Magistratura democratica
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I criteri di esercizio dell’azione penale. Interviene «il Parlamento con legge» *

di Nello Rossi
direttore di Questione Giustizia

Nel panorama di chiaroscuri della legge delega di riforma del processo - nella quale non mancano profonde zone d’ombra rappresentate da meccanismi processuali destinati a rivelarsi estremamente difettosi alla prova dei fatti e dei processi - la soluzione adottata dal legislatore in tema di criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale sembra comunque preferibile rispetto alle precedenti proposte. In luogo del modello autoreferenziale proposto nel ddl Bonafede, nel quale la definizione dei criteri di priorità avveniva tutta nell’ambito del giudiziario, e dell’opzione della Commissione Lattanzi in favore di «periodici» atti di indirizzo parlamentare e di criteri di priorità «dinamici», il testo della riforma prevede una cornice stabile e vincolante di criteri generali fissata dal «Parlamento con legge», nel cui ambito gli uffici di Procura sono chiamati a predisporre i concreti criteri di priorità. Dall’esame della delega emerge con chiarezza che il compito del Parlamento non consisterà nel compiere scelte di merito e nell’individuare direttamente i settori prioritari dell’intervento penale ma nell’indicare i parametri generali e le procedure che gli uffici dovranno seguire nell’enunciare le loro priorità, adeguate al territorio in cui operano. Nell’articolo si elencano le questioni aperte e i nodi che al legislatore delegato spetterà di sciogliere e ci si interroga sugli obiettivi di fondo della complessa procedura di predisposizione dei criteri nella quale saranno coinvolti il ministero della Giustizia, il Parlamento, gli uffici giudiziari e il CSM. 

Sommario: 1. Riforma del processo penale: sui criteri di esercizio dell’azione penale interviene «il Parlamento con legge» - 2. Le contrastanti reazioni all’innovazione -3. Tre modelli diversi - 3.1. Il modello autoreferenziale del ddl Bonafede: la definizione dei criteri di priorità nell’ambito esclusivo del potere giudiziario - 3.2. Lo schema disegnato dalla Commissione Lattanzi: «periodici» atti di indirizzo del parlamento e criteri di priorità «dinamici» - 3.3. La riforma approvata: una cornice stabile dettata dal «Parlamento con legge» per regolare l’iniziativa delle Procure - 4. I nodi che il legislatore delegato dovrà sciogliere - 4.1. Il ruolo del Ministro della Giustizia - 4.2. La fisionomia della legge cornice - 4.3. I criteri di priorità individuati dagli uffici: scelte e non burocratiche graduatorie - 4.4. Il compito del CSM - 5. Gli obiettivi di fondo della procedura di predisposizione dei criteri di priorità

* * *

1. Riforma del processo penale: sui criteri di esercizio dell’azione penale interviene «il Parlamento con legge»

Dopo il coro delle prese di posizioni della politica sulla legge delega di riforma del processo penale, improntate ad una generica soddisfazione per il risultato raggiunto, è iniziata, nel mondo dei giuristi, una riflessione critica più attenta e ravvicinata su alcuni snodi della riforma che alla prova dei fatti rischiano di rivelarsi estremamente difettosi e contraddittori[1]

Nelle analisi di professori, magistrati e avvocati è stato ricorrente il raffronto critico tra l’articolato normativo elaborato dalla Commissione Lattanzi - giudicato più organico, coerente e coraggioso nel proporre soluzioni di carattere deflattivo ed acceleratorio - e il testo della legge di riforma, frutto di una mediazione politica (la «mediazione Cartabia», appunto, come l’ha definita la stessa Ministra della Giustizia) non solo faticosa e problematica ma anche foriera di squilibri che non tarderanno a rivelare i loro negativi effetti. 

Su di un aspetto, però, la legge delega segna - almeno ad avviso di chi scrive - un miglioramento rispetto alle impostazioni succedutesi nella lunga fase di elaborazione della riforma: la disciplina dei criteri di esercizio dell’azione penale.            

In luogo del modello autoreferenziale proposto nel ddl Bonafede, nel quale la definizione dei criteri di priorità avveniva tutta nell’ambito del giudiziario, e dell’opzione della Commissione Lattanzi in favore di «periodici» atti di indirizzo parlamentare e di criteri di priorità «dinamici», il testo della riforma prevede una cornice stabile e vincolante di criteri generali fissata dal «Parlamento con legge», nel cui ambito gli uffici di Procura saranno chiamati a predisporre i criteri di priorità.

Nelle osservazioni che seguono verranno rappresentate le ragioni che inducono a ritenere la scelta del legislatore preferibile rispetto a quelle prospettate in precedenza. 

Saranno inoltre passate in rapida rassegna le questioni che la legge delega ha lasciato aperte, alle quali il legislatore delegato dovrà fornire risposte, e si ragionerà degli obiettivi di fondo del processo riformatore. 

 

2. Le contrastanti reazione all’innovazione

L’adozione da parte degli uffici di Procura di «criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi...al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre» è ora prevista nella riforma del processo penale come un adempimento obbligatorio[2].

Come è noto il legislatore si è indotto a intervenire in questa materia, delicata e spinosa, sospinto da una duplice esigenza. 

Da un lato ha contato il bisogno di introdurre elementi di ordine, razionalità e trasparenza nell’assegnazione e nella trattazione del carico di notizie di reato affluenti agli uffici di Procura, grazie all’impegnativa adozione di criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale. 

Dall’altro lato è stata raccolta la diffusa insoddisfazione per lo stato delle cose esistenti, nel quale, in assenza di criteri, il puro e semplice richiamo all’obbligatorietà dell’azione penale può celare una più o meno ampia discrezionalità, esercitata di fatto e non accompagnata da una chiara assunzione di responsabilità per le scelte compiute dai capi degli uffici e dai singoli magistrati del pubblico ministero. 

Di qui lo stimolo a introdurre una disciplina delle priorità, riproponendo e generalizzando gli esperimenti realizzati da alcune Procure che – invocando una sorta di stato di necessità scaturente dal rapporto tra i mezzi disponibili e i fini raggiungibili - avevano scelto di esporre in apposite circolari i criteri di priorità adottati nell’esercizio dell’azione penale.  

Se all’origine del recente intervento legislativo stanno sostanzialmente motivazioni identiche o analoghe a quelle dei Procuratori “pionieri”, il passaggio dalle circolari d’ufficio ad una regolamentazione per legge suscita reazioni di segno molto diverso e solleva numerosi interrogativi, destinati ad infittirsi quando l’iniziativa assunta dal governo e dal parlamento acquisirà la sua definitiva fisionomia in sede di attuazione della delega. 

Accanto ai fiduciosi nelle virtù dell’innovazione stanno numerosi scettici, che dubitano dell’effettiva incisività di una normativa sui criteri di priorità e della sua idoneità a modificare realmente la situazione attuale. 

Ci si divide in sostanza tra chi sostiene che cambierà poco o nulla e chi dall’innovazione attende una svolta non solo sul piano dell’efficienza ma anche, e forse soprattutto, sul piano della trasparenza e dell’assunzione di responsabilità nell’esercizio dell’azione penale. 

Inoltre, sul piano teorico sono molti, in particolare tra i magistrati, ad interrogarsi sulla compatibilità del novum legislativo con i principi costituzionali e in particolare sulla eventualità che le disposizioni della delega e del successivo decreto legislativo entrino in rotta di collisione con il canone della obbligatorietà dell’azione penale. 

L’impressione di chi scrive è che, sino ad ora, ci sia confrontati e divisi più sulla formula riassuntiva «criteri di priorità» - che ciascuno ha riempito di contenuti, graditi o sgraditi - che non sul procedimento di enucleazione dei criteri e sulla loro natura. 

Atteggiamento comprensibile e inevitabile[3] sino a quando non vi era ancora una legge e si rimaneva nel campo fluido delle ipotesi più o meno plausibili e delle proposte suscettibili di mutamento e di emenda; ma non più accettabile ora che la legge delega contiene una formulazione impegnativa e ha ormai tracciato il percorso del legislatore delegato. 

Per promuovere il confronto ravvicinato di cui vi è bisogno[4] e per porre su di una solida base ogni ragionamento è utile prendere le mosse dal raffronto tra le successive versioni della norma sui criteri di priorità contenute in tre testi distinti, solo l’ultimo dei quali è divenuto legge. 

Occorre cioè ricorrere alla sinossi, disponendo su tre colonne i passi relativi ai criteri di priorità contenuti nell’originaria proposta Bonafede, nell’articolato normativo della Commissione Lattanzi e nella legge delega infine approvata dal Parlamento, cogliendo le diversità tra i testi e valutando il punto di approdo finale raggiunto. 

 

3. Tre modelli diversi

Dall’esame sinottico emergono differenti percorsi di individuazione dei criteri di priorità. 

 

3.1. Il modello autoreferenziale del ddl Bonafede: la definizione dei criteri di priorità nell’ambito esclusivo del potere giudiziario

Il primo quadro era stato delineato dal Ministro della Giustizia del secondo governo Conte. 

L’art. 3 lett. h) del ddl Bonafede (Atto camera 2345) assegnava al legislatore delegato il compito di: «prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre; prevedere che nell’elaborazione dei criteri di priorità il procuratore della Repubblica curi in ogni caso l’interlocuzione con il procuratore generale presso la corte d’appello e con il presidente del tribunale e tenga conto della specifica realtà criminale e territoriale, delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili e delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti». 

E’ agevole notare, che, nel ddl Bonafede, l’intero circuito di individuazione, di adozione e di controllo sull’attuazione dei criteri di priorità era collocato nell’ambito del giudiziario. 

Innanzitutto si prevedeva che l’inserimento nei progetti organizzativi delle Procure di criteri di priorità trasparenti e predeterminati - finalizzati a selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre - non fosse più rimesso alle scelte dei Procuratori della Repubblica ma divenisse “obbligatorio”. 

Inoltre la doverosa elaborazione dei criteri di priorità era affidata ai capi degli uffici di Procura, chiamati a svolgerla seguendo due ordini di indicazioni, procedurali e di contenuto. 

Sul piano procedurale il testo sottolineava l’esigenza che i criteri venissero formulati attraverso l’interlocuzione con il Procuratore generale presso la Corte d’appello e con il Presidente del tribunale e prevedeva che i dirigenti degli uffici tenessero conto delle indicazioni condivise emerse nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti. 

Sul versante dei contenuti era previsto che, nella redazione dei criteri, venissero prese in considerazione la specifica realtà criminale e territoriale e le risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili, in una valutazione combinata di mezzi e fini. 

Infine nella relazione al ddl si aggiungeva che i criteri, «confluendo nei progetti organizzativi» avrebbero dovuto «tenere conto dei princìpi elaborati in materia dal Consiglio superiore della magistratura». 

L’organo di governo autonomo della magistratura risultava così investito di una funzione di controllo di conformità dei progetti alle indicazioni legislative, controllo che - esercitato secondo principi generali individuati dallo stesso Consiglio Superiore - avrebbe dovuto assicurare anche una relativa uniformità della trama organizzativa delle diverse Procure. 

In definitiva l’iniziativa partiva dagli uffici di Procura (meglio: dai loro dirigenti), si snodava in un confronto tutto interno al contesto giudiziario ed era sottoposta al controllo del Consiglio Superiore della magistratura, che grazie al sistematico esercizio di tale funzione sulla base di principi, assumeva su di sé anche una funzione di indirizzo. 

Il tutto in chiave di totale autoreferenzialità del giudiziario[5] senza alcuno spazio per l’intervento del Parlamento nel delineare la cornice della relativa discrezionalità riconosciuta agli uffici di Procura ed ai loro dirigenti. 

 

3.2. Lo schema disegnato dalla Commissione Lattanzi: valutazioni di politica criminale del parlamento e criteri di priorità dinamici

Profonda la distanza culturale e tecnica di questo modello - tutto interno al potere giudiziario - da quello proposto dalla Commissione Lattanzi. 

La Commissione individuava in questi termini il compito del legislatore delegato: «prevedere che il Parlamento determini periodicamente, anche sulla base di una relazione presentata dal Consiglio Superiore della Magistratura, i criteri generali necessari a garantire efficacia e uniformità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi; prevedere che, nell’ambito dei criteri generali adottati dal Parlamento, gli uffici giudiziari, previa interlocuzione tra uffici requirenti e giudicanti, predispongano i criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi, tenuto conto della specifica realtà criminale e territoriale, nonché del numero degli affari e delle risorse disponibili». 

Nello schema disegnato dalla Commissione spettava al Parlamento determinare i «criteri generali» necessari a garantire efficacia e uniformità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi, mentre in tale quadro dovevano successivamente muoversi gli uffici giudiziari nel predisporre «criteri di priorità» nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi. 

E ciò – si scriveva nella relazione – in «piena coerenza con un’architettura costituzionale nella quale le valutazioni di politica criminale non possono che essere affidate al Parlamento».

Alla “periodicità” degli interventi parlamentari – presumibilmente posti in essere tramite lo strumento fluido dell’atto di indirizzo politico parlamentare – avrebbe perciò fatto riscontro la “dinamicità” dei criteri degli uffici giudiziari, rispondenti agli impulsi di natura politica provenienti dal Parlamento. 

Ad un indubbio merito della Commissione - aver ribadito la centralità dell’intervento parlamentare nella materia[6] – si accompagnava un tratto fortemente problematico, rappresentato dalle caratteristiche degli atti attraverso cui il parlamento avrebbe dovuto pronunciarsi. 

Non si era di fronte ad una legge - destinata a fissare una stabile e vincolante cornice di «criteri generali» per gli uffici giudiziari - ma a periodici atti di indirizzo politico parlamentare, contenenti valutazioni di politica criminale. 

Atti, questi, per loro natura fluidi nel contenuto e nelle forme e per questo maggiormente esposti alle fluttuazioni derivanti dalle mutevoli congiunture politiche, alle occasionali spinte emotive provenienti dall’opinione pubblica e recepite dai parlamentari, nonché agli sconfinamenti dal terreno della fissazione di «criteri generali» alla diretta indicazione di aree di azione da privilegiare e di obiettivi specifici da realizzare. 

Con la possibilità, tutt’altro che remota, che un tale assetto divenisse fonte di attriti e conflitti tra il potere legislativo e quello giudiziario o, all’opposto, venisse interpretato dai protagonisti della vicenda istituzionale, e segnatamente dagli uffici giudiziari, solo come un fondale vago ed indistinto, scarsamente influente sulle loro attività e inidoneo a vincolarle. 

Più in generale si sarebbe riproposto il problema, non nuovo, dell’intarsio tra legge e atti di indirizzo politico del parlamento[7] nella materia dell’esercizio dell’azione penale. 

 

3.3. La riforma approvata: una stabile cornice dettata dal «Parlamento con legge» per regolare l’iniziativa delle Procure

Il terzo – e ormai definitivo quadro - è quello contenuto nella legge n. 134 del 27 settembre 2021 recante Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari.

Nella legge di delegazione si assegna al legislatore delegato una traccia notevolmente diversa da quelle sin qui esaminate, consistente nel «prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili; allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti». 

Leggendo il testo definitivo, che differisce sensibilmente dai primi due, si constata come la griglia di «criteri generali» - che sta a monte della successiva individuazione dei «criteri di priorità» da parte degli uffici di Procura - dovrà essere indicata dal «Parlamento con legge». 

Una formulazione, questa, che sembra ispirata dal desiderio di sottolineare il carattere particolarmente solenne ed impegnativo dell’atto di determinazione dei «criteri generali», evitando percorsi che, pur rimanendo nel quadro della legalità costituzionale, sminuiscano di fatto il ruolo dell’organo legislativo (come nel caso di approvazione dei criteri generali in sede di conversione di un decreto legge o di inserimento delle relative previsioni in uno dei tanti provvedimenti omnibus). 

Una legge cornice, dunque, vincolante per tutti i soggetti che dovranno poi concorrere a definire e verificare l’attuazione dei criteri di priorità e tendenzialmente stabile nel tempo. 

Un ulteriore aspetto su cui vale la pena di richiamare l’attenzione è che la legge delega attribuisce l’iniziativa di individuazione dei criteri di priorità agli uffici del pubblico ministero (ricalcando sul punto il testo del ddl Bonafede e discostandosi dalla proposta della Commissione Lattanzi che imperniava l’iniziativa «sugli uffici giudiziari, previa interlocuzione tra uffici requirenti e giudicanti»). 

Naturalmente ciò non significa che gli uffici di Procura possano operare le loro scelte sui criteri in solitudine o, peggio, in una chiave solipsistica, giacché le interlocuzioni interne agli uffici (con il Tribunale e con la Procura generale presso la Corte di appello) restano assolutamente indispensabili per il buon esito dell’operazione. 

Ma l’espressa menzione della Procura come soggetto motore e responsabile del procedimento si rivela utile per evitare situazioni di stallo nelle ipotesi di valutazioni divergenti, e potenzialmente paralizzanti, tra uffici requirenti e giudicanti, mentre al legislatore delegato resta un ampio spazio per disciplinare le interrelazioni tra uffici, fermo restando il potere di iniziativa delle Procure. 

Infine la norma della legge delega in tema di criteri si chiude stabilendo che, in sede di redazione del decreto legislativo, «la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica» venga allineata «a quella delle tabelle degli uffici giudicanti». 

La previsione dell’allineamento sta ad indicare che mentre oggi il Consiglio Superiore (pur essendo libero di interloquire, di formulare rilievi critici e di valutare l’operato professionale di redazione dei programmi da parte dei capi degli uffici di Procura) conclude la sua attività con una presa d’atto, in futuro recupererà il più ampio potere di approvazione. 

Un siffatto “allineamento” – che dovrà comunque essere rispettoso delle radicali differenze di natura e di scopi dei progetti organizzativi e delle tabelle – sembra destinato, da un lato, a creare le migliori condizioni per il necessario dialogo tra gli uffici e, dall’altro, a consentire al Consiglio Superiore di svolgere efficacemente il suo compito di verifica dell’organizzazione e di un corretto modus operandi degli uffici requirenti e giudicanti. 

In conclusione, sul punto: la sequenza disegnata dalla legge delega prende l’avvio con la legge di “criteri generali” approvata dal Parlamento, prosegue con la predisposizione, entro tale cornice legislativa, degli specifici “criteri di priorità” degli uffici di Procura e si chiude con il controllo e l’approvazione da parte del CSM degli atti di organizzazione sottoposti al suo esame. 

 

4. I nodi che il legislatore delegato dovrà sciogliere

Il sintetico schizzo qui tracciato sulla scorta della legge di riforma lascia aperte non poche questioni, rimesse alle valutazioni ed alle scelte del legislatore delegato. 

Proviamo ad elencarne alcune. 

Chi proporrà la legge sui «criteri generali» menzionata nella delega? 

Quali dovranno essere i contenuti - per così dire necessari e imprescindibili - della legge sui criteri generali e quali le scelte successive degli uffici all’interno della cornice fissata dal parlamento? 

Quanto potrà essere penetrante il controllo del CSM in sede di approvazione degli atti di organizzazione delle Procure? 

 

4.1. Il ruolo del Ministro della Giustizia

Che debba essere il Ministro della Giustizia a proporre al parlamento la legge cornice sui criteri generali sembra risposta così naturale e fisiologica da risultare scontata. 

E’ il Ministro infatti, anche nella sua veste di presentatore al Parlamento della Relazione annuale sull’amministrazione della giustizia, a disporre di un quadro completo dell’assetto organizzativo e delle dotazioni di personale e di mezzi degli uffici giudiziari, nonché dei dati statistici su reati e procedimenti penali. 

Ed è solo a partire da tale patrimonio di conoscenze che si possono individuare le coordinate generali, riguardanti le realtà criminali e le strutture del giudiziario, sulle quali si può chiamare il Parlamento a deliberare. 

 

4.2. I criteri generali fissati dalla legge

Più problematica la risposta al secondo interrogativo posto, concernente la fisionomia della legge cornice di criteri generali emanata dal Parlamento e l’opera successiva di determinazione dei concreti criteri di priorità 

Dalle considerazioni sin qui svolte sul modello prescelto emerge che al Parlamento non si chiede di individuare “direttamente” priorità comunque motivate riguardanti tipologie di reati o fenomeni criminali ma di enunciare “parametri” da prendere necessariamente in considerazione e “procedure” da osservare, disegnando il perimetro obbligato e vincolante entro cui gli uffici di Procura dovranno successivamente muoversi per definire i concreti criteri di priorità. 

Tra i “parametri” ineludibili rientrano naturalmente i dati quantitativi e qualitativi sui reati e sui fenomeni criminali, le specificità dei territori e degli ambienti sociali ed economici, le forme di risposta da apprestare ad emergenze temporanee [8] nonché le disponibilità di risorse umane, materiali e tecnologiche degli uffici requirenti e giudicanti. 

Sul versante delle “procedure”, invece, si collocano le regole sulle interlocuzioni degli uffici di Procura con altri uffici (il Procuratore generale presso la Corte di appello e gli uffici giudicanti) nell’opera di predisposizione dei criteri di priorità nonché sui rapporti con gli enti pubblici territoriali e le collettività di riferimento (ad es. attraverso la istituzionalizzazione e la generalizzazione dell’esperienza dei bilanci sociali degli uffici di Procura). 

In sostanza una legge di “parametri” relativamente flessibili ed adattabili, sulla base di congrue motivazioni, alle realtà locali e di “procedure” in grado di produrre un significativo grado di trasparenza e di assunzione di responsabilità per le scelte operate nella determinazione dei concreti criteri di priorità. 

 

4.3. I criteri di priorità individuati dagli uffici: scelte e non burocratiche graduatorie

Nella seconda fase, concernente l’identificazione delle priorità, va scongiurato il rischio che l’“operazione criteri” si traduca nella redazione di “graduatorie” burocratiche estese all’intera tipologia dei reati (collocati in una scala di trattazione procedente dall’alto verso il basso) prevalentemente costruite sul metro delle pene edittali, che releghi aprioristicamente alcuni tipi di condotte criminose in fasce così basse da renderne ipotetico il perseguimento. 

Una tale interpretazione dei criteri di priorità sarebbe inadeguata e foriera di conseguenze negative su più versanti. 

Da un lato essa renderebbe i criteri di priorità sinonimo di una impropria, implicita e silenziosa depenalizzazione, cancellando nei confronti dei reati collocati nelle fasce basse della graduatoria ogni forma di realistica deterrenza (che paradossalmente sopravvive in un quadro di esercizio disordinato e casuale dell’azione penale). 

Si può legittimamente criticare il legislatore per la continua proliferazione di fattispecie penali e invocare una consistente riduzione dell’area del diritto penale ma non manovrare la leva dei criteri di priorità per rendere palese che determinati reati non potranno comunque essere perseguiti, perché già destinati in blocco alla prescrizione o a richieste di archiviazione. 

Dall’altro lato la lettura che qui si critica non sarebbe rispondente alla lettera della legge di riforma che richiede agli uffici di enunciare con impegnativa chiarezza gli obiettivi “prioritari” della loro azione, per la cui realizzazione assumono responsabilità, e non di dar vita a implicite scelte di rinuncia ad agire nelle aree non qualificate come prioritarie. 

Per rispettare le parole e la ratio dell’intervento legislativo i criteri di priorità dovrebbero perciò riguardare una fascia relativamente ristretta di comportamenti criminosi che gli uffici si impegnano a perseguire con particolare efficacia e celerità in considerazione della loro incidenza quantitativa e qualitativa nel contesto in cui operano e dunque della loro complessiva pericolosità sul territorio. 

In altri termini, se si vuol evitare che l’operazione criteri si traduca in una più o meno burocratica elencazione di reati sulla base dell’entità della pena edittale e divenga invece una seria prospettiva di intervento sui fenomeni criminali peculiari delle diverse aree del Paese, si dovrà mettere in conto che nella fascia delle priorità di un ufficio possano essere inserite condotte in astratto meno gravi ma ricorrenti ed insidiose nell’area di competenza territoriale mentre non vi siano inseriti reati più gravi. 

Ciò non significherebbe affatto che, ove tali reati vengano compiuti, la Procura abbia deciso - o possa decidere- di non perseguirli con mezzi ed in tempi adeguati, bensì che quei reati, per le loro peculiari caratteristiche (ad es. di occasionalità o di eccezionalità rispetto al contesto territoriale di riferimento), non hanno trovato posto in una valutazione preventiva e programmatica di massima, qual’è quella della determinazione dei criteri di priorità. 

L’organizzazione degli uffici di Procura dovrebbe rispecchiare le scelte prioritarie destinando le risorse ritenute adeguate ai settori impegnati nella realizzazione delle opzioni prioritarie ma non potrebbe in nessun caso lasciare sguarniti gli altri fronti di contrasto alla criminalità, abdicando preventivamente ad agire per alcune tipologie di reati. 

In questo quadro il “dinamismo” dei criteri di priorità – la cui utilità è stata opportunamente sottolineata nella relazione della Commissione Lattanzi - sarebbe garantito dal costante monitoraggio degli uffici sulle trasformazioni ed evoluzioni della criminalità nell’area di loro competenza e dalle conseguenti decisioni in tema di priorità e di organizzazione. 

Così interpretata, la normativa in tema di criteri di priorità:

- avrebbe lo scopo di promuovere l’individuazione da parte della Procure di una loro area di intervento particolarmente incisivo e tempestivo; 

- eviterebbe che il Parlamento investito del compito di elaborare una legge di “parametri” e di “procedure” pretenda di dettare direttamente e autonomamente i criteri di priorità entrando nel merito di scelte che la legge delega attribuisce chiaramente agli uffici; 

- non avrebbe l’effetto di ridurre o azzerare, agli occhi della collettività, la deterrenza che si accompagna alla previsione di fattispecie criminose; 

- risulterebbe compatibile con una concezione temperata e realistica dell’obbligatorietà dell’azione penale dei cui tratti si dirà nelle considerazioni conclusive. 

 

4.4. Il compito del CSM 

Come si è già accennato al Consiglio Superiore della magistratura spetterà di chiudere il cerchio dell’opera di individuazione e applicazione dei «criteri di priorità» delle Procure nel quadro dei «criteri generali» dettati dal Parlamento con legge. 

 

L’organo di governo autonomo, per effetto dell’allineamento previsto dalla legge delega, sarà infatti chiamato a controllare ed approvare sia i programmi organizzativi delle Procure sia le “tabelle” degli organi giudicanti. 

Il compito implica, in prima battuta, la valutazione della conformità alle norme di legge degli atti regolatori della vita e dell’azione degli uffici requirenti e giudicanti ma sembra inevitabilmente destinato estendersi a più penetranti valutazioni ed interventi di merito. 

Nel raggio di attenzione del Consiglio potranno infatti rientrare il grado di coerenza e di armonia tra programmi e tabelle; le esigenze di uniformità dell’assetto e dell’attività degli uffici giudiziari; la valutazione delle motivate ragioni che giustificano scelte peculiari e differenziate di contrasto della criminalità; l’adeguatezza dei criteri di priorità e delle scelte organizzative ai contesti territoriali e criminali. 

 

5. Gli obiettivi di fondo della procedura di predisposizione dei criteri di priorità

Quale è il punto di approdo, quale la desiderabile meta di questa complessa operazione organizzativa e procedurale nella quale saranno coinvolti il Governo, il Parlamento, gli uffici giudiziari e il CSM? 

Ad avviso di chi scrive l’obiettivo da raggiungere sta nel promuovere la transizione- culturale ed istituzionale insieme - da una obbligatorietà dell’azione penale postulata in astratto, ma di fatto scarsamente controllabile e deresponsabilizzata, ad una obbligatorietà temperata e realistica[9] e, proprio per questo, esercitabile secondo canoni di trasparenza e corredata da assunzione di responsabilità sociale ed istituzionale per le scelte compiute[10]

Come è noto, negli Stati democratici di diritto è in atto da tempo un processo di avvicinamento tra i due modelli, in teoria antitetici, dell’obbligatorietà e della discrezionalità dell’azione penale. 

Un tale avvicinamento è reso possibile dal parallelo affermarsi di una obbligatorietà realistica, capace di rendere conto delle sue modalità di esercizio, e di una discrezionalità non arbitraria e capricciosa ma attuata secondo rigorose linee guida e sulla base di standard omogenei in conformità al principio di eguaglianza delle persone di fronte alla legge penale. 

Su questo terreno la legge delega promuove, come si è già accennato in precedenza, un significativo passo in avanti. 

Abbandonando l’autoreferenzialità del ddl Bonafede e le tentazioni di impulso politico diretto e contingente che potrebbe derivare dai periodici atti di indirizzo parlamentare contemplati nel testo Lattanzi, la riforma assegna al Parlamento il compito che gli è proprio: disegnare con legge una cornice stabile, chiara e vincolante per la successiva opera degli uffici. 

Favorendo così l’affermarsi di una cultura della discrezionalità, della responsabilità, della rendicontazione del pubblico ministero italiano di cui vi sono non pochi segni nella realtà del nostro Paese ma che certo non può dirsi ancora generalizzata. 


 
[1] Per una analisi complessiva della legge delega n. 134 del 27 settembre 2021 vedi G.L. Gatta, Riforma della giustizia penale: contesto, obiettivi e linee di fondo della legge “ Cartabia”, in Sistema penale on line, 15 ottobre 2021. Cfr. anche F. Palazzo, I profili di diritto sostanziale della riforma, ibidem, 8 settembre 2021. I punti critici messi in luce nella prima fase del dibattito tra gli studiosi sono, come è noto, numerosi e rilevanti. Tra questi figurano:
- il “cattivo” compromesso che ha sommato la prescrizione sostanziale nel primo grado di giudizio alla tagliola della improcedibilità nei gradi successivi, che resta gravido di effetti paradossali e irragionevoli; 
- l’attribuzione al giudice del compito, inedito e improprio, di intervenire con un suo provvedimento sui tempi del processo; 
- la procedura introdotta per la retrodatazione delle iscrizioni delle notizie di reato che, da un lato, vanifica lo sforzo di alcune grandi Procure per razionalizzare modi e tempi delle iscrizioni e, dall’altro, immette nel procedimento la mina vagante di un vizio di inutilizzabilità riproponibile in tutti i gradi del giudizio; 
- più in generale la rinuncia ad alcuni degli istituti di deflazione e di accelerazione immaginati e proposti dalla Commissione Lattanzi o la riduzione della loro portata. 
Su alcuni di questi aspetti mi sia consentito rinviare a due miei scritti entrambi pubblicati sull’edizione on line di questa Rivista: Sui tempi dei processi si profila un cattivo compromesso del 19 luglio 2021 e Iscrivere tempestivamente le notizie di reato. Il pm in bilico tra precetti virtuosi e potenti remore?  del 18 giugno 2021.

[2] Come è noto il Consiglio Superiore della magistratura nella circolare del 16.11.2017 sull’organizzazione degli uffici requirenti aveva già previsto la possibilità che il procuratore della Repubblica potesse elaborare criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti. Ma si trattava di una facoltà e non di un obbligo che non avrebbe potuto essere introdotto in sede di normazione secondaria. Su di un altro versante l’art. 132 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale ha previsto criteri per l’organizzazione dei ruoli dei soli uffici giudicanti.

[3] Sul confronto, da tempo in atto, sul tema dei criteri di priorità cfr. L. Verzelloni, Il lungo dibattito sui criteri di priorità negli uffici giudicanti e requirenti, in Arch. pen. web, 2014, n. 3. 98; N. Galantini, Il principio di obbligatorietà dell’azione penale tra interesse alla persecuzione penale e interesse all’efficienza giudiziaria, in Dir. pen. cont., 23 settembre 2019; L. Russo, I criteri di priorità nella trattazione degli affari penali: confini applicativi ed esercizio dei poteri di vigilanza, ivi, 9 novembre 2016, pp. 4 ss.. Sulla concreta applicazione dei criteri cfr. G. Grasso, Sul rilievo dei criteri di priorità nella trattazione degli affari penali nelle delibere del Csm e nelle pronunce della sezione disciplinare, in Foro it., 2015, III c. 259 ss. 97 e L. Forteleoni, Criteri di priorità degli uffici di procura, in www.magistraturaindipendente.it, 8 aprile 2019.

[4] A tale confronto questa Rivista ha già dato un primo importante contributo con l’ampio saggio di F. Di Vizio, L’obbligatorietà dell’azione penale efficiente ai tempi del PNRR, pubblicato sulla edizione on line del 13 ottobre 2021, che, nel quadro di una più vasta analisi della riforma, dedica al capitolo dei criteri di priorità considerazioni particolarmente attente e puntuali.  

[5] Analoghe considerazioni critiche sulla autoreferenzialità del ddl del Ministro Bonafede sono state svolte da Mitja Gialuz e Jacopo Della Torre nell’articolo Il progetto governativo di riforma della giustizia penale approda alle Camere: per avere processi rapidi (e giusti) occorre un cambio di passo, in Sistema penale, 21 aprile 2020. Per gli autori dello scritto «il principale difetto della proposta Bonafede» sta nel fatto che essa «non affronta il nodo fondamentale che sta al fondo della tematica, ossia l’esigenza di attribuire una legittimazione democratica alle scelte del pubblico ministero. L’errore di fondo è quello di attribuire a un organo politicamente irresponsabile – qual è il procuratore della Repubblica – una delega in bianco a compiere opzioni di politica criminale. I criteri di priorità elaborati dalle procure e avallati dal CSM hanno rappresentato una forma di supplenza rispetto all’incapacità del Parlamento di assumersi la responsabilità di scelte ineludibili. In altre parole, davanti all’inerzia della politica nell’esercitare queste opzioni, alcuni procuratori e l’organo di autogoverno hanno tentato di fissare delle regole. Ora, però, nel momento in cui la politica si incarica di affrontare finalmente una delle tematiche decisive della giustizia penale ci si sarebbe aspettati che fosse attribuito un ruolo centrale al Parlamento nella definizione delle priorità. Ciò non è accaduto nella proposta del Governo. Non resta che auspicare che sia lo stesso Parlamento a rivendicare a sé la responsabilità di dettare le direttive generali in tema di criteri di priorità, le quali potrebbero poi essere specificate, tenuto conto delle peculiarità territoriali, a livello di procure. È evidente la difficoltà di tale prospettiva, ma sarebbe certamente la più rispettosa dell’architettura costituzionale. Ove una tale strada non sia considerata politicamente percorribile, quantomeno è auspicabile che venga chiarito in modo esplicito nel testo della delega, per come oggi configurato, l’obbligo in capo alle procure delle Repubblica di rispettare nella stesura dei criteri di priorità le indicazioni del Consiglio superiore della magistratura, onde assicurare così almeno una certa uniformità tra i parametri adottati a livello locale».

[6] Nel paragrafo 2.6 della Relazione la Commissione, rilevata la necessità di «inserire...il canone dell’art. 112 Cost. in una cornice di coerenza con il concreto carico delle notizie di reato» avanzava una proposta che «mira – offrendo una base normativa adeguata al fenomeno dei criteri di priorità – a garantire trasparenza nelle scelte che si rendono necessarie per dare effettività al principio di obbligatorietà». Sul punto la Relazione proseguiva sostenendo che «in coerenza con un’architettura costituzionale nella quale le valutazioni di politica criminale non possono che essere affidate al Parlamento, si prevede che sia tale organo a stabilire, periodicamente (al legislatore delegato l’onere di indicare il periodo), i criteri generali necessari a garantire efficacia e uniformità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi, facendo riferimento anche ad un’apposita relazione del Consiglio Superiore della Magistratura sugli effetti prodotti dai criteri nel periodo precedente. All’interno della cornice complessiva definita dal Parlamento, gli uffici giudiziari provvederanno in modo autonomo e indipendente a stabilire criteri che tengano conto dell’effettiva realtà locale – tanto sotto il profilo criminale, quanto sotto quello organizzativo – per assicurare un’efficacia concreta alle indicazioni emanate dal Parlamento. Il meccanismo prevede inoltre uno stringente coordinamento tra i criteri fissati dagli uffici di procura e quelli definiti dagli uffici giudicanti per la trattazione dei processi, in modo da evitare fenomeni di disallineamento che si traducono in potenziali ritardi nell’esercizio dell’azione penale. In questo quadro, sono destinati a essere superati i criteri statici cristallizzati nell’art. 132-bis disp. att., che hanno dimostrato in questi anni tutta la loro inidoneità a garantire una razionale ed effettiva trattazione degli affari penali; tali regole generali fissate una tantum faranno posto a criteri dinamici, i quali saranno espressione di scelte effettive di politica criminale e di una puntuale concretizzazione delle stesse da parte degli uffici sul piano territoriale».

[7] Sul tema è intervenuto di recente G. Buonomo, La crescente procedimentalizzazione dell’atto parlamentare di indirizzo politico, scritto pubblicato il 7.10.2021 sull’edizione on line di questa Rivista come anticipazione del numero 4 del 2021 della Trimestrale dedicato alla riforma del processo penale. Nell’articolo sono contenuti ampi riferimenti al dibattito sviluppatosi sul tema della Relazione del Ministro della giustizia nella Commissione parlamentare per le riforme costituzionali presieduta dall’on. Massino D’Alema, nonché alle posizioni assunte dal senatore Marcello Pera che, nella seduta del 13 febbraio 1997, aveva richiesto che si parlasse anche «della non obbligatorietà dell’azione penale oppure della combinazione dell’obbligatorietà dell’azione penale con le direttive», invocando gli insigni giuristi che «ancora nel 1993» in un convegno avevano parlato di «direttive approvate dal Parlamento, in sede di esame del bilancio del Ministero della giustizia oppure della relazione del consiglio superiore della magistratura, di direttive date dal Parlamento alle Procure». L’autore ricorda inoltre che «quando la “bozza Boato” (sul sistema delle garanzie) affacciò per la prima volta il tema della “relazione al Parlamento” del Ministro della giustizia, la discussione in Commissione si sviluppò lungo il delicato crinale del rapporto tra la pronuncia delle Camere e l’obbligatorietà dell’azione penale sancita dall’articolo 112 Cost.».

[8] In questo reticolato occorrerà comunque lasciare aperti gli spazi perché gli uffici rispondano con adeguate motivazioni alle specificità ambientali e locali (ad es. quelle di una Procura transfrontaliera) e per motivare opzioni particolari, magari solo temporanee, indotte da emergenze improvvise o da situazioni impreviste ed eccezionali (ad es. in un’area colpita da un disastro e abbandonata, i furti in appartamento, assurti al rango di fenomeno di sciacallaggio, potrebbero meritare un impegno prioritario e più intenso di quanto avverrebbe in un contesto di normalità).

[9] Nell’ampia letteratura sul tema cfr. da ultimo, P. Borgna, Esercizio obbligatorio dell’azione penale nell’era della “pan-penalizzazione”, in questa Rivista online, 31 ottobre 2019. Si veda anche l’importante contributo di R. Kostoris, Per un’obbligatorietà temperata dell’azione penale, in Rivista di diritto processuale, n. 4/2007. Mi sia consentito infine rinviare a un mio lontano scritto Per una concezione realistica dell’obbligatorietà dell’azione penale, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 2/1997, pp. 309-318.

[10] Nel parlare di concezione realistica dell’azione penale ci si riferisce ad un approccio all’esercizio dell’azione penale caratterizzato da una pluralità di fattori, tra cui: a) una ben calibrata valutazione, nell’ambito di ciascun ufficio di procura, dei mezzi disponibili per operare efficacemente nell’area di competenza, accompagnata...da una esplicita determinazione di “criteri di priorità” nella trattazione degli affari giustificata in nome dell’efficacia operativa, di un impiego oculato delle risorse disponibili e del rapporto tra il numero di procedimenti e il personale e i mezzi di cui dispone l’ufficio; b) una valutazione di sostenibilità dell’accusa particolarmente rigorosa nel discernere i procedimenti di cui chiedere l’archiviazione e quelli per i quali sollecitare il giudizio, sulla scorta di indicazioni del capo dell’ufficio e/o di orientamenti maturati a seguito di confronti collegiali tra magistrati (in particolare dei gruppi specializzati) e di confronti con altri uffici (criterio di selezione oggi reso dalla riforma più stringente, con la previsione che sia richiesta, e disposta, l’archiviazione o che non sia disposto il giudizio, ma emessa sentenza di non luogo a procedere, quando gli elementi acquisiti risultino insufficienti, contraddittori o comunque non consentano una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria in giudizio. Con l’effetto di sostituire alla sostenibilità dell’accusa in giudizio, quale parametro per l’esercizio dell’azione penale o per il rinvio a giudizio, una ragionevole previsione del pubblico ministero e del giudice dell’udienza preliminare che il giudizio dibattimentale si concluda con una sentenza di condanna del responsabile dei fatti addebitati); c) una attenta valutazione sull’effettiva offensività di determinate condotte – astrattamente riconducibili a fattispecie di reato – oggi istituzionalmente reclamata dalla introduzione dell’istituto dell’archiviazione per tenuità del fatto per reati che si collocano entro limiti di pena legislativamente prefissati; d) la ricerca di una linea di condotta comune e coerente in ordine a soluzioni patteggiate dei procedimenti. Per più ampie considerazioni sul tema rinvio al mio scritto Per una cultura della discrezionalità del pubblico ministero, pubblicato nel n. 2 del 2021 della Trimestrale di questa Rivista intitolato Stato di diritto e pubblico ministero in Europa.

[*]

L’articolo è una anticipazione del numero della Trimestrale di questa Rivista che sarà interamente dedicato al tema della riforma del processo penale.

08/11/2021
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