Molti in questi anni, e ancor più in questi giorni immediatamente successivi alla sua morte, hanno parlato della profonda umanità e della grandezza di Pietro Ingrao. L’Italia tutta e non solo il suo partito perdono una figura decisiva nella storia del Novecento per l’emancipazione dei lavoratori, per la difesa della dignità di tutte le persone, e per l’allargamento della democrazia.
Qui, sulla rivista Questione giustizia, vorrei dare testimonianza di un aspetto particolare, che certo sarà gradito dai magistrati democratici: grandi furono l’interesse e l’attenzione che egli rivolse alla loro esperienza. Non si tratta di impressioni legate a occasioni fugaci, ma di un filo di riflessioni che attraversarono costantemente il suo pensiero e concorsero a rafforzare l’idea sua, che la politica e la stessa sovranità popolare non fossero affidate soltanto ai partiti. Il dubbio e la visione così aperta erano certo “destabilizzanti” per una forza politica accentrata e votata al “monolitismo”: egli apparve eretico nel Pci, lo contrastarono con chiusure durissime nella cerchia ristretta del gruppo dirigente, ma per questo appunto è stato tanto amato fuori e alla base stessa di quel partito.
Devo raccontare qualcosa del nostro rapporto, e me ne scuso: ma serve a confermare che non si tratta di ricordi sparsi, che il triste annuncio porta a enfatizzare. Andai a casa di Pietro Ingrao per la prima volta nel ’72. Il suo isolamento nel Congresso del ’66 e la radiazione di quelli del Manifesto nel ’69 erano dietro le spalle, io ne avevo solo sentito parlare, mi ero iscritto al Pci appunto nel ’69. L’occasione dell’avvicinamento personale fu data dai fermenti e dal rinnovamento della cultura e delle professioni giuridiche, lui si interrogava sulla nuova aggregazione di forze attorno alla rivista “Democrazia e diritto”, poi nel ’74-75 chiamò alcuni di noi a collaborare alla realizzazione di un ciclo straordinario di iniziative in tutta Italia per la riforma dell’ordinamento giudiziario.
Dopo Terracini aveva assunto la presidenza del Centro di studi e iniziative per la riforma dello Stato (Crs) promosso dal Pci. Ben presto la sua impostazione dette corpo a un processo molto partecipato di elaborazione collettiva, cui davano idee, proposte, entusiasmo e forza intere Facoltà giuridiche, Uffici giudiziari al completo, esponenti delle diverse correnti della magistratura, e militanti e dirigenti delle forze politiche più sensibili al tema. Riforma: era il processo stesso. Era l’orientamento nuovo e la disponibilità al cambiamento di tutte quelle forze. La scrittura poi di un testo da presentare in Parlamento avrebbe tradotto tutto questo in disegno di nuovi assetti istituzionali (che peraltro il Pci non giunse mai a presentare). Nel convegno interregionale di Bari, di cui fui organizzatore, confluirono forze da tutto il Mezzogiorno. Ingrao mi sollecitò a sollevare e approfondire il tema della partecipazione popolare alla amministrazione della giustizia, obiettivo posto in Costituzione ma fino allora ignorato.
La collaborazione divenne frequentazione strettissima e quotidiana dal ’79, quando lasciata la presidenza della Camera dei deputati egli tornò appunto all’impegno di riflessione, analisi, progetto e promozione politico-culturale tramite il Crs. Quel centro-studi fu più che una efficiente macchina organizzatrice di convegni e stampa di pubblicazioni: fu luogo di una “avventura” umana e intellettuale straordinaria, punto di riferimento per forze anche esterne al Pci, e molte anche fuori d’Italia. E fu centro di aggregazione di donne e uomini segnati da un senso dell’autonomia del pensiero e della responsabilità anche personale nell’impegno civile e politico. Questa esperienza eccezionale durò fino al ’93, anno in cui dopo essere uscito dal partito nato con la svolta di Occhetto, egli si dimise anche dal Crs.
In tutto questo percorso la curiosità di Ingrao per gli svolgimenti intellettuali e politici della corrente MD nella magistratura associata non fu mai sopita: “Strano animale”, disse con una sua caratteristica espressione al Congresso della corrente, tenuto a settembre dell’81 a Giovinazzo (Bari). E spiegò: “Mi interessa MD, come prova non solo dell’allargarsi dei soggetti della politica, ma soprattutto delle forme che può prendere oggi il rapporto tra politicità generale e competenze, tra battaglia politica generale e sapere specifico”.
Il primo aspetto (allargarsi dei soggetti della politica) era ben presente a chi si interessava di politica – molti ne erano preoccupati, alcuni anche a sinistra ritenevano di doverlo contrastare: Ingrao ne vedeva il significato generale di trasformazione, ma pensava subito alle nuove contraddizioni, alla frantumazione, allo svuotamento delle forme rappresentative, alla riduzione all’impotenza dei singoli; ne ricavava stimoli per la riforma del partito politico e delle istituzioni di governo. Ma è la seconda annotazione che allora non era affatto comune, e che spiega il particolare interesse per la inedita soggettività politica di chi pronuncia diritto: i saperi specifici potevano dare, e di fatto davano alla lotta politica generale forme particolari. E questo lo intrigava: le forme sono decisive per i contenuti. Discutendo con Bobbio non negava l’importanza degli aspetti formali, ma anzi ne rafforzava il peso, per i contenuti sostanziali che ciascuna forma determinata consente di portare nelle vicende concrete.
Nel caso di MD non era la forma associata in sé che lo colpiva – l’associazione poteva orientarsi a tutele di “categoria” e altri nella magistratura si applicavano a questo. E neppure, credo, lo interessasse tanto l’elaborazione ideologica della corrente in sé: questo era comune a tanti altri gruppi della sinistra, e ciascuno poteva valutare a suo modo peso e valore di queste elaborazioni. Quello che lo interessava veramente – a Giovinazzo lo disse con estrema chiarezza – era la applicazione di una specifica competenza alla battaglia generale: qualche anno dopo Luigi Ferrajoli ha chiamato tale competenza “costituzionalismo democratico”. Ingrao valutò subito che un contenuto specifico di responsabilità professionale passava per la forma di quel che appariva un nuovo soggetto politico. Professionalità fondata su un legame con la Costituzione: questo era un richiamo valido per tutti i magistrati, andava molto oltre la autodefinizione in termini di “corrente” della Associazione Nazionale.
Attraverso quelle forme la sostanza della sovranità popolare si sganciava dall’idea ristretta che essa si manifesti solo tramite la rappresentanza politica, i partiti. Cultura e competenze, con l’affidamento di funzioni e poteri istituzionali autonomi e indipendenti a singole persone, entravano a comporre espressioni particolarmente qualificate e responsabili di espressione del fondamento popolare-democratico della nostra convivenza. Il fatto che i giudici pronunciano le loro sentenze “in nome del popolo sovrano” non è solo formula di rito: essa indica un fondamento, che vincola quel potere, ma anche ne spiega lo statuto di autonomia.
La frase di Ingrao citata appare forse troppo sintetica, ma conteneva tutte queste implicazioni. Era lì condensato un pensiero, che poi indirizzò un ciclo di convegni del Crs, sotto la direzione di Marco Ramat tra ’81 e ’83 (sulla difesa penale, sul pubblico ministero, sulle carceri, sul rapporto tra informazione e politica: materiali pubblicati da De Donato col titolo Quali garanzie. Nello scritto con cui introducevo il volume toccò a me dare formulazione esplicita al problema su cui c’eravamo affacciati).
Qui peraltro credo possa particolarmente interessare il modo in cui quella riflessione era maturata. Nel ’77, a fronte delle violenze di aree giovanili e al manifestarsi del terrorismo degli “anni di piombo”, le forze politiche sembravano accontentarsi di una riduzione del problema a questione di polizia. Anche il Pci. E sui magistrati si esercitò una pressione politica affinché dessero continuità e certezza del diritto a indirizzi repressivi. Nel Congresso di Rimini di MD di quell’anno ci fu però uno “scarto”: si usò la formula “garantismo dinamico”, come rifiuto di “allineamento” pregiudiziale agli indirizzi politici prevalenti.
La funzione costituzionale di garanzia e la responsabilità del giudicare caso per caso non potevano essere “ordinati” a una sorta di mandato del “sorvegliare la frontiera” per gli inclusi nel sistema. Io colsi l’occasione della pubblicazione di scritti di Mimmo Pulitanò – allora esponente di punta di MD – per discutere di tali questioni. Qualche anno dopo Ingrao, tornato al Crs e intenzionato a riprendere quei temi, mi chiese in prestito quel libro (D. Pulitanò, Giudice negli anni ’70. Un’esperienza di magistratura democratica, De Donato,1977) e me lo restituì pieno di annotazioni sulla mia introduzione. Conservo gelosamente quella copia. I punti su cui si era soffermato e manifestava più dubbi erano quelli relativi a una tendenza, che allora era sostenuta con particolare calore nel Pci, circa la necessità - nell’occasione dell’avvicinamento del Movimento Operaio al governo - di una “consonanza funzionale” tra magistratura, Esecutivo e Parlamento. Era quella forse una proiezione “incauta” della strategia del compromesso storico.
Dai segni (tratti laterali, più volte ripetuti, e talune crocette o asterischi, come particolare segno di consenso) mi pare di poter dire che il rifiuto dei giudici di farsi fissare da altri la propria parte di “funzioni di governo” della società lo convinceva particolarmente. Questo significa che la sovranità popolare procede per il tramite di apparati specifici e differenziati: rispetto a Governo e Parlamento, la responsabilità dei giudici non si lega a un determinato indirizzo politico di maggioranza, ma è il punto cruciale su cui regge la garanzia per tutti del rispetto costituzionale, una delle leve per l’attuazione dell’art.3 (rimuovere gli ostacoli di fatto alla partecipazione di tutti alla vita pubblica). In quella situazione di “guerra civile di bassa intensità” (come di lì a poco si cominciò a dire), l’applicarsi della giurisprudenza alternativa al controllo diffidente del funzionamento degli apparati era dunque una scelta responsabile perché professionalmente corretta. Molti invece la attaccarono duramente: per chi allora non c’era, invito a leggere l’ultimo libro di Giovanni Palombarini, Il processo 7 aprile nei ricordi del giudice istruttore (Il Poligrafo, 2014).
So bene che su tutto questo allora e anche molto dopo ci sono state grandi divisioni. E la stessa corrente MD sembra voler superare – se non dimenticare – un crinale così delicato. Ma quel che ho ricordato aiuta a tener fermo un punto cruciale dello sviluppo democratico. Indipendenza e autonomia dei giudici, nel nostro ordinamento, sono funzionali al valore anche sostanziale della libertà e dell’uguaglianza dei cittadini. Ciò dà alla pronuncia giurisdizionale una particolare legittimazione, la collega alla sovranità popolare non per potere di rappresentanza, ma per potere di interpretazione giuridica del patto fondativo della comunità. E questo potere compete a persone singole, la cui formazione, competenza e senso della responsabilità danno garanzia e senso al richiamo alla sovranità.
Ancora questo modo di pensare non è pienamente condiviso. Ancora ci fa difetto una teoria della sviluppo democratico, che sappia traguardare il sistema della rappresentanza politica. Ma l’intuizione di Ingrao, che lì ci fosse un nucleo di verità per il futuro, e che “non basta il voto da solo” (come ha ricordato da ultimo Gustavo Zagrebelsky in occasione della festa per i 100 anni di Pietro) ci dà una direzione di ricerca.