Rocco Scotellaro, socialista, diventa sindaco di Tricarico dopo le elezioni amministrative del 20 ottobre 1946.
Era nato nel 1923. La sua intensa e operosa vita sarà breve, conclusa nel 1953 dalla morte improvvisa a Portici, dove si era trasferito.
Quando Tricarico vota in maggioranza per la coalizione di sinistra i cui consiglieri eleggono il giovane sindaco, l’Italia sta vivendo per intero le contraddizioni e i drammi del dopoguerra.
Sono, quelle del 1946, le elezioni amministrative in cui per la prima volta votano le donne [1], in una situazione economica e sociale devastata («l’indice dei prezzi all’ingrosso era salito a più di cinquanta volte il suo livello prebellico; c’erano milioni di disoccupati, che versavano in condizioni di vita disperate») [2] e segnata dall’irrisolto problema della discontinuità amministrativa con lo sconfitto regime fascista.
In un contesto politico sostanzialmente conservatore, soprattutto al Sud – che premia la Democrazia cristiana e vota in maggioranza per la monarchia – la figura di Rocco Scotellaro, sindaco socialista di una coalizione “frontista” [3] in un comune prevalentemente contadino della provincia di Matera, appare del tutto singolare. Ma ancor più lo sarà il suo immediato e concreto agire a favore dei diseredati.
La figura di Scotellaro è scolpita nella lettera di presentazione che nel 1953 egli invia a Luciano Erba, in vista della pubblicazione di alcune sue poesie nella raccolta Quarta Generazione (che uscirà nel 1954, poco dopo la sua morte) [4].
«Sono nato il 1923, ho studiato giurisprudenza all’Università senza laurearmi, sono stato eletto due volte, nel 1946 e nel 1948, sindaco di Tricarico (Matera) che è il mio paese di nascita.
Arrestato e assolto con formula piena e perciò reintegrato funzione di Sindaco, mi sono dimesso dalla carica nel 1950 per poter lavorare qui dove mi occupo di sociologia rurale.
I miei sono gente poverissima: mio padre era calzolaio, mia madre ha fatto la sarta, la donna di campagna e di casa e ha scritto, scrive tuttora, le lettere per i parenti analfabeti degli emigrati in America.
Sono ancora oggi Presidente di un Ospedale a Tricarico (10.000 abitanti) sorto nel 1947, e funzionante con 40 letti, che è stato, secondo autorevoli attestazioni, un mirabile esempio della capacità autonoma e realizzatrice di un comune.
Politicamente ho fiducia che cessi la indegna e mortifera divisione del mondo perché l’umanità posa curarsi dei suoi mali: la povertà economica e il decadimento culturale».
Solo dopo questo ritratto personale e politico, sintetico e di grande efficacia, fornisce le indicazioni sull’attività letteraria attese dai suoi corrispondenti.
Nelle frasi che abbiamo citato emerge la centralità della vicenda giudiziaria che lo ha visto suo malgrado protagonista e lo ha segnato: «arrestato e assolto», ci tiene particolarmente a dirlo.
L’incontro di Rocco Scotellaro con la giurisdizione è, per così dire, mediato dalle attività di polizia, scandite lungo una linea unica che procede dai “rapporti riservati” a lui dedicati, in quanto sospetto sovversivo, da occhiuti censori – fascisti e senza soluzione di continuità repubblicani – alla notizia di reato che avvia il procedimento penale a suo carico.
È un solerte funzionario della Pubblica Sicurezza che nel settembre 1948 costruisce un rapporto a partire da una denunzia anonima secondo la quale il sindaco Scotellaro avrebbe preteso del denaro nell’ambito della distribuzione di beni da parte del comune per conto dell’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration, la struttura delle Nazioni Unite che a partire dal novembre 1943 si occupava dell’assistenza economica alle popolazioni danneggiate dalla guerra; in Italia, l’attività dell'UNRRA era all’epoca regolata da un accordo del 19 gennaio 1946).
Pochi giorni dopo a Rocco Scotellaro viene data comunicazione di un procedimento per associazione a delinquere, truffa, falso ideologico e malversazione continuata.
Nicola Tranfaglia così descrive la situazione e la prima reazione dell’indagato: «Si attribuisce in altri termini al sindaco poeta che passa la sua vita cercando di soccorrere i contadini in maggiore difficoltà, divide i suoi pasti e i suoi scarsissimi proventi con chi sta peggio, di aver organizzato una banda di truffatori che utilizza la distribuzione di merci dell’UNRRA per realizzare forti guadagni. L’accusa è così poco credibile che Scotellaro per alcuni mesi non reagisce».
Ma intanto l’istruzione prosegue e sulla base delle indagini della Pubblica Sicurezza il giudice istruttore di Matera il 9 gennaio 1950 emette un mandato di cattura.
Rocco Scotellaro rimane nel carcere di Matera per quarantacinque giorni. Sarà una sentenza di proscioglimento della sezione istruttoria della Corte di appello di Potenza a restituirgli la libertà.
Durante la vicenda che lo ho fatto sprofondare in un attimo dalla condivisione di una straordinaria esperienza amministrativa con i concittadini tricaricesi a una cella di carcere, Rocco Scotellaro ragiona, elabora: da studioso della civiltà contadina, da militante socialista, fors’anche da incompiuto giurista.
Egli dedica a questa sua esperienza pagine importanti de L’uva puttanella, opera pubblicata postuma, nel 1955, da Laterza, con la prefazione di Carlo Levi; è un libro di natura complessa, il canovaccio – solido – di un romanzo, un diario pubblico, una lettura critica politica ed esistenziale insieme [5]. Il titolo deriva da un pensiero di Rocco Scotellaro sulla condizione della sua gente e sul difficile riscatto: «Noi siamo degli acini maturi, ma piccoli in un grappolo di uva puttanella».
Nella lettura di quest’opera si possono, tra gli altri, individuare due temi: un umanesimo carcerario che lo porta a vedere con lo sguardo del socialista la particolarità del mondo che lo circonda; e la critica al sistema giudiziario, meno sviluppata ma acutissima.
Egli si pone immediatamente su un piano di parità coi suoi compagni detenuti e ne conquista la fiducia.
Nel tessuto della vita quotidiana del carcere vi è la percezione ad un tempo rude e poetica dell’universo concentrazionario. In alcune pagine lo scrittore lucano descrive le letture comuni che egli propone agli altri detenuti; in alcune i suoi dialoghi con loro. Ve n’è una che riporta una discussione con Giappone, un piccolo camorrista che dall’alto del suo potere intramurario prende a benvolere Scotellaro.
Il quale mette in campo, per spiegarsi e combattere lo scetticismo del suo interlocutore, due parole meravigliose: mondo nuovo. E così comunica questo mondo nuovo:
«Per un suo criterio Giappone mi volle dalla sua parte – tra i truffaldini i ladri e i rapinatori – e mi saggiò in tutti i versi. Si stabilì una battaglia sorda tra me e lui sotto l’apparente solidarietà di cui fui investito: – Veramente tu credi che la plebaglia, questa – mi indicava i suoi stessi soci, e Chiellino e gli altri come lui – è capace di cambiare le cose? T’illudi, questa è gente che si vende, ha paura, tornerà a baciare le mani al padrone. E i padroni sono abili e voi – quelli come te – volete lo scopo vostro e vi dimenticate. Dimmi la verità, quanto ti dava il partito?
Mi svincolavo dal suo contatto insinuante e chiamavo Chiellino e gli altri, gli stessi abigeatari, per gridare le mie ragioni e protestare accanitamente.
Nessun partito mi aveva mai pagato per alcun servizio, avevo mangiato e bevuto nelle case dei contadini e questi a casa mia secondo le regole intramontate dell’ambiente.
Riuscii a batterlo nella discussione generale perché il mondo nuovo che si sentiva nelle parole che mi venivano da dire era nel cuore di tutti, anche nel suo» [6].
Una lezione attuale, per chi ancor oggi vorrebbe ridurre il carcere a magazzino della devianza, a luogo di segregazione «della categoria dei nemici della società» [7].
Non è, in fondo, che la traduzione in atti concreti, in una situazione estrema, di ciò che Scotellaro pensa del principio di uguaglianza, scritto nella Costituzione e da lui così declinato: «Tra la folla ogni uomo, con la sua faccia e il suo peccato, o con la sua bellezza, io dovevo rispettarlo come fratello» [8].
Ci sono anche pagine drammatiche, come quella dell’occupazione delle terre in Lucania, a seguito della quale molti contadini vengono arrestati ed entrano in carcere.
Il letterato e detenuto Rocco Scotellaro riesce a darci in poche frasi un’idea di quanto il carcere scavi nell’animo:
«Fiore, nel sonno, chiamava dei nomi e diceva: – Figlio mio! Tata mo’ viene, viene presto! Allora pensai, guardando Fiore rotolarsi e sentendolo parlare, al dolore dei contadini di Montescaglioso, chiusi da un anno, presi all’alba di una giornata eccezionale della loro fatica, gialli e malati, che erano i più stanchi di tutto il carcere, con gli occhi dilatati. Un loro compagno era rimasto ucciso sulla strada, mentre, non più isolati e ognuno con la propria zappa, quella mattina di dicembre si erano levati per andare insieme, tutti su un lembo di terra a piantare l’aratro. Scoppiarono i colpi dei moschetti da una nuvola a pochi metri come un temporale. Nei primi giorni di carcere erano fieri e fiduciosi, poi chi cadeva ammalato non ebbe le medicine e scrisse e si raccomandò invano per averle; le uniche faccie dei colloqui erano quelle dei familiari, che portavano ogni tanto qualcosa. I compagni avvocati dicevano di resistere, e i mesi passavano uno sull’altro» [9].
Un 1950 le cui vicende talora non sembrano lontane nel tempo, se la sensibilità dello scrittore e la coscienza del politico democratico stigmatizzano fino a noi «il medico che non visitava il giovane, presunto omicida, ridotto con la carne nera in caserma per tre giorni fino alla scoperta del vero autore» [10].
O criticano acutamente l’esercizio distratto e inconsapevole della giurisdizione: colto nella vicenda dello sfrattato – che finirà suicida – la cui disperazione nasce a pari titolo dal bisogno estremo e dall’impossibilità di essere compreso: «Il pretore non l’ascoltava, gli avvocati ridevano» [11].
La stessa sensibilità e la stessa coscienza politica animano Rocco Scotellaro nel descrivere la percezione che il giudice che lo interroga dà di sé e del contesto in cui agisce:
«Il mio giudice mi disse: “Dite se è una persecuzione politica, ma datemi le prove”. Io lo guardai, un secondo, con l’occhio del suo antenato e con quello di suo figlio. Gli vidi i baffi neri e la fede al dito, le labbra di creta e i suoi occhi scattavano come persiane. Avrei voluto parlargli d’altro, non gli risposi […].
Tutti i giudici erano dei pendoloni carichi, le cui lancie segnavano il tempo, le ore e i minuti e scoppiavano all’ora voluta dal potere esecutivo. Le pochissime volte che qualcuno di loro si ribellò e volle funzionare secondo le leggi scritte e decantate sulle lapidi, la sveglia si ruppe prima di suonare.
Un giudice che non si spiega le cose e deve seguire il carro del potere, è lo scrivano del carabiniere semianalfabeta, è uno schiavo principe o no che può gustare soltanto il cibo che gli portano, è un meccanismo» [12].
È una stilettata quest’immagine del “giudice scrivano” che recepisce acriticamente quello che la polizia giudiziaria gli propina: ma è la prova della capacità di cogliere un punto critico decisivo del rapporto tra potere esecutivo e potere giudiziario.
I costituenti avevano affrontato il tema della polizia giudiziaria e della necessità della sua dipendenza dal pubblico ministero e non dal potere esecutivo, arrivando – al termine di un dibattito in cui le criticità erano chiaramente emerse [13] – alla formula di mediazione contenuta nell’articolo 109 della Costituzione («L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria») e a un ordine del giorno che rimarrà inattuato («L’Assemblea Costituente fa voti per la creazione di un corpo specializzato di polizia alle dirette dipendenze dell'autorità giudiziaria»).
Nel frattempo la quotidianità produce vicende di altro segno: nonostante l’entrata in vigore della Costituzione si palesa «un potenziale di insidia per i diritti dei cittadini che mostrerà tutta la sua pericolosità negli anni successivi» e che, in assenza di discontinuità amministrativa, risulterà «sorretto da una cultura in parte inconsapevole della portata dell’innovazione costituzionale, in parte a questa dichiaratamente ostile» [14]; è il contesto in cui agiscono la polizia e la magistratura che Rocco Scotellaro incontra.
Il giovane sindaco di Tricarico subisce un’ingiustizia che lo colpisce profondamente: l’8 maggio 1950, dopo e nonostante il proscioglimento, si dimette da sindaco e se ne va dal suo paese. Accoglie l’invito di Manlio Rossi Doria, che dirigeva l’Osservatorio di economia agraria, e si trasferisce a Portici dove si dedica a studi e ricerche per il Piano di sviluppo regionale per la Basilicata, commissionato dallo Svimez; e lì morirà prematuramente.
In quegli stessi anni Pier Paolo Pasolini, che vive a Casarsa del Friuli ed è segretario di una sezione del Pci, subisce una vicenda giudiziaria che presenta un’analogia certa con quella di Rocco Scotellaro, e cioè l’essere originata dall’essere entrambi i militanti di sinistra “attenzionati” dai controlli polizieschi.
Anche in quel caso il potere esecutivo con i suoi bracci operativi elabora l’accusa nei confronti di Pasolini incontrando una prima istanza giudiziaria che ad essa dà pieno credito e una, successiva, che la valuta diversamente [15]. Pasolini affronta il processo, dal quale uscirà assolto, in secondo grado, ma anch’egli se ne va dalla sua terra, si trasferisce a Roma, dove poi tutta la sua vita di scrittore, poeta e regista avrà il suo corso.
È un’analogia da sviluppare, sono processi che meritano una lettura estesa alla contemporaneità, che hanno assunto e conservano ancora oggi valore storico e simbolico di esempio di un rapporto squilibrato tra le funzioni giudiziarie e gli interessi dell’esecutivo: e segnalano come possa – sempre – accadere che un «giudice che non si spiega le cose» (come lo definisce Rocco Scotellaro) finisca col trovarsi legato al carro di un potere nel quale trova conforto alla sua pochezza; o anche soltanto abbandonarsi torpidamente alla perdita di senso della sua funzione.
*In copertina, Carlo Levi, particolare di Lucania '61 (1961) olio su tela, m. 3,20 x 18,50. Matera, Museo Nazionale d'Arte Medievale e Moderna di Palazzo Lanfranchi
[1] In forza del decreto legislativo luogotenenziale n. 23 del 1° febbraio 1945, che proclamava «il voto esteso alle donne»; le prime elezioni politiche generali in cui le donne esercitarono il diritto di voto furono quelle del 2 giugno 1946, per il referendum istituzionale e l’elezione dell’Assemblea costituente.
[2] Denis Mack Smith, Storia d’Italia, Laterza, 1997, p. 568.
[3] La locale coalizione del “Fronte Popolare Repubblicano” che riuniva Partito socialista italiano di unità proletaria, Partito comunista italiano, Partito repubblicano e Partito d’azione.
[4] La lettera è riportata in Quarta Generazione. Esperienze vitali della poesia a cura di Serena Contini, NEM, 2014, p. 51.
[5] Le citazioni di seguito riportare fanno riferimento all’edizione Laterza del 2000 (L’uva puttanella. Contadini del Sud) con prefazione di Antonio Melfi e introduzione di Nicola Tranfaglia.
[6] L’uva puttanella, cit., pp. 70 ss.
[7] Così L. Pepino, Le nuove norme su immigrazione e sicurezza: punire i poveri, in questa Rivista on-line, http://www.questionegiustizia.it/articolo/le–nuove–norme–su–immigrazione–e–sicurezza–punire–i–poveri_12–12–2018.php
[8] L’uva puttanella, cit., p. 29
[9] L’uva puttanella, cit., p. 111.
[10] L’uva puttanella, cit., p. 92.
[11] L’uva puttanella, cit., p. 42.
[12] L’uva puttanella, cit. p. 83
[13] «Spesso tarda e inidonea è stata l'esecuzione degli ordini del magistrato da parte dei funzionari di polizia, specie quando i provvedimenti giudiziari non collimavano con le vedute degli organi da cui la polizia giudiziaria direttamente dipende» (Edmondo Caccuri, seduta del 12 novembre 1947); «Occorre dunque porre direttamente alle dipendenze del pubblico ministero la polizia giudiziaria, affinché fin dal primo momento sia soddisfatta, da una parte l'esigenza della legalità e della onestà dell'indagine giudiziaria, e dall'altra, l'esigenza della tecnicità dell'indagine stessa. È frequentissimo il caso di procedimenti basati su una falsariga errata per i quali la polizia arriva a conclusioni tali da paralizzare o da compromettere il giusto svolgimento delle indagini» (Giovanni Leone, 10 gennaio 1947).
[14] S. Rodotà, Le libertà e i diritti, in Storia dello Stato italiano dall’Unità ad oggi, Donzelli, 1995, p. 309
[15] Il procedimento trae origine da un verbale dei Carabinieri di Cordovado che testualmente afferma «dalla voce pubblica, poiché il fatto ha suscitato scandolo [testuale], quest’Arma è venuta a conoscenza…»; il pretore di San Vito al Tagliamento, il 28 dicembre 1950 assolve Pasolini dall’accusa di corruzione di minorenni e lo condanna per atti osceni in luogo pubblico; l’8 aprile 1952 il Tribunale di Pordenone lo assolve da entrambi i reati (sulla vicenda, ampiamente: A. Tonelli, Per indegnità morale. Il caso Pasolini nell’Italia del buon costume, Laterza, 2015).