1. In apertura di questo mio breve intervento, desidero innanzitutto ringraziare Mariarosaria Guglielmi per la sua relazione introduttiva: una relazione animata da una profonda passione civile e connotata, al contempo, da un ampio respiro culturale.
Una relazione che restituisce l’immagine e il volto di una magistratura progressista, fortemente impegnata nella difesa dei principi e dei valori costituzionali, di questi individuando partitamente le lesioni e riconoscendone puntualmente le violazioni.
Ma il mio ringraziamento va anche a tutta la dirigenza di Magistratura democratica, per avere organizzato questo congresso e per avere individuato i temi di riflessione associativa con sguardo − ancora una volta − davvero “aperto” verso la società, e rivolto, in particolare, alle sue componenti più deboli.
Nell’odierna “stagione del populismo” (un “populismo”, peraltro, che così apertamente viene rivendicato da chi lo pratica, come ci ha ricordato Nello Rossi nella sua bella introduzione), sono infatti proprio i momenti di riflessione collettiva come questi − sui compiti e sul ruolo della magistratura − che contribuiscono a dare senso e valore alla nostra coscienza professionale; momenti che ci aiutano a ricordare − oggi più che mai − che quella del magistrato non è una professione solamente “tecnica”, né, tantomeno, può essere intesa come una figura puramente “burocratica”.
Da questo punto di vista − permettetemi una breve digressione − la magistratura di orientamento democratico e progressista, a mio parere, deve continuare ad avversare una visione meramente “tecnica” e acritica del ruolo del giudice; una visione che, come sappiamo, negli ultimi tempi sembra prepotentemente riaffiorare in una non piccola parte della magistratura.
Oggi più che mai, allora, il compito della magistratura progressista, tutta, deve essere quello di promuovere − soprattutto tra noi giovani colleghi − una cultura del magistrato quale tutore e garante dei diritti fondamentali, ribadendo con forza che l’orizzonte assiologico della giurisdizione deve identificarsi nella Costituzione e, per altro verso, nelle Carte e nelle Convenzioni europee; nei principi di eguaglianza, di dignità della persona e di solidarietà in esse proclamati; e nella tutela dei diritti in esse sanciti.
2. Ed è proprio a partire da tale orizzonte assiologico che, in questa nostra sessione dedicata al rapporto tra “giudici, popolo e cittadini”, intendo offrire un piccolo contributo al presente dibattito, proponendo soltanto alcuni brevi spunti di riflessione in merito alle più recenti politiche legislative in campo penale; spunti inevitabilmente condizionati dai tempi brevi imposti dalle cadenze congressuali ma, soprattutto, dalla mia inesperienza pratica e “sul campo”.
E come Nello Rossi, anch’io non posso che giovarmi della lucida analisi svolta da Mariarosaria, là dove − nel ricostruire le più recenti linee d’intervento normativo nel tessuto penale italiano − riconosce e denuncia le pericolose «torsioni e deformazioni subite dal diritto penale […], sotto la spinta delle pulsioni ed emergenze del momento», unitamente alla «dilatazione irrazionale dello strumento repressivo e all’abbandono del modello garantista rappresentato dal diritto penale minimo».
Queste torsioni e deformazioni si sono prodotte − lo sappiamo bene − ad opera di due recenti riforme, l’una versata nella legge cd. “spazzacorrotti” e l’altra nel decreto cd. “Salvini”.
La prima ha previsto la perpetuità di talune pene accessorie, anche nell’ipotesi in cui la pena principale non superi i due anni di reclusione; ha stabilito la sopravvivenza anche alla riabilitazione degli effetti penali; ha esteso le fattispecie ostative alla concessione delle misure alternative anche ai reati contro la Pubblica amministrazione, introducendo, infine, la figura dell’agente cd. “sotto copertura”.
Con il secondo provvedimento sono stati invece introdotti il reato di «esercizio molesto dell’accattonaggio» − testualmente definito, nella rubrica, come «delitto», ancorché punito con la pena dell’arresto (da tre a sei mesi), peraltro congiunta con l’ammenda da 3.000 a 6.000 euro − e il reato di blocco ferroviario e stradale (già depenalizzato, seppur in parte, nel 1999); sono state aumentate le pene per il reato di invasione o occupazione di terreni o edifici ed è stata prevista la punizione per l’esercizio abusivo dell’attività di «parcheggiatore».
3. Ebbene, entrambi questi provvedimenti, a mio giudizio, sono accomunati dal medesimo retroterra culturale: ossia, dall’idea della criminalizzazione quale principale strumento di governo dei problemi della società.
Entrambi i provvedimenti, da questo punto di vista, sono il frutto di una politica promotrice di un diritto penale massimo, incurante delle garanzie, interessata soltanto ad assecondare − o peggio ad alimentare − le paure o, per altro verso, gli umori repressivi presenti nella società.
Entrambi i provvedimenti − come ci ha ricordato Mariarosaria Guglielmi − segnano d’altra parte un vero e proprio «salto di qualità» nell’uso demagogico del diritto penale.
In un duplice senso.
Per un verso, infatti, l’irrigidimento dei caratteri selettivi e antigarantisti della repressione penale in essi contenuto − in uno con l’introduzione di nuove figure di reato in danno dei ceti più deboli e marginalizzati − vale ad assecondare, nell’opinione pubblica, il riflesso classista dell’equiparazione dei poveri e degli emarginati ai delinquenti, così deformando l’immaginario collettivo sulla devianza.
Per altro verso, la mobilitazione delle paure e degli umori repressivi presenti nella società dagli stessi indotta − unitamente alla criminalizzazione degli emarginati e dei “diversi” − diviene il principale fattore per la costruzione e il rafforzamento di un’identità collettiva e per l’individuazione di nuovi “nemici”, identificati essenzialmente nei più poveri.
In altri termini, con la mobilitazione contro il diverso e l’emarginato − perseguita tramite la loro penalizzazione − si alimenta e al contempo si soddisfa l'ormai diffuso sentimento d'insicurezza sociale, scaricando così le paure, le frustrazioni e le tensioni sociali irrisolte.
È questo, a mio giudizio, uno dei tratti salienti dell’odierna politica populistica nel campo del diritto penale.
Un diritto penale che, criminalizzando status, condizioni personali e sociali, diviene assai più un diritto penale del reo che un diritto penale del fatto.
Un diritto penale che asseconda l’idea, propria del senso comune, che si debba e si possa punire non per quel che si è fatto ma per quel che si è; e che la giustizia debba guardare al reo dietro al reato, all’identità del “nemico” più che alla prova dei suoi “atti d’inimicizia”.
È chiaro che una simile politica produce una grave deformazione del diritto penale, che da luogo − quantomeno nel suo paradigma costituzionale − dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge diventa, di fatto, il luogo della disuguaglianza e della discriminazione.
Una politica che − e mi avvio così verso la conclusione − appare dunque in contrasto con i principi regolativi del diritto penale, per come disegnati dalla nostra Carta costituzionale; una politica che rischia di travolgere completamente la ragione giustificativa stessa del diritto penale, trasformando quest’ultimo da «legge del più debole contro la legge del più forte che vigerebbe in sua assenza» − secondo la felice espressione coniata da Luigi Ferrajoli − in vera e propria legge «dei più forti», esercitata nei confronti e a scapito «dei più deboli».
[*] È il testo dell'intervento svolto al XXII congresso di Magistratura democratica, sul tema «Il giudice nell’Europa dei populismi», Roma, 1-3 marzo 2019.