Quindicimila morti: italiani massacrati dai tedeschi e dai loro complici fascisti, dal 1943 al 1945. E da questa cifra sono esclusi i partigiani caduti in combattimento e i militari. Una scia di sangue che percorse l’Italia, in concomitanza col lento ritiro tedesco, seguendone i ritmi, ora lenti, ora convulsi. Un pulviscolo di omicidi singoli, uno sciame di piccoli eccidi, e poi i grandi massacri come Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Fucecchio. Vittime di ogni età, dai lattanti ai vecchi nati prima dell’Unità d’Italia.
La penisola fu pettinata da Sud a Nord, con una violenza a tempo, una bufera concentrazionaria portatile, a scadenza: il passaggio del fronte. Anche la pianificazione dello sterminio degli ebrei, nella Conferenza di Wannsee, nasconde un pettine, ma usato da Ovest a Est: «Im Zuge der praktischen Durchführung der Endlösung wird Europa vom Westen nach Osten durchgekämmt» (Beschprechungsprotokoll, 20 gennaio 1942).
Certo, il paragone è fuori misura, eppure nelle zone del fronte, soprattutto in Toscana e nell’Emilia Romagna, la vita fu ridotta a precaria sopravvivenza, punteggiata di continuo assassinio: gli italiani, inferiori e indesiderati. Il pettine, Kamm, è un rastrello che cerca i parassiti, gli Unerwünschte, gli Untermenschen. Il pettine, dunque, è un arnese da rastrellamento.
Questi crimini furono oggetto di indagini, in parte dei carabinieri, in parte di autorità statunitensi, ma soprattutto di una struttura militare britannica, il SIB (Special Investigation Branch), che aveva raccolto le prove con tenacia ammirevole, anche considerando che l’Italia era stata per tre anni in guerra a fianco di Hitler. I britannici dovevano essersi resi conto che molte vittime erano contadini poveri: carne da macello, ma appartenente allo stesso ceto sociale che aveva dato riparo, a rischio della vita, ai prigionieri alleati fuggiti dopo il settembre 1943 e ai piloti degli aerei abbattuti.
Quelle indagini, spesso rigorose e complete di reperti, cartine, fotografie, aspettavano solo di essere usate nei processi, per chiamare ciascuno alle sue responsabilità. Ma se ne fece troppo poco. Invece, le carte prima si accumularono in modo ambiguo e sconsiderato, a Roma e non nelle procure locali; poi diventarono un serbatoio di rimozione; infine si calcificarono in qualcosa che non ha neppure un nome, ma che ha un odore inconfondibile di sporco.
Qualcosa di così inguardabile da aver bisogno di molte maschere, anche una sopra l’altra, per scivolare indenne attraverso gli anni, e forse per giungere sino a noi, ma sotto nuova forma. L’armadio della vergogna, un archivio circondato da infinite reticenze, congelato persino nel ricordo. È stato rifrequentato solo nel 1994, mezzo secolo dopo i crimini di cui conteneva le prove. E poi, e dopo?
Quindicimila morti. Forse tutte le vittime della criminalità organizzata e delle stragi negli anni della conflittualità armata non arrivano a questa cifra. Eppure, anche solo parlare di questo bagno di sangue è difficile. Ciò che riguarda questa storia è sempre circondato da una cortina di reticenza e di imbarazzo. E proprio adesso cade un anniversario singolare.
Con la legge 15 maggio 2003 n. 107, si insedia una commissione parlamentare, incaricata di far luce sulla mancata giustizia. La legge istitutiva vuole indagare «sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti». Non è la sola indagine, è stata preceduta da una commissione della Camera dei deputati e da un’inchiesta del Consiglio della magistratura militare. Ma stavolta è una commissione bicamerale, e ci si aspetta di più.
Dal 2003 i lavori procedono ascoltando magistrati, funzionari, giornalisti, personaggi politici, compresi protagonisti di primo piano dell’Italia del dopoguerra, come Giulio Andreotti e Oscar Luigi Scalfaro.
Si vola in Germania, a Londra, a New York, si raccolgono documenti. Si fanno ispezioni nell’edificio che conteneva il famoso armadio; occorre persino un approfondimento architettonico, perché i luoghi sono cambiati. Si lavora per anni, poi la Commissione chiude i battenti. Non si arriva a una ricostruzione condivisa, e come è già successo in altri casi, si scrivono due relazioni, una di maggioranza e una di minoranza, che vengono trasmesse al Parlamento a febbraio 2006.
Intanto le cose si complicano: il presidente della Commissione denuncia di essere stato vittima di pedinamenti e di un tentativo di omicidio: fatti degni dei peggiori anni italiani. Un tentativo di assassinio politico, che ha sullo sfondo la Seconda guerra mondiale e la guerra fredda: uno scenario che sembra uscito dal tempo delle trame e del sangue. E neanche questo riesce a scuotere l’opinione pubblica.
Ma almeno, insomma, nel 2006 le due relazioni ci sono. Sono opinabili finché si vuole, forse nessuna delle due è esaustiva, ma ci sono. Discutibili, e appunto da discutere. E invece tutto si inceppa. Dopo il deposito e l’invio alle Camere, questa storia si inabissa di nuovo. Non c’è più un armadio con le ante rivolte contro il muro, non c’è più un vano con un cancello.
Le relazioni sono consultabili, anche se i documenti raccolti dalla Commissione sono soggetti a regimi diversificati di pubblicità o segretezza. Ma nel 2006 una palude inghiotte ogni cosa, sembra formarsi un tacito divieto di chiarire questa storia. L’armadio è stato riaperto, sono stati celebrati processi, le sentenze sono rimaste senza esecuzione, con un paio di eccezioni.
La giustizia non c’è stata, ma si è parlato di memoria. Se n’è parlato fino a consumarsi la bocca. E adesso che si tratta di fare memoria, una narrazione discutibile non viene discussa, il lavoro di una commissione bicamerale è accantonato, tutto si ferma: un armadio invisibile. Come in certe pantomime, il mimo sbatte contro un vetro che non c’è, lo misura disperato con le mani. E tutti ridono.
Adesso, sono appunto dieci anni. La Commissione sull’armadio della vergogna si è fermata alle indagini, come le indagini si fermarono, dopo la guerra, per sfarinarsi in un antico palazzo, e poi essere archiviate a gennaio 1960 con un provvedimento del procuratore generale militare Enrico Santacroce: «Archiviazione provvisoria».
Non esisteva e non esiste, l’archiviazione provvisoria, ma andava bene così, nessuno disse nulla, neppure i partiti dell’opposizione, neppure gli uomini che avevano fatto parte dei Cln, solo quindici anni prima. Bisogna vederli, quei foglietti dell’archiviazione provvisoria: uguali per centinaia di fascicoli, scritti su un foglio tagliato a metà. Così, tanto per risparmiare la carta. E sotto quegli avari foglietti, quindicimila assassinati.
L’archiviazione provvisoria non esiste; ma forse esiste una commissione parlamentare che presenta indagini al Parlamento perché siano dimenticate? E allora, siamo nel 2016 o nel gennaio 1960, con Segni al governo? O nel 1944 della Roma falsa «città aperta»? O il tempo è un orologio molle di Salvador Dalì senza le lancette?
Ad aprile 2014 è stata presentata un’interpellanza alla Camera (atto n. 2/00504), chiedendo al governo di muoversi per l’esecuzione delle sentenze, sollecitando la rimozione dei segreti sulla documentazione della Commissione, e nell’insieme invocando una nuova spinta per la giustizia. Il capofila era del Pd, i firmatari erano di quasi tutte le forze politiche, compresa Forza Italia, la Lega e il Nuovo centrodestra.
Con una base politica tanto ampia, c’era da sperare. Ma l’armadio invisibile, abituato a far sparire anche indagini pronte dal 1945, con dentro i nomi dei colpevoli e le foto dei cadaveri sfigurati, ha inghiottito anche l’interpellanza del 2014, insieme al lavoro della Commissione: non è mai stata neppure discussa.
Nel 2015 c’è chi si è reso conto di nuovo della stranezza, sentendo che questo silenzio è assordante. A ottobre è stato presentato alla Camera un nuovo atto di indirizzo, questa volta un’interrogazione a risposta scritta (atto n. 4/10599), firmata da sei parlamentari. Riguarda solo alcuni aspetti della vicenda, ma comunque prova a rivitalizzare il tema. E adesso? Neanche a dirlo, l’interrogazione aspetta, come da due anni l’interpellanza aspetta, come da dieci anni le relazioni aspettano, come le indagini aspettarono dal 1945.
Nel 1954 Piero Calamandrei scrisse: «Ormai, a quello che furono capaci di fare i nazisti in Italia e in Europa, è meglio non pensarci più. È uno di quegli argomenti che nella buona società non è educazione toccare: è questione di galateo, di buon gusto. Bisogna dimenticare: chi non dimentica è un maleducato, e rischia per di più di essere schedato dalla questura: oblio di Stato».
Eppure, a leggere l’esito delle due recenti iniziative, sul sito istituzionale, si apprezza la tecnologia, che in Italia ha cambiato tutto, perché adesso sì che le cose camminano. L’interpellanza e l’interrogazione promettono bene: «Stato iter: in corso».