la competenza dell'organo giudiziario specializzato: e ciò per le ragioni che si sono innanzi evidenziate.
Non vorrei apparire eccessivamente polemico o irrispettoso, ma con tutta la buona volontà possibile non riesco proprio a capire come da un mero dato cronologico possano derivare tutte quelle violazioni di principi costituzionali o sovranazionali; cioè non riesco a capire come possa essere considerato legittimo il simultaneus processus se realizzato quando il processo minorile inizi dopo quello ordinario e come invece diventi lesivo di fondamentali principi costituzionali e sovranazionali sol perché l'accentramento delle tutela davanti ad un solo giudice venga realizzato quando il processo minorile è instaurato prima di quello davanti al giudice ordinario.
Quanto poi al principio di economia processuale, qui occorre, se non vogliamo restare sul piano delle astrazioni intellettuali, tener conto dell'effettiva intenzione del legislatore.
Si è già detto che la vera ratio legis è costituita dall'accentramento delle tutele davanti ad un unico giudice perché appare razionale che a decidere, sulla base degli stessi fatti, questioni che riguardano i minori coinvolti dalla crisi famigliare sia un unico giudice: pena il rischio che sulla base dello stesso quadro fattuale si possa pervenire a verdetti non solo diversi ma anche contrastanti.
E' evidente che aver di mira questo obbiettivo significa anche perseguire l'economia processuale, visto che con tale espressione deve intendersi non solo la velocizzazione dei circuiti decisionali, ma anche l'evitare la dispersione di energie processuali: ciò che sicuramente avviene allorché sugli stessi fatti (ancorché le causae petendi possano essere non sovrapponibili) si instaurino due diversi giudizi davanti a due diversi giudici.
Detto ciò, non si considera che, ove il processo minorile venga iniziato prima di quello ordinario, ben potrà il giudice specializzato emanare tutti provvedimenti che ritenga opportuni, posto che gli stessi manterranno il loro valore finché, realizzatosi il simultaneus processus, la materia venga nuovamente regolata e decisa dal giudice ordinario.
In questa staffetta tra giudice specializzato e giudice ordinario, conseguente alla diversità cronologica di instaurazione dei relativi giudizi, io non ci vedo nulla di irrazionale o di illegittimo, apparendomi illogico il percorso contrario, quello, cioè, di lasciare in vita due diversi giudizi e due diversi organi giudiziari a regolare la medesima realtà fattuale.
Se vogliamo dirla tutta, ci sarebbe, almeno astrattamente, un solo dato positivo ad ostacolare la tesi che qui si sostiene (e che invece la Suprema corte ripudia): quello rappresentato dall'art. 5 c.p.c.
Non va però dimenticato che il principio della perpetuatio iurisdictionis è un principio positivo e non ontologico, sicché, se non si vuol ragionare sub specie aeternitatis, occorre tener conto che esso può essere modificato o annullato in virtù di una scelta legislativa di segno opposto.
Ed è quello che è avvenuto con l'art. 3, 1° comma, l. 219/2012, dove si è prevista la realizzazione del simultaneus processus davanti al giudice ordinario (con conseguente perdita dell'originaria competenza del giudice specializzato) ove sia in corso uno di quei processi che esercitano la vis attractiva.
Se il legislatore avesse usato la locuzione già in corso, forse la tesi della Cassazione avrebbe avuto un appiglio esegetico, ancorché contraria alla ratio legis.
Ma le parole usate inducono a diverse conclusioni, visto che in esse non è rinvenibile quella differenziazione cronologica che dovrebbe impedire l'accentramento delle tutele davanti ad un unico giudice.
6 - In definitiva, riannodando le file del discorso fin qui svolto, ritengo assolutamente corretta la decisione adottata dalla S.C. nella pronuncia che si annota perché fondata sulla disciplina transitoria dettata dalla l. 219/2012.
Per contro, non mi persuadono tutte le altre rationes decidendi alternative cui la Cassazione è ricorsa non solo per blindare il suo pronunciato, ma sopratutto per fornire indicazione per le future controversie.
Io credo che la ratio legis che ispira la riforma dell'art. 38 d.a. c.c. vada tenuta sempre presente dall'interprete e vada usata come imprescindibile bussola per orientarsi tutte le volte che il testo normativo sia ambiguo e suscettibile di essere riempito di diversi e contrastanti significati.
Certo, capisco che in una tale prospettiva potrebbe verificarsi un drastico ridimensionamento del giudice minorile e per contro un aggravio dei carichi di lavoro del giudice ordinario, visto che l'entrata in vigore della legge è avvenuta senza il necessario adeguamento delle piante organiche che si sarebbe reso necessario in conseguenza di un significativo trasferimento del contenzioso civile dal giudice minorile a quello ordinario.
Ma ciò deve indurci a trovare i rimedi per risolvere questi problemi, non certo a privilegiare interpretazioni che mi paiono in palese contrasto con la scelta legislativa di voler che sia uno solo il giudice chiamato a risolvere le questioni che riguardano i figli minori coinvolti dalla crisi famigliare.