1. Come funziona il MES (a oggi)
Il MES (meccanismo europeo di stabilità, European Stability Mechanism, ESM) ha una radice giuridica nei trattati europei e, specificamente, nella nuova formulazione dell’art. 136 del TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea), ove viene prevista la facoltà di istituire un meccanismo da attivare ove sia indispensabile intervenire per garantire la stabilità dell’Eurozona e/o la concessione di assistenza finanziaria, soggetta a rigorosa condizionalità (tema su cui si tornerà in seguito), a favore di singoli Stati membri. Ciò sia nel caso di Paesi soggetti a particolari tensioni finanziarie che in risposta a shock esogeni più generali.
La modifica al citato art. 136 è stata prima approvata dal Consiglio Europeo nella seduta del 24 e 25 marzo 2011 e successivamente da ciascun Paese membro; per l’Italia, l’approvazione è intervenuta con la Legge 23 luglio 2012 n. 115. Nelle more delle singole approvazioni, il Trattato istitutivo del MES è stato definitivamente siglato il 2 febbraio 2012 ed è entrato in vigore, a seguito dell’intervenuta ultima approvazione dei singoli Stati, il successivo 8 ottobre 2012.
È proprio l’art. 136 del TFUE emendato che, con il nuovo comma 3 (sulla sua lettura interpretativa si veda più oltre), introduce il MES e le sue “condizionalità”: «Gli Stati membri la cui moneta è l’Euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona Euro nel suo insieme. La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità»[1].
È dunque un organismo intergovernativo, che ha sede in Lussemburgo e che “raccoglie” l’eredità delle sue “prime versioni”, il precedente ESF e il FESF (fondo europeo di stabilità finanziaria), attivati già nel 2010. Due risposte della UE, inizialmente di carattere temporaneo e poi valutate come necessarie a regime, nate per reazione alla crisi del 2007/2008 e, successivamente, a quella del 2011 dei paesi “periferici” dell’Eurozona.
Nel tempo sono stati effettuati diversi interventi, per totali 348,3 miliardi di Euro: Cipro (6,3 miliardi), Irlanda (17,7), Grecia (in tre fasi; per 53, 142 e 62), Portogallo (26) e Spagna (solo sul sistema bancario; 41,3). Ad oggi mancano ancora di essere rimborsati aiuti solo per un residuo complessivo di 89,9 miliardi.
È partecipato dai 19 Paesi dell’Eurozona e ha una governance abbastanza complessa. Un “board of Governors”, formato dai singoli ministri economici dei singoli Stati dell’Eurozona, con funzioni di indirizzo; un “board of Directors”, formato da 19 funzionari scelti per ciascun Paese dal rispettivo ministro dell’economia; un “direttore generale” con poteri di gestione dei soli affari correnti, ad oggi il tedesco Klaus Regling; infine, alle riunioni partecipano anche il presidente della BCE (prima l’italiano Draghi, ora la francese Lagarde) e il Commissario UE agli affari economici (attualmente l’italiano Gentiloni). È, pertanto, un “organo tecnico a guida politica”.
Le decisioni, per statuto, vengono prese secondo la regola del “comune accordo” (i.e. unanimità), salvo quelle di “estrema urgenza”, che devono rispettare la maggioranza qualificata dell’85%, e la nomina del direttore generale, che viene presa con la maggioranza qualificata dell’80%. Le percentuali di voto si calcolano proporzionalmente alla quota di capitale sottoscritta, che a sua volta è calcolata in funzione della dimensione delle singole economie dei Paesi membri.
Essendo l’Italia il terzo contributore, con il 18% del capitale sottoscritto, siamo tra i tre paesi (gli altri sono la Germania, con il 27%, e la Francia, con il 20%) con diritto di veto nelle decisioni di estrema urgenza. Il che, oltre alla regola dell’unanimità sulle questioni generali, ci mette in una condizione di privilegio nella “fairness” dei suoi meccanismi decisori.
La disponibilità teorica è di circa 704 miliardi di euro sottoscritti dagli Stati membri (poco meno di 125 l’Italia), di cui versati ad oggi 80 (poco più di 14 l’Italia). Il MES, ovviamente, può ricorrere (come in effetti ha fatto) sia ad emissioni di titoli propri che a cofinanziamenti con il Fondo monetario internazionale (andando così a formare la cd. Trojka, giornalisticamente parlando: Commissione, tramite il MES, BCE e FMI). L’attuale rating è “AAA, stable”, per Standard & Poors e Fitch, mentre è “Aa1, stable” per Moody’s, con un costo della raccolta stimato a giugno scorso in ca. -0,21% e, stando alle notizie disponibili[2], le risorse effettivamente erogabili complessivamente ammontano oggi a circa 410 miliardi.
Le forme tecniche di intervento, sino a qui in vigore, sono sostanzialmente: (i) prestiti diretti a uno Stato membro, suddivisi in due forme tecniche; (ii) ricapitalizzazione di singole banche dell’Eurozona; (iii) acquisto di titoli sovrani dei Paesi membri. Le due forme tecniche di prestiti agli Stati membri sono (a) le linee di credito PCCL (precutionary conditioned credit line), ad accesso condizionato all’essere in regola con il patto di stabilità (ad oggi sospeso, a seguito degli interventi attuati dalla UE per reagire agli effetti della crisi epidemiologica) e (b) le linee ECCL (enhanced conditions credit line), ad accesso non condizionato ma con l’impegno ad attuare misure correttive di bilancio nel tempo.
Tipicamente, queste misure correttive sono afferenti ad ipotesi di consolidamento fiscale, di introduzione di riforme strutturali e di riforme del settore finanziario, di volta in volta secondo le necessità che vengono individuate in un apposito accordo iniziale e rispecchiano la previsione (del già citato articolo 136 del TFUE) di “rigorosa condizionalità”. D’altronde, in via generale appare oggettivamente pacifico che un “creditore plurale” (un Ente che deve garantire più soggetti sottoscrittori) ponga delle “condizioni” (condivise e accettate dal “prenditore”) sull’utilizzo dei fondi prestati e/o delle condizioni di rimborso e/o delle limitazioni ad azioni future che potrebbero mettere in pericolo il rimborso.
2. La “linea pandemica”
Il coordinamento delle decisioni europee, di fronte all’emergenza data dalla pandemia e, ancor più, dei suoi effetti economici conseguenti ai lockdown nei vari Paesi, ha avuto una storia travagliata. La riunione preliminare, quella del 16 marzo 2020 dell’Eurogruppo, ha trovato un punto d’incontro nella lettera firmata dal presidente Centeno (ministro economico del Portogallo) e indirizzata al Consiglio Europeo (i premier dei singoli Paesi membri). La riunione di quest’ultimo, il successivo 26 marzo 2020, non ha visto raggiungere un accordo unitario sul pacchetto di aiuti, creandosi una contrapposizione fra i Paesi più “rigoristi”, che sostenevano l’utilizzo del MES, e i Paesi più “solidali” che sostenevano lo strumento degli Eurobond (“generalisti” o “di scopo”, i cd. “Coronabond”), peraltro col difetto tecnico dovuto alla tempistica “lunga” legata alla loro emissione. L’Italia, in particolare, si opponeva in quel momento all’utilizzo del MES per via dei suoi requisiti di “condizionalità” sulle politiche economiche successive (di cui si dirà oltre). Il Consiglio Europeo aveva quindi rinviato di nuovo, all’Eurogruppo successivo, il mandato di definire una proposta adeguata e condivisa. Nella riunione del 9 aprile 2020, infine, il consesso dei ministri dell’economia ha svolto, non senza contrapposizioni iniziali, il suo compito.
L’intervento del MES è previsto, in via generale, a sostegno di un Paese membro nei casi di shock asimmetrici ovvero per uno o più Paesi nei casi di shock esogeni (come è il caso dell’attuale crisi pandemica). Ecco quindi che, oltre alle previsioni del Recovery Fund (programma Next Generation UE), del SURE e dell’allocazione dei fondi BEI per le PMI europee, in quella riunione è stata ipotizzata una specifica linea di credito legata alle necessità finanziarie dovute alla copertura delle spese sanitarie emergenziali.
L’utilizzo dell’ESM Pandemic Crisis Support, previsto da questo accordo, è una facoltà per ciascun Paese membro ed ha il vantaggio dato dall’utilizzare, a differenza di altri strumenti, risorse finanziarie già esistenti (le somme, ove richieste, potranno essere disponibili immediatamente in tranches mensili del 15% dell’importo assegnato a ciascun Paese richiedente). Ne viene previsto uno stanziamento complessivo di 240 miliardi, senza condizionalità particolari di bilancio aggiuntive, destinato unicamente al sostegno della spesa pubblica sanitaria e di cura e prevenzione, per un importo stimato (modificabile nel tempo) pari al 2% del PIL di ciascun Paese membro che ne richieda l’utilizzo (per l’Italia, sarebbero disponibili circa 35/36 miliardi).
3. Come cambierà il MES (a breve)
Già nel corso del 2018 e del 2019, i Paesi membri (nelle riunioni dell’Eurogruppo, che – sia detto per inciso – ha pressoché la medesima composizione del “Board of Governors”) hanno individuato alcune modifiche all’impianto del MES stesso, a seguito di una proposta della precedente Commissione non andata a buon fine.
La proposta, poi scartata, era quella di trasformare il MES in un vero e proprio Fondo autonomo (una sorta di Fondo monetario europeo, al pari del Fondo monetario internazionale). Le modifiche invece concordate in sede di Eurogruppo, mantenendo la struttura attuale, attengono a quattro profili sostanziali, secondo una logica “a pacchetto” (MES + Unione Bancaria): (i) la funzione di “backstop” (cioé di “paracadute finale” in caso di crisi bancarie a sostegno del “fondo di risoluzione unico” delle banche); (ii) la funzione di organo tecnico per la Commissione UE (che resta organo politico deputato) nei casi estremi di ristrutturazione dei debiti sovrani; (iii) la riforma delle CACs (clausole di azione collettiva), cioè dei diritti di voto spettanti agli investitori nella decisione di eventuali ristrutturazioni delle scadenze (cut off, duration) o dei rimborsi (haircut) dei titoli del debito pubblico di un Paese membro, passando da logiche “dual limb” (doppie maggioranze) a quella “single limb” (unica maggioranza); (iv) l’introduzione di procedure semplificate e/o di non condizionalità successiva per l’accesso di una parte delle linee di credito (le PCCL).
La posizione dell’Italia è stata illustrata, in una recente audizione parlamentare[3], dal ministro Gualtieri, in preparazione della successiva riunione dell’Eurogruppo del 30 novembre 2020, nella quale i ministri economici dell’Eurozona hanno approvato le modifiche al MES (che entrerà in vigore dopo le ratifiche nazionali nel 2022) e il backstop, ma non ancora raggiunto l’accordo sull’EDIS[4].
Le proposte di modifica in discussione, peraltro, tendono a realizzare – a prescindere dalla linea Pandemic, nata sull’onda dell’emergenza – una compenetrazione funzionale fra lo strumento MES e la supervisione bancaria (nelle sue declinazioni attuali: SRM, single resolution mechanism; SSM, single supervisory mechanism, SRB, single resolution Board), allargando il perimetro degli obiettivi del primo: da strumento a salvaguardia del sistema Euro e dei soli Stati membri, a salvaguardia di ultimo livello (a date condizioni di emergenza) anche delle crisi bancarie private.
A seguito di ciò, e per quanto qui di interesse in tema di MES, le modifiche più rilevanti sono così riassumibili: (i) la linea di intervento PCCL (linea “precauzionale”) diverrebbe basata sulla definizione di specifici parametri generali da rispettare, rendendo non più discrezionale la fissazione delle condizionalità e superando l’attuale memorandum of understanding negoziale preventivo, lasciando allo Stato membro richiedente la definizione unilaterale di quali interventi adottare per superare le difficoltà (una sorta di “impegno di risultato”); (ii) la linea ECCL (quella “rafforzata”) e le altre linee di intervento (quelle sul sistema bancario di uno Stato membro e quelle sul suo debito pubblico) resterebbero basate sulla negoziazione ad hoc delle condizionalità da rispettare, da graduare secondo un principio di proporzionalità in ragione dell’intervento attuato e non escludendo l’inclusione di specifiche misure di bilancio da adottare; (iii) il ruolo del MES (e del suo Direttore Generale) si rafforzerebbe, rispetto ad oggi, affiancando la Commissione UE nelle valutazioni dei Paesi membri[5].
4. Le polemiche sull’utilizzo della “linea pandemica” e del MES in generale
Definito il quadro giuridico e sostanziale del MES e della sua evoluzione attesa, occorre necessariamente affrontare – in chiave tecnica – alcune delle polemiche recenti che hanno contribuito ad una generale “confusione” sul tema.
Alcune delle paure sul ricorso al MES vertono sulla “cessione di sovranità” e sull’interpretazione dell’art 136 del TFUE, spesso ricorrendo all’esempio ultimo della Grecia.
In realtà, la dimensione dei tre interventi a favore della Grecia e la particolarità della situazione di partenza (effetti della crisi finanziaria sommata a quella interna e a dati statistici falsificati, quindi con intervento tardivo) la rende un caso non oggettivamente paragonabile al nostro, soprattutto in relazione alla possibile richiesta della “linea pandemica”. Né, a ben vedere, vi sono stati effetti negativi negli altri interventi (Irlanda, Spagna, Portogallo, Cipro) che, anzi, hanno dato risultati (statistici, le questioni redistributive non dipendono dallo strumento di assistenza finanziaria) più che positivi. La questione dell’ingerenza (rectius, “rigorosa condizionalità”) della c.d. Trojka è invece riconducibile agli impegni da negoziare con il Memorandum of Understanding, dal quale traggono fondamento giuridico.
Ora, è giusto dire che, da un lato, tali condizionalità derivano dall’emendato art. 136 del TFUE, prima ancora che dal Trattato istitutivo del MES, mentre, dall’altro, sono le parole stesse contenute in quell’articolo (e nei regolamenti del MES) che inducono diffidenza. Invero, occorre chiarire alcuni aspetti, uno giuridico e uno sostanziale. Sotto il profilo giuridico, richiamato in precedenza l’iter deliberativo e di approvazione del MES, le critiche sulla sua “estraneità” al corpo legislativo europeo appaiono – a giudizio di chi qui scrive – infondate.
La critica si basa sulla circostanza che la modifica al TFUE sia irregolare in quanto intervenuta con la procedura di consultazione semplice ex art. 48, sesto comma, e non con l’indizione di una conferenza intergovernativa. E che, addirittura, siccome l’articolo 136 recita «[…] istituire un meccanismo di stabilità […]», questo non integri la costituzione di una società veicolo o di un fondo con personalità giuridica.
Sul punto, però, è già esaustivamente intervenuta la CGUE, con sentenza del 27 novembre 2012, causa C-370/12, pronunciandosi a favore della legittimità della modifica e dell’istituzione del MES.
Sotto il profilo sostanziale, invece, sono le minori condizionalità approvate per la linea Pandemic a destare diffidenza, poiché appaiono in contrasto con i regolamenti delle linee ordinarie del MES e con la previsione dello stesso art. 136 («la concessione di qualsiasi assistenza finanziaria […] sarà soggetta a una rigorosa condizionalità»): gli annunci di una linea “priva” di condizionalità sono apparsi, ad alcuni interpreti, incompatibili con i trattati.
Invero, va fatta chiarezza sul punto. A prescindere dalle modifiche in corso di cui abbiamo già parlato e che sono coerenti con quanto stabilito per la linea Pandemic, “anticipata” per ragioni esogene date dall’emergenza epidemiologica nel frattempo scoppiata in tutta Europa, tale linea di intervento prevede le seguenti condizioni: (i) destinazione vincolata degli interventi (al comparto sanitario), previa definizione preventiva di un apposito piano di intervento governativo; (ii) verifica periodica dello stato di attuazione degli interventi (c.d. rendicontazione degli interventi e verifica di coerenza degli obiettivi); (iii) superata l’emergenza, il rispetto dei parametri di stabilità già in essere prima dello scoppio dell’emergenza – peraltro sospesi nel 2020/2021, e vi è dibattito in sede europea sul se e il quando verranno riattivati – che sono anche, peraltro, le principali condizioni previste per le “nuove” linee PCCL previste dalle modifiche in arrivo (comprensive della deroga al parametro sul Debito superiore al 60% del Pil – come nel nostro caso, ma ormai comune ad altri Paesi come la Spagna e la Francia – per il quale varrà la regola del rientro per 1/20 calcolata in funzione del ciclo economico, ai sensi del Fiscal Compact).
E’ stata poi sollevata la questione del “rischio stigma” – ovvero della possibilità che, ricorrendo ad un credito privilegiato (come in effetti è il MES), si dia un segnale negativo ai mercati e che quindi questi chiedano tassi più alti sul debito “ordinario” – che è, a giudizio di chi qui scrive, ampiamente sopravvalutata.
Intanto, il costo del MES a 7/10 anni si aggira oggi intorno allo zero (-0,07/0,08%), a fronte di un tasso (in emissione) di titoli del nostro debito pubblico di circa lo 0,8% a pari durata (basso, per effetto soprattutto degli interventi BCE, ma ormai il maggiore di tutti gli altri Paesi dell’Eurozona), il che costituirebbe un risparmio di circa 280/300 milioni ad anno. Poi, sotto il profilo empirico, anche il SURE (già attivato dall’Italia) e il Recovery Fund, per la parte a debito, sono “privilegiati”, ma non si sono alzate critiche sul ricorso a tali strumenti. Inoltre, la linea Pandemic del MES, destinata al sostegno dei costi sanitari, ammonterebbe a circa l’1,4% del nostro debito pubblico totale; ammontare del tutto irrisorio, per determinare la percezione di un effetto di minore rimborsabilità del restante debito in essere. Infine, sotto il profilo teorico, come ricordato anche da Tabellini e dagli insegnamenti (storici) di Modigliani e Miller, il costo medio del debito resterebbe al massimo invariato, se non per gli scostamenti dei tassi che si verificherebbero a prescindere nel corso del tempo.
Ciò porta ad affrontare il tema del perché non viene chiesto dagli altri Paesi europei. Le valutazioni sono molteplici, ma due paiono le più rilevanti. In primo luogo, è proprio il tema del costo finanziario dello strumento, ad essere determinante. Paesi che – a minor stock di debito pubblico in essere – pagano un minor costo sull’indebitamento, si trovano (almeno ad oggi, sotto gli interventi della BCE) ad avere una minore convenienza, se non addirittura a non averne nessuna, nel ricorrere a questa linea di assistenza finanziaria. In secondo luogo, l’adozione o meno, nei tempi che sono in corso di concertazione, delle citate modifiche dello stesso MES, condiziona – per chi non ne ha convenienza immediata – la scelta, e induce, giustamente, ad essere attendisti, in attesa delle evoluzioni annunciate.
5. Conclusioni
Detto quindi che le modifiche che stanno per essere introdotte non peggiorano la situazione che già c’era dal 2013 e contestualizzato, con le parole dell’ex ministro Tria, che stiamo parlando di “un accordo fra più paesi portatori ciascuno di più interessi”, l’utilità del MES sta in due semplici considerazioni. Una è racchiusa nelle parole dell’attuale ministro dell’economia, Gualtieri, quando disse che «fa parte della cassetta degli attrezzi»; è, cioè, uno strumento (e non il solo) né da santificare come risolutivo e nemmeno da rigettare come il demonio. L’altra è insita nel principio della co-assicurazione fra Stati, esattamente come sarebbe, peraltro, con le emissioni di Eurobond di scopo, ed è la fruizione di una “barriera protettiva” dai rischi finanziari speculativi su un singolo Paese membro. La prevista “potenza di fuoco” fino a 500 miliardi per intervento è deterrente oggettivamente congruo per attacchi strumentali, poiché l’ipotesi di “ristrutturazione del debito sovrano” resterebbe, di conseguenza, solo su base volontaria (e, quindi, tutta reindirizzata alla credibilità dei singoli Governi di volta in volta in carica). Quest’ultima cosa, fra l’altro, attenuerebbe il peso della spada di Damocle dei giudizi delle agenzie di rating internazionali in tema di “rischio-ristrutturazione” (del debito), che – data la situazione delle nostre finanze pubbliche, di cui siamo i soli colpevoli – con eventuali ulteriori declassamenti (per ragioni di policy di risk management, siamo già sui livelli minimi di rating per essere inseriti nei portafogli di banche e fondi di investimento) condizionerebbero la possibilità, per questi soggetti, di continuare o meno ad investire nei nostri titoli di Stato[6].
[1] Qui il link al testo attualmente in vigore: https://www.esm.europa.eu/sites/default/files/20150203_-_esm_treaty_-_it.pdf
[2] https://www.esm.europa.eu/content/what-esm%E2%80%99s-lending-capacity
[3] http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01185213.pdf
[4] https://www.consilium.europa.eu/it/meetings/eurogroup/2020/11/30/. Nello specifico, occorre dire che già con le risoluzioni parlamentari 6-00091 (Delrio et al.) e 6-00087 (Perilli et al.) del dicembre dello scorso anno, il Parlamento aveva impegnato il Governo, in relazione sia al MES che al rafforzamento dell’Unione Bancaria attraverso lo schema europeo di assicurazione dei depositi (EDIS, european deposit insurance scheme), ad (i) escludere interventi restrittivi sulla detenzione di titoli di Stato da parte delle Banche e di altre istituzioni finanziarie, (ii) escludere contribuzioni aggiuntive all’EDIS, da parte delle banche, in funzione della detenzione nei portafogli titoli di emissioni di debito pubblico, (iii) esclusione di clausole automatiche di ristrutturazione del debito.
[5] Per completezza, qui il link delle nuove previsioni di condizionalità in discussione: https://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/dossier/file_internets/000/010/501/Allegato_III.pdf
[6] Per mera completezza di trattazione, si rinvia a un glossario sintetico dei temi qui affrontati (https://www.cuoaspace.it/2020/05/eu-financial-framework-guide-essential.html), redatto dall’autore per CUOA Business School.