«Una virgola può salvare la vita» si legge sulla Fanpage La grammatica non è un’opinione. «Vado a mangiare nonna» non è infatti la stessa cosa di «Vado a mangiare, nonna». E se la frase fosse intercettata al telefono e trascritta per errore senza cogliere quella pausa impercettibile ma vitale, il malcapitato nipote passerebbe guai seri, a cominciare dalla gogna mediatica per i suoi bizzarri gusti alimentari... .
Paradossi a parte, non c’è dubbio che un errore, anche lieve, possa produrre danni gravi. E tuttavia, nel Paese delle manine segrete che fanno e che disfano ma che spesso restano senza nome, l’«errore» continua ad essere considerato una via d’uscita comoda e indolore.
Chissà se sarà così anche per il presunto falso consumato dal capitano dei carabinieri Scafarto, nell’ambito dell’inchiesta Consip. In attesa di saperlo, vale la pena chiedersi se sarebbe davvero indolore derubricare tutta la faccenda a mero «errore»: uno dei tanti – com’è stato detto – che possono capitare nella gestione delle intercettazioni ma che gli «anticorpi» interni al sistema sono in grado di correggere.
Supponiamo, quindi, che vengano escluse manipolazioni dolose, depistaggi, sabotaggi e che tutto si risolva in un «banale» abbaglio preso da Scafarto per eccesso di zelo, superficialità o perché si è innamorato a tal punto della sua pista investigativa da sentire (e scrivere) fischi per fiaschi. Potremmo voltare pagina più sereni? O dovremmo preoccuparci per l’inaffidabilità delle intercettazioni, almeno fintantoché non vengano controllate dal pm, dall’avvocato, dal giudice, con buona pace quindi delle paginate di telefonate rubate dai brogliacci e diffuse dai media prima di quel controllo?
Lo scenario dell’«errore» è solo in apparenza minimalista perché ha già fatto schizzare in primo piano il convitato di pietra della vicenda Consip/Scafarto, ovvero le intercettazioni. E piaccia o no, ha rimandato l’immagine di una giustizia inaffidabile, poco trasparente, pasticciona.
E allora veniamo al punto: questa storia ha scoperchiato una fragilità del sistema delle intercettazioni rispetto agli «errori» che possono inquinare un’inchiesta e danneggiare le persone coinvolte. Purtroppo, il venticello politico di rivalsa che soffia nei confronti della magistratura (caso Minzolini docet) rischia di gonfiare le vele della strumentalizzazione e quindi non giova a un’analisi obiettiva ma, anzi, spinge le toghe a una reazione difensiva, che va nella direzione o di negare il problema o di farne un alibi. Ma proprio quel venticello, invece, dovrebbe consigliare di cogliere quest’occasione per ragionare su alcuni buchi neri del sistema che rischiano di inghiottire uno degli strumenti più preziosi delle indagini.
Gli anticorpi, certo, ci sono e nella fattispecie hanno funzionato perché il pm di Roma ha controllato l’operato della polizia (a differenza di quello di Napoli, che si è fidato) e ha scoperto l’errore. Ma è anche vero che il controllo, per quanto rapido, è arrivato quando la vicenda era già finita sui giornali con un’informazione sbagliata. E soprattutto, che i controlli non sono la regola ma, semmai, l’eccezione. Sappiamo bene che il rapporto tra pubblico ministero e polizia giudiziaria non può che essere fiduciario e che, una volta scelti i propri «ausiliari», il pm non può che fidarsi (salvo casi eccezionali, appunto), così come, del resto, un chirurgo si fida della sua équipe. Inoltre, se il controllo del pm dovesse essere la regola, il sistema collasserebbe.
Gli errori càpitano e sono ineliminabili ma in alcuni casi limitarli è un dovere. Perciò è necessaria una solida rete di professionalità, quantitativamente e qualitativamente all’altezza dell’attività da svolgere. Che in prospettiva sarà sempre maggiore, non foss’altro perché l’evoluzione delle tecnologie esistenti sul mercato del “Grande Orecchio” moltiplicherà il materiale intercettato riversato sui tavoli degli investigatori.
Alla Camera sta per ripartire il ddl sul processo penale con la delega al Governo sulle intercettazioni, da riempire entro la fine della legislatura. Stavolta si ragionerà tenendo conto proprio degli sviluppi delle tecnologie, e quindi con più di un occhio ai captatori informatici, cioè a quei Trojan che, inoculati in pc, smartphone, tablet, diventano un videoregistratore capace di intercettare, ovunque, non solo l’indagato ma chiunque finisca nel suo raggio d’azione. Con la conseguenza di riversare sugli investigatori, appunto, un materiale smisurato da selezionare, sintetizzare, stralciare, trascrivere, tradurre, interpretare – nei silenzi, nelle pause, nei toni – con estrema accuratezza, affinché non diventi un’immensa prateria di informazioni mediatiche incontrollate. Di qui la necessità di un vero e proprio stuolo di professionalità “dedicate” a questi compiti.
Finora nessuno si è posto questo problema, né il Ministro, né il Csm né il Parlamento; anzi, ci si sta muovendo esclusivamente in una logica di tagli alle risorse (80 milioni nel triennio 2017-2019) e di divieti.
Un errore.
Al di là del Trojan, la capacità del sistema di gestire in modo efficace ed efficiente le intercettazioni è uno snodo essenziale per garantire proprio quel diritto alla privacy cui dovrebbe essere finalizzata la riforma delle intercettazioni. La tutela dei diritti fondamentali non è a costo zero, perciò questa capacità non dipende soltanto da prescrizioni e divieti normativi, ma anche, e forse soprattutto, dal “fattore umano”. Che Governo e Parlamento hanno il dovere di assicurare, per non contraddire la “vocazione” di quella riforma, rivelandone la funzione strumentale rispetto a interessi diversi. E che la magistratura ha il dovere di rivendicare, per svolgere pienamente, e senza alibi, le proprie funzioni, a tutela di tutte le persone coinvolte.
Non è un parlar d’altro, non per i cittadini sui quali finisce per scaricarsi la carenza delle risorse.
Nel libro La tua giustizia non è la mia scritto a quattro mani da Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo, c’è un passaggio inquietante: l’ex presidente dell’Anm “spiega” che spesso i pm chiedono il rinvio a giudizio dell’indagato anche se non hanno elementi perché «sono sommersi di lavoro» e quindi non ce la fanno a scrivere la motivazione di una richiesta di archiviazione che – in presenza di persone offese e quindi di una possibile opposizione – richiede molto più tempo di una richiesta di rinvio a giudizio. Tanto ci penserà il Gup a prosciogliere… .
Un ragionamento forse comprensibile per chi conosce le dinamiche del processo; molto meno per chi ci finisce dentro, magari con clamore mediatico, ed è innocente. Forse comprensibile per chi, suo malgrado, si sente un «somministratore di sofferenze» (come si definisce qualche pm); ma assolutamente incomprensibile per il destinatario di quel surplus di sofferenza non previsto da nessuna norma e che potrebbe durare chissà quanto se anche il Gup, «sommerso di lavoro», decidesse che ci penserà il giudice del dibattimento, e così via… .
Un ragionamento inquietante e inaccettabile ma emblematico di quel gioco di sponda che da sempre consente alla politica inadempiente sul fronte delle risorse di delegittimare la magistratura per le inefficienze della giustizia; e alla magistratura, invece, di trovare in quelle inadempienze un comodo alibi alle proprie responsabilità, di qualunque natura. Perpetuando così un immobilismo funzionale ai reciproci interessi ma micidiale per quelli dei cittadini.
Donatella Stasio