1. La fattispecie esaminata
Con la sentenza n. 25201 del 7 dicembre 2016 la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione è intervenuta sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo sposando, tra i due orientamenti interpretativi che da molti anni dividono dottrina e giurisprudenza, quello più incline a proteggere lo spazio della libera iniziativa economica privata.
Il caso esaminato dalla Suprema Corte aveva ad oggetto il licenziamento intimato nel 2013 al direttore operativo di una società per azioni e motivato “dall’esigenza tecnica di rendere più snella la c.d. catena di comando e quindi la gestione aziendale”. La Corte d’Appello di Firenze, riformando la sentenza di primo grado, aveva giudicato illegittimo il licenziamento per mancanza di prova dell’esigenza datoriale di “fare fronte a sfavorevoli e non meramente contingenti situazioni influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva ovvero per sostenere notevoli spese di carattere straordinario”, precisando che il recesso non potesse essere motivato “soltanto dalla riduzione dei costi e, quindi, dal mero incremento del profitto”. La Corte fiorentina ha ritenuto insufficiente a giustificare il licenziamento “la dimostrazione dell’effettività della riorganizzazione” ed assorbita ogni questione relativa all’obbligo di repechage.
La Suprema Corte ha cassato la sentenza della Corte d’appello di Firenze giudicando erronea, per violazione di legge, l’interpretazione dalla stessa adottata.
2. I due orientamenti in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo
La Suprema Corte dà atto, nella sentenza n. 25201/16, dei due orientamenti interpretativi che da tempo si sono formati sul tema del licenziamento per giustificato motivo oggettivo: il primo, seguito dalla Corte fiorentina, esige che il licenziamento sia determinato dalla necessità di far fronte a situazioni sfavorevoli non contingenti che impongano scelte in termini di riassetto organizzativo dell’azienda e, tra queste, la necessità di sopprimere determinati posti di lavoro; il secondo afferma la legittimità della risoluzione del rapporto di lavoro decisa dall’imprenditore a seguito di riorganizzazioni e ristrutturazioni aziendali dal medesimo adottate nell’esercizio della libera iniziativa economica, quali ne siano le finalità e quindi anche quelle volte al risparmio di costi o all’incremento dei profitti.
La sentenza dà atto, inoltre, della convergenza dei due orientamenti su due aspetti: l’esistenza di un limite all’esercizio del potere datoriale rappresentato dalla non pretestuosità della scelta organizzativa; il riconoscimento del potere giudiziale di controllo sull’effettività della scelta medesima e sul nesso causale tra questa e la soppressione del posto di lavoro.
3. La motivazione adottata dalla Suprema Corte n. 25201
Questi i principali passaggi argomentativi della pronuncia in esame:
- In base all’interpretazione letterale dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, deve escludersi che il licenziamento per motivo oggettivo sia giustificato solo in presenza di un “presupposto fattuale… identificabile nella sussistenza di situazioni sfavorevoli o di spese notevoli di carattere straordinario cui sia necessario far fronte”.
- La disposizione citata, nel suo significato testuale, richiede solo che il licenziamento sia determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa e tra queste “non possono essere aprioristicamente o pregiudizialmente escluse quelle che attengono ad una migliore efficienza gestionale o produttiva ovvero anche quelle dirette ad un aumento della redditività d’impresa”.
- La diversa interpretazione, priva di supporto letterale, è difatti “patrocinata sulla base di elementi extra-testuali e di contesto e trae origine nella tesi dottrinale della extrema ratio secondo cui la scelta che legittima l’uso del licenziamento dovrebbe essere socialmente opportuna”.
- Tale interpretazione “non appare… costituzionalmente imposta”. “L’art. 41, co. 3, Cost., riserva al legislatore il compito di determinare i programmi e i controlli opportuni perché l’iniziativa economica pubblica e privata possa essere indirizzata a fini sociali. Fermo il vincolo invalicabile per cui l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, essa “è libera” (art. 41, co. 1, Cost.) nei limiti stabiliti dal legislatore al quale non può sostituirsi il giudice”.
- “Se è vero che, in via meramente ipotetica, la norma potrebbe stabilire – nella cornice costituzionale innanzi detta – che il licenziamento per motivo oggettivo possa ritenersi giustificato solo in presenza di una accertata crisi d’impresa, è anche vero che ove ciò non faccia espressamente, come nel caso dell’art. 3 della L. n. 604 del 1966, tale condizione non è ricavabile aliunde in via interpretativa”.
- “Pertanto esigere la sussistenza di una situazione economica sfavorevole per rendere legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo significa inserire nella fattispecie legale astratta disegnata dall’art. 3 della L. n. 604 del 1966 un elemento fattuale non previsto, con una interpretazione che trasmoda inevitabilmente, talvolta surrettiziamente, nel sindacato sulla congruità e sulla opportunità della scelta imprenditoriale”, in contrasto con quanto costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità ed espressamente statuito dall’art. 30, co. 1, della L. n. 183 del 2010. Né l’interpretazione accolta presenta profili di tensione con l’ordinamento dell’Unione europea.
4. Licenziamento come extrema ratio: tesi priva di riferimenti testuali nell’art. 3 L. n. 604 del 1966
La pronuncia in esame censura l’opposto orientamento giurisprudenziale, anzitutto, in ragione di una errata interpretazione letterale dell’art. 3 L. n. 604 del 1966, in cui verrebbe arbitrariamente inserito, quale presupposto di legittimità del recesso, un elemento fattuale non previsto, cioè la situazione economica di crisi.
In realtà, se si esamina l’ampio repertorio giurisprudenziale che a partire dagli anni ’80 ha elaborato e argomentato l’interpretazione seguita dalla Corte fiorentina, non si rinviene alcun riferimento al dato testuale dell’art. 3 L. n. 604 del 1966 quale base della nozione di licenziamento per ragioni economiche come extrema ratio, legittimo solo per far fronte a situazioni sfavorevoli non contingenti. Le numerose pronunce di legittimità sul punto, quelle stesse richiamate nella sentenza del 2016, non ricavano il suddetto “presupposto fattuale” dalla lettera dell’art. 3 citato ma ad esso fanno riferimento nell’attività di integrazione giuridica necessaria ai fini dell’applicazione della clausola generale utilizzata dal legislatore del 1966. D’altra parte, è proprio il ricorso alle clausole generali, di giusta causa e giustificato motivo, che esprime una precisa opzione legislativa nel senso della rinuncia ad esplicitare ed elencare i requisiti fattuali di legittimità del licenziamento per rimetterne, invece, la concreta individuazione al giudice, tenuto a conformarsi ai principi generali dell’ordinamento e agli standards valutativi esistenti nella realtà sociale, nella cornice dei beni tutelati dalla Costituzione.
È vero, come sostenuto nella sentenza n. 25201/16, che il legislatore avrebbe teoricamente potuto stabilire che “il licenziamento per motivo oggettivo (fosse)… giustificato solo in presenza di una accertata crisi d’impresa”, introducendo quest’ultimo elemento in modo espresso nell’art. 3 tra i requisiti fattuali di legittimità del recesso, e che ciò non abbia pacificamente fatto. Tuttavia, la circostanza che la previsione normativa non sia stata formulata in tal senso, non comporta che non possa attribuirsi alcuna rilevanza al predetto elemento fattuale e non si possa considerare lo stesso quale requisito implicito di legittimità del recesso. Il tenore letterale dell’art. 3 L. n. 604 del 1966 rivela unicamente che il legislatore non ha percorso la strada della specifica individuazione delle fattispecie integranti il giustificato motivo oggettivo ma che ha fatto ricorso alle clausole generali. In tal modo, ha volutamente demandato all’interpretazione giudiziale il compito di riempire di significato quelle clausole, avendo quale punto di riferimento il sistema di valori e di beni coinvolti nel rapporto di lavoro e tutelati, nella perenne esigenza di contemperamento, dalla Carta Costituzionale e dalla legislazione attuativa della stessa. Non è vero, quindi, che la condizione di crisi dell’impresa, solo perché non oggetto di espressa previsione letterale, non sia “ricavabile aliunde in via interpretativa” e che essa sia solo frutto del recepimento della “tesi dottrinale della extrema ratio secondo cui la scelta che legittima l’uso del licenziamento dovrebbe essere - socialmente opportuna“. Tale accusa rivolta all’opposto orientamento, di acritico, extratestuale e ideologico recepimento di una tesi dottrinale, non tiene conto di un passaggio obbligato nell’applicazione della clausola generale e cioè della necessaria attività di integrazione giuridica del precetto. O meglio, nega che una interpretazione come quella seguita dalla Corte fiorentina, e da ampia giurisprudenza di legittimità, trovi spazio e supporto nei principi generali dell’ordinamento e negli standards di civiltà del lavoro.
5. Licenziamento come extrema ratio: tesi non costituzionalmente imposta
Difatti, col secondo argomento la sentenza in esame censura l’interpretazione seguita dal giudice d’appello in quanto “non… costituzionalmente imposta”.
La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi, attraverso il vizio di violazione di norme di diritto (art. 360, co. 1, n. 3, cpc), sulla corretta ricognizione del contenuto precettivo dell’art. 3 L. n. 604 del 1966, prende in debita considerazione da un lato, la tutela del lavoro garantita dalla Costituzione e dall’altro la libertà di iniziativa economica privata contemplata dal primo comma dell’art. 41 Cost.. Consapevole della necessità di un contemperamento tra questi beni e valori contrapposti, necessariamente coinvolti nel rapporto di lavoro, il giudice di legittimità individua, anzitutto, un limite oltre il quale reputa che la tutela del lavoro non possa spingersi. La sentenza individua tale limite non in senso generale ed astratto ma in relazione alla specifica fattispecie oggetto di causa e sostiene che la tutela del lavoro non possa essere garantita fino al punto di far ritenere che il datore possa licenziare il dipendente solo se in situazione di crisi. Si legge nel par. 5.2. della sentenza, che la tutela del lavoro garantita dalla Costituzione “non consente di riempire di contenuto l’art. 3 della L. n. 604 del 1966 sino al punto di ritenere precettivamente imposto che, nel dilemma tra una migliore gestione aziendale ed il recesso da un singolo rapporto di lavoro, l’imprenditore possa optare per la seconda soluzione solo a condizione che debba far fronte a sfavorevoli e non contingenti situazioni di crisi”. E la ragione per cui non sarebbe consentito riempire di tali contenuti l’art. 3 deve ricercarsi, secondo la Suprema Corte, nei confini della tutela costituzionale del lavoro, che non include il diritto alla conservazione del posto, rispetto all’iniziativa economica privata chiaramente proclamata come “libera”, e nelle concrete forme attuazione che delle garanzie costituzionali ha dato il legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità. Al legislatore, infatti, puntualizza il Supremo Collegio, “compete… sancire se il fine sociale cui può essere coordinata o indirizzata l’attività economica anche privata, nella scelta tra una più efficiente gestione aziendale ed il sacrificio di una singola posizione lavorativa, debba necessariamente seguire la strada di inibire il licenziamento individuale”.
6. La discrezionalità del legislatore
Premesso che unicamente al legislatore compete stabilire il fine sociale dell’attività di impresa e, di conseguenza, la portata e la misura dei limiti che in nome dell’utilità sociale possono essere imposti alla libertà di iniziativa economica, la sentenza in esame esclude che la situazione di crisi aziendale possa desumersi, quale requisito implicito di legittimità del recesso, sia a livello letterale e sia aliunde a livello interpretativo, dalla legislazione applicabile alla fattispecie oggetto di causa.
In realtà, la Suprema Corte non spiega in concreto come la tesi del licenziamento inteso quale extrema ratio possa risultare incompatibile con l’assetto dei principi costituzionali inverati dalla legislazione sul lavoro del 1966 e del 1970 (la sentenza non fa alcun cenno al mutamento di paradigma intervenuto col decreto legislativo n. 23 del 2015) ma svolge una serie di considerazioni sulla discrezionalità legislativa e sulle libere scelte imprenditoriali che hanno come presupposto logico il riconoscimento alla libertà d’impresa di un ruolo prevalente sulla tutela del lavoro. La sentenza puntualizza come l’art. 41 co. 3 Cost. affidi al legislatore “il compito di determinare i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” e lascia intendere come l’esercizio di tale potere legislativo non si sia tradotto nella previsione del licenziamento per motivi economici come extrema ratio. Puntualizza come spetti all’imprenditore stabilire liberamente la dimensione occupazionale dell’azienda, sia nella fase genetica ma anche durante la vita dell’azienda, e come tale scelta non risulti sindacabile al di fuori dei confini stabiliti dal legislatore, lasciando intendere che non siano positivamente ravvisabili confini coincidenti con la tesi della extrema ratio e come sia pertanto preclusa al giudice ogni interferenza sul punto. Addirittura, la sentenza si cimenta in un esercizio che appare teorico ma probabilmente non è tale, facendosi interprete dei possibili modi di esercizio della discrezionalità legislativa in questa materia: “Chi legifera può diversamente ritenere che l’interesse collettivo dell’occupazione possa essere meglio perseguito salvaguardando la capacità gestionale delle imprese di far fronte alla concorrenza dei mercati e che il beneficio attuale per un lavoratore a detrimento dell’efficienza produttiva possa piuttosto tradursi in un pregiudizio futuro per un numero maggiore di essi” e che “la prospettiva individuale della difesa del singolo rapporto di lavoro potrebbe anche pregiudicare… l’intera comunità dei lavoratori dell’azienda interessata”. La sentenza quindi sembra fare propria la tesi, già esposta in Cass. n. 23620/15, secondo cui l’utile gestione dell’impresa costituisca di per sé un bene per l’intera comunità, con la conseguenza che dovrebbe ritenersi costituzionalmente imposta una più forte protezione, rispetto alla tutela del lavoro, dell’iniziativa economica privata e della sua libertà in quanto garanzia di maggiore produttività che coincide, per definizione, con l’interesse collettivo e con l’utilità sociale. Assunto che poggia, in realtà, su basi assai deboli, sia dal punto di vista giuridico e sia secondo i dati socio-economici. Che la garanzia alle imprese di ampia libertà per ottenere più alti profitti si traduca in un beneficio per la comunità dei lavoratori costituisce asserzione assolutamente non dimostrata ed anzi smentita sia dalla connotazione del profitto quale interesse essenzialmente personale dell’imprenditore e sia dalle numerose indagini economiche che hanno sfatato il mito della maggiore occupazione quale conseguenza di una più accentuata flessibilità concessa alle imprese. Non solo i dati OCSE[1] supportano e avvalorano lo “scetticismo sulla effettiva capacità delle politiche di deregolamentazione del lavoro di stimolare l’occupazione e la crescita economica” ma appare anche acclarato come “le politiche di flessibilità del lavoro avrebbero un impatto non sulla crescita dell’occupazione e del reddito quanto piuttosto sulla sua distribuzione”. Tali politiche, difatti, “indeboliscono i sindacati, riducono il potere contrattuale dei lavoratori, deprimono la dinamica salariale e quindi favoriscono l’aumento degli indici di disuguaglianza tra i redditi e la divaricazione tra salari e profitti”[2], confermando il dato della sostanziale privatizzazione dei profitti d’impresa, senza alcun positivo effetto sul bene per l’intera collettività.
Gli argomenti spesi nella sentenza in esame non paiono quindi in grado di fornire un solido fondamento giuridico al minor peso, rispetto alla libertà imprenditoriale, che la stessa assegna alla tutela del lavoro, all’interesse dei lavoratori alla stabilità, intesa quale diritto a non essere licenziati se non in presenza di un giustificato motivo, ed alla dignità umana in tali dinamiche necessariamente coinvolta.
7. Le scelte imprenditoriali insindacabili
Oltre alla discrezionalità legislativa, con i contenuti sopra ricostruiti, la Suprema Corte invoca a sostegno dell’interpretazione data il divieto, per il giudice, di ingerirsi nelle scelte imprenditoriali, non avendo il primo “strumenti conoscitivi e predittivi che consentano di valutare quale possa essere la migliore opzione per l’impresa e per la collettività”. In modo quasi impercettibile, la sentenza sposta il focus dell’indagine dal contenuto precettivo della clausola sul giustificato motivo oggettivo alle scelte imprenditoriali, finendo per confondere i due piani e per non distinguere più le “ragioni”, intese come causa della decisione riorganizzativa dell’imprenditore, e le “scelte” da questi adottate nell’esercizio della libera iniziativa economica. Ciò è evidente in numerosi passaggi, ad esempio, dove si sottolinea che “il controllo sulla necessità o sulla inevitabilità del singolo recesso sottende un sindacato su congruità ed opportunità della scelta organizzativa nella misura in cui ritenga che la soppressione del posto sia sempre eludibile quando non vi è crisi d’impresa o perdita di bilancio”. Non solo, mentre è assolutamente netta nell’escludere la necessità di una situazione di crisi quale presupposto fattuale del legittimo recesso, la sentenza è assolutamente generica ed imprecisa nella individuazione del contenuto delle “ragioni”. Queste, nella ricostruzione accolta dalla sentenza in esame, possono indifferentemente attenere “ad una migliore efficienza gestionale o produttiva” oppure essere dirette “ad un aumento della redditività dell’impresa” o a “salvaguardare la competitività nel settore”, il che conferma ulteriormente la confusione tra le cause a monte, che dovrebbero avere requisiti di oggettività per essere suscettibili di verifica giudiziale di legittimità, e le scelte a valle, con i connessi obiettivi perseguiti dall’imprenditore, di carattere invece soggettivo e discrezionale ed estranee alla sfera del giustificato motivo oggettivo.
Le “ragioni” attengono ai presupposti giustificativi del potere di recesso, includono quelle cause che rendono necessario, cioè determinano, l’intervento riorganizzativo da cui consegue la soppressione del posto di lavoro e possono ricorrere, oltre che nelle situazioni di crisi di carattere non transitorio, più in generale, a fronte di condizioni di irrazionalità ed inefficienza organizzativa che impongano un intervento volto ad eliminare disfunzioni nelle dinamiche aziendali. Tali ragioni rientrano nella sfera di valutazione del giudice in quanto componenti dei presupposti di legittimità del recesso. Il giudice non può decidere della legittimità o illegittimità di un licenziamento se non passando attraverso la verifica, in base a criteri oggettivi e razionali, della sussistenza di tali ragioni e della idoneità delle stesse ad integrare un giustificato motivo di recesso. Così, nel caso oggetto della sentenza in esame, la decisione aziendale di “rendere più snella la c.d. catena di comando” avrebbe dovuto essere corredata da “ragioni”, cioè da elementi, oggettivi e verificabili giudizialmente, atti a dimostrare, ad esempio, le disfunzioni organizzative dell’assetto esistente, le ricadute negative sulle potenzialità produttive, l’esistenza di motivi seri e non eludibili di intervento. Altro sono le decisioni che l’imprenditore assume liberamente per far fronte alle cause che rendono necessaria una modifica organizzativa, sulla cui bontà e congruità non compete al giudice intervenire, eccetto che per rilevare il nesso causale delle stesse rispetto alle “ragioni” esistenti a monte. Su un piano del tutto diverso si pongono poi gli obiettivi perseguiti dall’imprenditore e il fatto che la sentenza tratti indifferentemente di ragioni ed obiettivi è sintomatico dell’approccio distorto adottato e che, appunto, confonde le cause che rendono necessario l’intervento riorganizzativo ed i fini, anche di mero profitto, che attraverso le scelte discrezionali l’impresa mira a conseguire.
La Corte insomma perpetua l’equivoco consistente nel sovrapporre e far coincidere il giustificato motivo oggettivo con le scelte imprenditoriali, con la conseguenza di precludere ogni spazio alla valutazione del giudice che, ove effettuata, investirebbe inevitabilmente, proprio a causa della sovrapposizione creata, lo spazio della libera iniziativa economica. Preoccupata di troncare ogni interpretazione idonea a “trasmoda(re)… nel sindacato sulla congruità e sulla opportunità della scelta imprenditoriale”, non si sofferma sulla portata e sul ruolo delle clausole generali che anzi richiama, essenzialmente, per declamare i limiti al controllo giudiziale posti, in relazione ad esse, dall’art. 30 L. n. 183 del 2010. In tal modo, la sentenza arriva a creare una inaccettabile asimmetria tra le categorie giuridiche rispettivamente di giusta causa/giustificato motivo soggettivo di licenziamento e quella inerente alle ragioni economiche integranti il giustificato motivo oggettivo di recesso. Solo rispetto ai licenziamenti disciplinari restano salvaguardati sia l’esigenza di estrema gravità della causa idonea a determinare l’estinzione del rapporto (tale da non consentire la prosecuzione neanche provvisoria dello stesso o costituente notevole inadempimento degli obblighi contrattuali), quale presupposto di legittimità del licenziamento, e sia il controllo giudiziale su tale presupposto, anche in difformità dalla valutazione datoriale. Meccanismo invece precluso nel caso di licenziamento per motivo oggettivo, secondo la tesi accolta dal filone seguito dalla sentenza del 2016, risultando annullata ogni distinzione tra causa determinante, quindi “ragioni”, e scelte imprenditoriali insindacabili e quindi soppresso qualsiasi potere giudiziale di controllo del presupposto di legittimità.
La sentenza del 2016 sfugge così al compito che il legislatore del 1966 aveva affidato al giudice, di farsi interprete della clausola generale introdotta con l’art. 3 e quindi di riempire la nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento in base al doveroso contemperamento delle tutele di pari rango costituzionale; confonde il giudizio comparativo in grado di conciliare i valori garantiti rispettivamente dal primo e dal secondo comma dell’art. 41 Cost. con la comparazione e la scelta, di esclusiva pertinenza dell’imprenditore, tra più soluzioni e opzioni organizzative e produttive e, ristretto l’orizzonte fattuale a quest’ultimo profilo e quello costituzionale al primo comma dell’art. 41, affida al giudice la sola verifica di effettività e non pretestuosità della scelta economica adottata a giustificazione del recesso.
8. Il giustificato motivo oggettivo coincide con la soppressione del posto
Nella sentenza in esame, l’unico elemento che residua a cementificare le “ragioni” inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa è la soppressione del posto di lavoro. La ragione economica, si legge, è “quella che determina un effettivo ridimensionamento riferito alle unità di personale impiegate in una determinata posizione lavorativa”. La sentenza enumera in via esemplificativa, e alla luce dei precedenti giurisprudenziali, una serie di ipotesi integranti il giustificato motivo oggettivo; queste comprendono la soppressione della funzione cui il licenziato era addetto, l’esternalizzazione della sua attività a terzi, la ripartizione delle mansioni tra più dipendenti in forze, l’innovazione tecnologica. Tale esemplificazione anzitutto rende evidente, ed anzi conferma, come la pronuncia guardi agli esiti del processo di riassetto organizzativo e in nessun modo alle “ragioni” dello stesso, espressamente richiamate nell’art. 3 L. 604 del 1966. Inoltre rivela in modo empirico come, secondo la Corte del 2016, le ragioni che integrano il giustificato motivo oggettivo di licenziamento sono tutte quelle che determinano la soppressione dello specifico posto di lavoro e come questo risultato fattuale diventi esso stesso criterio discretivo dei presupposti di legittimità del recesso. A prescindere dalle condizioni economiche, anche in ipotesi floride, della società datoriale, da condizioni di crisi o di irrazionalità organizzativa che impongano un intervento di risistemazione, qualsiasi modifica organizzativa decisa dall’imprenditore, anche se mossa solo dall’obiettivo di aumentare il profitto, ove abbia come effetto la soppressione di un posto di lavoro, legittima il licenziamento di colui che quel posto occupava.
È vero che la sentenza individua un limite, o meglio un divieto, al perseguimento del profitto laddove esso avvenga “soltanto mediante un abbattimento del costo del lavoro realizzato con il puro e semplice licenziamento di un dipendente che, a sua volta, non sia dovuto ad un effettivo mutamento dell’organizzazione tecnica produttiva ma esclusivamente al bisogno di sostituirlo con un altro da retribuire di meno, malgrado l’identità (o la sostanziale equivalenza) delle mansioni”. Tuttavia, il divieto di licenziamento di un lavoratore da sostituire con un altro meno costoso non contraddice e non smentisce il postulato fatto proprio dal Supremo Collegio di coincidenza del giustificato motivo oggettivo con la soppressione del posto di lavoro ma ne rappresenta, anzi, una conferma. Difatti, la sostituzione di un lavoratore con altro meno costoso non è idonea a giustificare il licenziamento solo perché non comporta la materiale soppressione del posto di lavoro.
L’interpretazione della clausola generale e la sua applicazione, legata al dato fattuale della soppressione del posto di lavoro, purché effettiva e non pretestuosa, sembrano prescindere nella sentenza del 2016 da qualsiasi fondamento costituzionale diverso dalla libera iniziativa economica privata. In tal modo, i giudici di legittimità consegnano in mano al datore di lavoro la definizione stessa di giustificato motivo oggettivo coincidente con le sue scelte organizzative, purché comportanti l’effettiva soppressione del posto. Lo stesso divieto di sostituzione di un dipendente con altro meno costoso non è argomentato in nome della dignità declamata e garantita dal secondo comma dell’art. 41 Cost. come limite al potere imprenditoriale, ma solo in ragione della persistente esistenza del posto di lavoro e sulla stessa falsariga si potrà porre la perpetuazione dell’obbligo di repechage, non esaminato nella pronuncia in esame in quanto oggetto di un motivo dichiarato inammissibile. La miopia di una tesi secondo cui il licenziamento è reso legittimo da qualsiasi scelta datoriale che comporti la soppressione del posto di lavoro, senza che il giudice possa osare quell’opera di contemperamento che il legislatore del 1966 gli aveva assegnato attraverso l’uso delle clausole generali, è visibile in tutta la sua portata.
9. Una visione miope
La Corte di Cassazione del 2016, e così l’orientamento a cui la stessa intende dare continuità, non trova nella lettera dell’art. 3 della L. n. 604 del 1966 il “presupposto fattuale” delle condizioni economiche sfavorevoli e non riesce a intravedere questo elemento quale presupposto implicito della legittimità del recesso (pure capace di imporsi ove incluso nelle motivazioni scritte del licenziamento), tanto che lo considera espressamente “estraneo” alla fattispecie. Non individua e non segna un confine netto tra la categoria di giustificato motivo oggettivo e le scelte imprenditoriali. Se pure interviene nello stesso contesto normativo in cui si è formato l’indirizzo contrapposto, non riesce a vedere nei principi costituzionali di tutela del lavoro e della dignità dei lavoratori, come attuati attraverso la legislazione del 1966 e del 1970, una garanzia di stabilità del posto di lavoro sacrificabile, a tutela del contrapposto interesse datoriale, unicamente in presenza di ragioni serie e non eludibili, di condizioni necessitanti un intervento di riorganizzazione aziendale. Finisce per cadere nell’errore prospettico, ma sostanziale, di individuare quale filtro di costituzionalità e quindi banco di prova della tenuta costituzionale della norma, unicamente il principio di libertà di iniziativa economica privata, in tal modo retrodatando la lettura restrittiva dei diritti dei lavoratori e del loro fondamento costituzionale, in uno con la visione espansiva e quasi protettiva degli interessi delle imprese e dello spazio di manovra delle stesse, che è alla base della legislazione più recente, quella del contratto a tutele crescenti.
Secondo la Suprema Corte, l’interpretazione che considera la situazione di crisi quale presupposto di legittimità del recesso costituisce una violazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc.; hanno quindi violato norme di diritto le numerosissime pronunce, anche di legittimità, che hanno sostenuto l’orientamento opposto. La sentenza n. 25201/16 non ha dubbi: la tutela costituzionale del lavoro e della dignità dei lavoratori non può comprimere le libere scelte imprenditoriali di riorganizzazione, né frenare gli obiettivi di profitto, competitività, produttività, che anzi rappresentano essi stessi un bene per l’intera collettività. E la questione non è neanche di particolare importanza da meritare un rinvio alle Sezioni Unite.
*In copertina un fotogramma tratto da The company men (J. Wells, 2010)
[1] Rapporto OCSE, 2016, pag. 126 “La maggior parte degli studi empirici che analizzano gli effetti a medio-lungo termine delle riforme di flessibilizzazione del lavoro, suggeriscono che esse hanno un impatto nullo o limitato sui livelli di occupazione nel lungo periodo”.
[2] E. Brancaccio, La riforma del mercato del lavoro tra diritto ed economia, SSM corso n. P 16077.