Leggendo il titolo, molto suggestivo, di questo convegno, sorge spontanea una domanda: è il Giudice del lavoro che gli organizzatori di questo convegno vorrebbero nocchiere? E la tempesta sarebbe forse l’odierno processo del lavoro? O, piuttosto, un Paese che non è ancora in grado d’indicare una direzione per la giustizia del lavoro?
Le domande non sono retoriche. Io ho ritenuto, non so con quale e quanta legittimità, d’interpretare questo titolo e quell’allusione in questa maniera: abbiamo conosciuto, in Italia, un contesto culturale che, almeno in una certa fase, ha preteso un processo del lavoro senza giudice/nocchiere, ritenendolo colpevole dell’andamento ondivago della navigazione.
Ma quel nocchiere ha ritenuto necessario riprendere la barra, per consentire al lavoro – non solo alla giustizia del lavoro – di traversare la tempesta e, forse, uscirne.
Fuor di metafora, mi pare che, nei primi anni del nuovo secolo, il giudice del lavoro sia stato oggetto di un fuoco di fila senza precedenti.
Mi riferisco a quella letteratura, di matrice economica, che ha imputato al diritto del lavoro di produrre incertezza, accusando il giudice del lavoro di essere – come è stato scritto – un “fattore di turbamento” frenando la propensione delle imprese ad assumere sia con contratti di lavoro flessibili sia con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Questo è stata la cifra fondamentale delle riflessioni di economisti …ma anche il contesto di molta parte della riflessione nostrana, rimbalzata sulle pagine dei giornali e nel mondo della politica, specie nel periodo del Governo Renzi e del ministro Poletti (2014-2015).
Nella stagione compresa tra il c.d. collegato lavoro (l. 183 del 2010) e il Jobs act (d.lgs. n. 23 e 81 del 2015), come riflesso di questo contesto culturale, si sono susseguiti una molteplicità di interventi accomunati da una medesima cifra: marginalizzare il ruolo del giudice e ridurne le possibilità d’intervento nelle fasi più delicate del rapporto di lavoro: assunzione con contratti flessibili e recesso dal contratto standard ovvero quello a tempo indeterminato.
Come rilevato dai commentatori, il “contesto culturale” al quale faccio riferimento è ben riassunto in una norma-manifesto, di dubbia efficacia precettiva, di cui parlavamo molto 10 anni fa (e che aggiungo è stata oggetto delle prime “autoconvocazioni” degli avvocati di lavoro che poi si sarebbero riuniti in quella che oggi è l’associazione Comma2): l’art. 30 del collegato lavoro del 2010, quella che – come ricorderete – stabilisce che nell’applicazione delle c.d. norme aperte «il controllo del giudice è limitato esclusivamente all’accertamento del presupposto di legittimità e non può estendersi al sindacato di merito sulle valutazioni tecnico, organizzative e produttive, le quali spettano al datore di lavoro e committente».
Ebbene, alla luce di quel discorso sul diritto e sul processo del lavoro, si sono susseguite una serie molte rilevante di innovazioni normative di carattere sia sostanziale sia processuale.
Provo ad accomunarle, in ordine non cronologico, su questi due binari non sempre facili da distinguere e spesso fortemente intrecciati:
- forfettizzazione del danno, sia nel caso della trasformazione del contratto a termine illegittimamente apposto (art. 32, collegato lavoro) sia nel caso del licenziamento illegittimo (nuovo art. 18, secondo, terzo e quarto comma). Una forfettizzazione che pone un tetto massimo al danno, che non viene conseguentemente integralmente risarcito. Inutile dire che quest’approccio ha guadagnato la sua massima intensità nella disciplina del contratto a tutele crescenti, con indennità da licenziamento illegittimo quantificabile, ex ante, sulla base della sola anzianità di servizio e con il giudice ridotto al ruolo di contabile.
- interventi a definire dei “confini” per le norme aperte (giusta causa, giustificato motivo oggettivo, “equivalenza professionale”, c.d. causalone nei rapporti a termine, ecc.). Qui, sotto l’ombrello della norma manifesto che prima ho richiamato, si sono sviluppati itinerari diversi, anche in grado di fuoriuscire dalla sua ombra:
a) nel 2010 si è insistito sulla tipizzazione negoziale delle norme aperte (e sulla loro certificazione)
b) nel 2012 si è utilizzata tale “tipizzazione” per differenziare (in modo come noto assai rilevante) le conseguenze derivanti dal licenziamento disciplinare illegittimo, con reintegrazione prevista nel solo caso d’insussistenza del fatto o di tipizzazione preventiva della sanzione solo conservativa per espressa previsione del codice disciplinare e del contratto collettivo;
c) nel 2014 (e poi nel d.lgs. n. 81/2015) si prevede l’a-casualità dei rapporti a scadenza (c. a termine e somministrazione a tempo determinato)
d) nel 2015 si sostituisce il canone di equivalenza professionale per il legittimo esercizio dello ius variandi in senso orizzontale con il canone contrattual-collettivo.
Ed ancora in questo quadro si interviene con il regime delle decadenze dell’art. 32 via via esteso a ricomprendere fattispecie ulteriori rispetto al licenziamento.
Tutte innovazioni tese a comprimere la latitudine del controllo giudiziale, in entrata, in uscita e anche dentro il rapporto di lavoro, come avviene per le mansioni.
In questo contesto culturale si colloca, a mio avviso, anche una certa “ritrosia” dei giudici del lavoro a far pieno uso dei propri poteri istruttori anche d’ufficio (421 c.p.c.) già su cui già si sono soffermati gli interventi che mi hanno preceduto, smarrendo quel ruolo di “garante” della giustizia che il legislatore del 1973 intendeva attribuirgli, a tutela del lavoratore/ricorrente.
Ebbene, l’evoluzione normativa, oggi, non è stata certo demolita.
Ma mi pare di poter osservare – e doveroso sottolineare – significativi elementi di controtendenza, tanto sul versante legislativo che su quello giurisprudenziale. Segnalo rapidamente i più significativi per poi svolgere una considerazione conclusiva.
Sul piano della legislazione, l’aspetto più rilevante mi pare la reintroduzione delle causali giustificative nei rapporti flessibili ad opera del decreto dignità. Peraltro, benché solo dopo i primi 12 mesi, in termini più stringenti e rigorosi del vecchio “causalone”.
Sul piano della giurisprudenza, specie costituzionale, demolizione dell’algoritmo delle tutele crescenti, con piena “reintegrazione” non del lavoratore ma certamente del giudice del lavoro nel ruolo di quantificazione del danno da licenziamento illegittimo
Perché ciò è avvenuto? Perché le novità affacciatesi dal 2018 in avanti sono state migliori di quelle precedenti? Il governo giallo-verde di Lega e 5 Stelle era tanto migliore di quelli che lo hanno preceduto? La giurisprudenza è forse più progressiva del legislatore? Forse, invece, anche questi segnali – che tengono giustamente in maggior conto i c.d. “vincoli di sistema” – sono sintomatici di un contesto culturale.
Lo dico perché, come spesso usava dire Luigi Mariucci, non solo il diritto del lavoro è una finestra sul mondo delle relazioni sociali e di lavoro ma è anche un ottimo termometro del “contesto culturale”, un indicatore dei movimenti che si avvertono nella società.
Ebbene, io ho l’impressione che, nella percezione sociale, il bisogno di stabilità dei rapporti di lavoro, i limiti alla precarietà dei contratti flessibili sia stato avvertito con forza dopo l’aspra stagione del Jobs act. Così come credo che le lotte dei riders abbiano contribuito ad accendere un faro sulle forme di lavoro più esposte e intermittenti, più instabili e insicure, tanto da comportare un’effettiva estensione del raggio d’azione delle tutele lavoristiche.
Ma attenzione: si tratta di un contesto culturale che già rischia di essere travolto dalla pandemia e dai suoi effetti.
Sicché iniziative come questa sono preziose. Com’è preziosa una giurisprudenza che rivendica la funzione originaria che al processo del lavoro fu conferita: fare giustizia degli abusi che si consumano in un rapporto a naturale vocazione asimmetrica, costruendo il processo come spazio di democrazia, dove lo squilibrio è, se non annullato, per lo meno significativamente attutito.
Relazione svolta in occasione del convegno omonimo in data 14 maggio 2021