1. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 41, depositata in data 2.3.2018, ha affermato il principio per il quale chi deve scontare una pena, anche residua, fino a 4 anni di carcere, ha diritto alla sospensione dell’ordine di esecuzione allo scopo di chiedere e ottenere l’affidamento in prova ai servizi sociali, nella versione “allargata” introdotta dal legislatore nel 2013.
È quindi incostituzionale il quinto comma dell’articolo 656 del Codice di procedura penale, «nella parte in cui si prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non superiore a tre anni anziché a quattro anni».
1.1 Al fine di inquadrare il tema, va osservato, anzitutto, che, come ricorda la Consulta nella sua decisione in oggetto, la sospensione automatica dell’ordine di esecuzione è conseguente alla sentenza della medesima Corte costituzionale n. 569 del 1989, con la quale si è esteso a chi si trovava in stato di libertà la possibilità di accedere all’affidamento in prova, riservato in precedenza ai soli detenuti in carcere.
A seguito di tale decisione, quindi, il legislatore ha inteso, poi, cogliere l’obiettivo tendenziale di risparmiare il carcere al condannato, obiettivo conseguito con il sostituire, con la l. 27.5.1998, n. 165, l’art. 656 c.p.p. e con l’introdurre l’automatica sospensione dell’esecuzione della pena detentiva entro un limite temporale pari a quello previsto per godere della misura alternativa: la disposizione censurata, infatti, prescrive, in via generale, l’effetto sospensivo relativo alle sole pene che non eccedono il tetto cui è subordinato l’accesso alla misura alternativa.
La stessa Consulta ricorda, quindi, che siffatto tendenziale parallelismo è stato, poi, coltivato dal legislatore attraverso l’incremento della soglia di accesso alla misura alternativa accompagnato da una pari elevazione del limite temporale stabilito ai fini della sospensione: e ciò dapprima con l’art. 4-undevicies del dl 30.12.2005, n. 272, convertito, con modificazioni, dalla l. 21.2.2006, n. 49 − che ha alzato a sei anni questo limite, in collegamento con l’art. 4-undecies del medesimo testo normativo, che aveva aumentato in uguale misura l’entità della pena detentiva da espiare in affidamento in prova per l’alcooldipendente o il tossicodipendente sottoposti a un programma di recupero −; quindi, con il dl 1.7.2013, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla l. 9.8.2013, n. 94, che ha portato a quattro anni il termine valido per la sospensione dell’ordine di esecuzione, ai fini della concessione della detenzione domiciliare, allo scopo di renderlo equivalente al nuovo termine previsto per godere della misura dell’art. 47-ter della l. n. 354 del 1975.
La sentenza della Consulta in esame ha, tuttavia, spiegato che, nel caso di specie, all’introduzione dell’affidamento in prova per pene da espiare fino a quattro anni di detenzione non ha corrisposto un’analoga modificazione del termine indicato dall’art. 656 c.p.p., posto che non è stata ancora esercitata la delega legislativa conferita con l’art. 1, comma 85, lettera c), della l. 23.6.2017, n. 103, il quale prevede che il limite di pena che impone la sospensione dell’ordine di esecuzione sia fissato, in ogni caso, in quattro anni.
Invero, l’art. 3, comma 1, lettera c), del dl 23.12.2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla l. 21.2.2014, n. 10, ha introdotto un comma 3-bis nel corpo dell’art. 47 della l. 26.7.1975, n. 354, con il quale, si diceva, si è delineata un’ulteriore forma di affidamento in prova, cosiddetto allargato, per il condannato che deve espiare una pena, anche residua, non superiore a quattro anni di detenzione − misura che può essere concessa al condannato che ha serbato, quanto meno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, un comportamento tale da consentire un giudizio prognostico favorevole quanto alla sua rieducazione e alla prevenzione del pericolo di commissione di altri reati −; nuova misura alternativa che può, per ciò, essere concessa anche per pene comprese tra tre anni e un giorno e quattro anni di detenzione, senza che, tuttavia, dette pene potessero venire sospese in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza perché il limite triennale a tal fine previsto dall’art. 656, comma 5, cpp, non era stato adeguato.
1.2 Ciò posto, va appena ricordato, a titolo di completezza, che il tema dell’interpretazione dell’art. 656, comma 5, cpp, è stato oggetto, prima dell’intervento della Consulta, di un contrasto all’interno della giurisprudenza di legittimità.
Invero, la Sezione 1 della Cassazione ha dapprima affermato (tra le altre, con la sentenza n. 51864 del 31.5.2016 Cc. − dep. 5.12.2016 −, Rv. 270007, Fanini; sentenza n. 37848 del 4.3.2016 Cc. − dep. 12.9.2016 −, Trani; sentenza n. 53426 del 9.11.2016 Cc. − dep. 15.12.2016 −, Hu Dongfang), che, in tema di esecuzione di pene brevi, in considerazione del richiamo operato dall’art. 656, comma quinto, cpp all’art. 47 ord. pen., ai fini della sospensione dell’ordine di esecuzione correlata ad una istanza di affidamento in prova ai sensi dell’art. 47, comma terzo bis, ord. pen., il limite edittale non fosse quello di tre anni ma di una pena da espiare, anche residua, non superiore a quattro anni.
In altri termini, la Corte di legittimità ha sostenuto che, in ragione del raffronto fra l’art. 656, comma 5, cpp, e l’art. 47, comma 3-bis, ord. pen., dovesse ritenersi che il limite previsto in astratto per la sospensione della esecuzione, ai sensi dell’art. 656, comma 5, cpp, fosse quello della pena, anche residua, non superiore ad anni quattro, quando la sospensione fosse richiesta ai sensi dell’art. 47, comma 3-bis, ord. pen., cioè in correlazione con una istanza di affidamento in prova.
Ad avviso di tale prima lettura della giurisprudenza di legittimità, infatti, il richiamo dell’art. 656, comma 5, secondo periodo, cpp, all’art. 47 ord. pen. nella sua interezza consentiva «… di interpretare la prima norma avvalendosi del criterio sistematico e di quello evolutivo, pur in mancanza del dato formale di una sua esplicita modifica che, tenendo conto del recente inserimento del comma 3-bis nell’art. 47 ord. pen., (introducesse) il richiamo specifico dell’ipotesi prevista da tale nuovo comma nel testo letterale della disposizione del codice di rito»; con l’effetto per il quale, nel caso concretamente contemplato dalla Corte, poiché risultava «… pacifico che … la pena detentiva, residua al momento della presentazione dell’istanza, non era superiore ad anni quattro di reclusione, il giudice dell’esecuzione avrebbe dovuto considerare sussistente −al fine della sospensione dell’ordine di carcerazione − il requisito riguardante la quantità di pena espianda».
Con successiva decisione della medesima Sezione 1 della Cassazione, tuttavia (sentenza n. 46562 del 21.9.2017 Cc. − dep. 10.10.2017 −, Rv. 270923, Gjini), si è affermato il contrario principio per il quale, in tema di esecuzione di pene detentive brevi, ai fini della sospensione dell’ordine di esecuzione correlata ad un’istanza di affidamento in prova ai servizi sociali ai sensi dell’art. 47, comma 3-bis, ord. pen., il limite edittale cui il pubblico ministero deve fare riferimento per l’emissione dell’ordine di carcerazione ex art. 656, commi 5 e 10, cpp è quello di tre anni, essendo rimessa al Tribunale di sorveglianza ogni valutazione circa l’istanza di affidamento in prova nel caso di pena espianda, anche residua, non superiore ad anni quattro.
Dopo aver espressamente citata la sentenza della medesima Sez. 1, n. 51864 del 31.5.2016 Cc. − dep. 5.12.2016 −, Rv. 270007, la stessa Sezione 1 della Corte ha affermato di non poter condividere il precedente di legittimità or ora citato; ed ha ritenuto di evidenziare che l’indicata decisione faceva dichiarata applicazione del criterio di interpretazione evolutiva dell’art. 656, comma 5, secondo periodo, cpp, laddove, su di un piano più generale, siffatto «…canone dell’interpretazione evolutiva, che affida al giudice la capacità di creare diritto seguendo il passo dello sviluppo della società, (sarebbe), di per sé, controverso in ambito civile − è escluso in ambito processuale: Sez. U., n. 15144 dell’11.7.2011, Rv. 617905; è ammesso nel settore delle controversie tributarie da Sez. 5, n. 30722 del 30.12.2011, Rv. 621046; è ammesso in quello della tutela dei soggetti deboli: Sez. 6, n. 19017 del 16.9.2011, Rv. 620058 e di promozione di categorie svantaggiate: Sez. U., n. 8486 del 14.4.2011, Rv. 616792 −, mentre (sarebbe) tradizionalmente escluso nel settore penale poiché si (scontrerebbe) sia con il principio costituzionale della riserva di legge, sia con quello della separazione dei poteri − in questo senso si vedano i paragrafi n. 11 e n. 12 della sentenza n. 230 del 2012 della Corte Costituzionale −».
La Corte di legittimità, quindi, ha continuato con l’affermare che «…nella giurisprudenza di legittimità, il detto canone interpretativo (sarebbe) stato, infatti, sempre escluso sulla base del rilievo che “l’interpretazione estensiva della legge è consentita perché non amplia, ma discopre l’intero contenuto della norma; l’interpretazione evolutiva è invece vietata perché snatura la funzione del giudice da organo di applicazione in quello di formazione della legge” − Sez. 3, n. 2230 dell’11.1.1980, Pasculli, Rv. 144357; a proposito dell’art. 54 c.p.: Sez. 3, n. 10772 del 7.10.1981, Potenziani, Rv. 151195 −, fatta salva la necessità di interpretare secondo il criterio storico-evolutivo determinate clausole a contenuto etico-sociale − sul comune senso del pudore, si veda Sez. 3, n. 5308 del 3.2.1984, Rossellini, Rv. 164642 −».
Tanto pur opinabilmente premesso, la sentenza che si va ricapitolando, alla stregua delle più volte richiamate disposizioni normative, ha ribadito che la sospensione dell’ordine di carcerazione con prosecuzione del regime degli arresti domiciliari, in attesa della decisione del Tribunale di sorveglianza, era prevista unicamente quando la pena residua da espiare non fosse superiore ad anni tre, a eccezione dei casi particolari previsti dagli articoli 47-ter, comma 1, ord. pen., e 90 e 94 dPR n. 309/1990; laddove sarebbe stata da escludere la possibilità di procedere all’indicata interpretazione evolutiva dell’art. 656, comma 5, cpp, da più punti di vista, ad iniziare da quello per il quale, a differenza dei casi previsti dall’art. 656, commi 5 e 10, cpp, l’ipotesi introdotta all’art. 47, comma 3-bis, ord. pen., non avrebbe potuto avere un’applicazione «automatica» da parte dell’organo dell’esecuzione penale, essendo richiesta una specifica valutazione di merito da parte del Tribunale di sorveglianza, sicché «… tale discrezionalità del provvedimento giurisdizionale, agganciata ad elementi valutativi compendiati in relazioni di osservazione o informazioni di polizia, (sarebbe stata) di ostacolo a una, anche solo sommaria, delibazione da parte dell’organo dell’esecuzione all’atto dell’emissione dell’ordine di carcerazione poiché il potere di sospenderne l’emissione, in vista della decisione del giudice competente, è di stretta interpretazione».
Inoltre, la decisione che si va compendiando ha assunto che «… il legislatore (era) recentemente intervenuto − art. 1, commi 82 e 85, legge 23 giugno 2017, n. 103, recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario” − nel settore dell’ordinamento penitenziario, dettando alcune disposizioni che (sarebbero state) logicamente inconciliabili con la proposta interpretazione evolutiva dell’art. 656 cpp», posto che «… la legge delega ha, infatti, autorizzato il Governo a emanare uno o più decreti delegati che involgono il tema oggetto del giudizio, nel rispetto di specifici criteri di delega − art. 1, comma 85, lett. c) −» e «… tra essi spicca, per la sua specifica rilevanza, la “revisione della disciplina concernente le procedure di accesso alle misure alternative, prevedendo che il limite di pena che impone la sospensione dell’ordine di esecuzione sia fissato in ogni caso a quattro anni [...]”»; la conseguenza che da tal premessa si trae è che «… l’intervento del legislatore delegante corrobora(va) … l’interpretazione restrittiva dell’art. 656, comma 5, c.p.p.», atteso che «… il criterio di delega, volto a elevare a quattro anni il limite di pena per la sospensione obbligatoria dell’ordine di carcerazione, sarebbe (stato) superfluo nell’ottica dell’interpretazione evolutiva propugnata nel ricorso».
1.3 Nel mentre si sviluppava siffatto contrasto interno alla giurisprudenza di legittimità, ed ancor prima del deposito della decisione da ultimo evocata, dal suo canto e con ordinanza del 13 marzo 2017, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Lecce ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 5, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che l’ordine di sospensione della pena debba essere emesso anche nei casi di pena non superiore a quattro anni di detenzione».
Prima di accennare ai contenuti decisori della sentenza della Consulta, mette appena conto di evocare l’ordinanza ora citata, ove si ricordava che il giudice a quo era stato investito, in qualità di giudice dell’esecuzione, della domanda di sospensione di un ordine di esecuzione della pena detentiva di tre anni, undici mesi e diciassette giorni, che il pubblico ministero aveva emesso in base all’art. 656, comma 1, cpp, senza sospenderlo, perché la pena da scontare eccedeva il limite di tre anni fissato dal quinto comma dello stesso articolo; il condannato aveva quindi chiesto al giudice a quo di dichiarare inefficace l’ordine di esecuzione, sostenendo che esso avrebbe dovuto essere sospeso nonostante la pena da espiare eccedesse il limite triennale, perché l’art. 47, comma 3-bis, della l. n. 354 del 1975, introdotto dall’art. 3, comma 1, lettera c), del dl 23.12.2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla l. 21.2.2014, n. 10, consentiva una particolare forma di affidamento in prova quando la pena detentiva da eseguire non è superiore a quattro anni, con l’effetto per il quale il limite cui subordinare la sospensione dell’ordine di esecuzione avrebbe dovuto armonizzarsi con tale tetto e ritenersi fissato anch’esso in quattro anni anziché in tre come prevedeva la lettera della disposizione censurata; il giudice a quo, «… escluso di poter interpretare la disposizione nel senso auspicato dal ricorrente, dato l’univoco tenore letterale della stessa, dubita(va) della sua legittimità costituzionale, nella parte in cui la sospensione dell’esecuzione continua(va) a essere prevista quando la pena detentiva da espiare non è superiore a tre anni, anziché a quattro».
1.4 Orbene: la Consulta, come si anticipava, ha ritenuto che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 5, cpp, in riferimento all’art. 3 Cost., fosse fondata, attesa «… l’attuale incongruità del disegno legislativo» che non consente di «… trovare una non irragionevole giustificazione per allontanarsi, in questo peculiare caso, dal parallelismo» tra soglia di accesso alla misura alternativa e limite temporale stabilito ai fini della sospensione, del quale si è dinanzi detto.
Quanto a tale incongruità del dettato legislativo dell’art. 656, comma 5, cpp, la Consulta ritiene necessario interrogarsi puntualmente sulla circostanza per la quale, ad opinione della stessa Consulta, «… il tendenziale collegamento della sospensione dell’ordine di esecuzione con i casi di accesso alle misure alternative costituisce un punto di equilibrio ottimale, ma appartiene pur sempre alla discrezionalità legislativa selezionare ipotesi di cesura, quando ragioni ostative appaiano prevalenti».
Tali «… ipotesi di cesura» potrebbero ipotizzarsi, ad avviso dei Giudici costituzionali, con riguardo a «… peculiari situazioni (che potrebbero aver suggerito) … al legislatore» dell’art. 656, comma 5, cpp, «… di imporre un periodo di carcerazione in attesa che l’organo competente (decidesse) sull’istanza di affidamento in prova» e ciò in ragione della «… particolare pericolosità della quale, secondo il legislatore, sono indice i reati in questione, alla quale» il legislatore avrebbe potuto ritenere di far fronte «… inizialmente con il carcere, secondo la ratio cui si ispira l’art. 656, comma 9, lettera a), c.p.p. nell’indicare specifici delitti per i quali è esclusa la sospensione dell’ordine di esecuzione»; ovvero il legislatore potrebbe aver preso atto «… che l’accesso alla misura alternativa (era) soggetto a condizioni così stringenti da rendere questa eventualità meramente residuale, sicché appar(iva) tollerabile che (venisse) incarcerato chi all’esito del giudizio relativo alla misura alternativa (avrebbe potuto) con estrema difficoltà sottrarsi alla detenzione: è quanto (oltre che per la gravità dei reati può dirsi accadere) per i delitti elencati dall’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, che l’art. 656, comma 9, lettera a), c.p.p., esclude dal beneficio della sospensione dell’ordine di esecuzione».
Ma, tanto premesso, la Consulta ha concluso nel senso per il quale, invece, «… nel caso di specie la rottura del parallelismo, imputabile al mancato adeguamento della disposizione censurata, appare di particolare gravità, perché è proprio il modo con cui la legge ha configurato l’affidamento in prova allargato che reclama, quale corollario, la corrispondente sospensione dell’ordine di esecuzione».
Invero, l’art. 47, comma 3-bis, della legge n. 354 del 1975 si rivolge espressamente anche ai condannati che si trovano in stato di libertà, senza alcuna distinzione di rilevanza rispetto ai detenuti, in ragione di «… una scelta del tutto coerente con lo scopo di deflazionare le carceri, visto che esso si persegue non solo liberando chi le occupa ma anche evitando che vi faccia ingresso chi è libero»; osservano i Giudici costituzionali che, dunque, rivolgendosi la norma anche a chi si trova in stato di libertà, «… la disposizione in questione, ai fini dell’applicazione della misura, richiede una valutazione del comportamento del condannato “quantomeno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, trascorso in espiazione di pena, in esecuzione di una misura cautelare ovvero in libertà”».
Or dunque: se «… è espressamente prevista la concessione dell’affidamento allargato al condannato in stato di libertà ma se l’ordine di esecuzione di una pena detentiva tra tre anni e un giorno e quattro anni non potesse essere sospeso, si tratterebbe di una previsione in concreto irrealizzabile, per quanto normativamente stabilita e voluta», atteso che «… l’esecuzione dell’ordine di carcerazione, avvenuta senza aver dato al condannato il tempo di chiedere l’affidamento in prova allargato e comunque senza attendere una decisione al riguardo, renderebbe impossibile la concessione della misura alternativa prima dell’ingresso in carcere».
Per i giudici costituzionali, dunque, «… tale è appunto la situazione normativa che si è realizzata a causa del mancato adeguamento dell’art. 656, comma 5, c.p.p.. Omettendo di intervenire su … (tale) normativa ancillare, il legislatore smentisce sé stesso, insinuando nell’ordinamento una incongruità sistematica capace di ridurre gran parte dello spazio applicativo riservato alla normativa principale» ed ha «… leso l’art. 3 della Costituzione», derogando «al principio del parallelismo senza adeguata ragione giustificatrice, dando luogo a un trattamento normativo differenziato di situazioni da reputarsi uguali, quanto alla finalità intrinseca alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva e alle garanzie apprestate in ordine alle modalità di incisione della libertà personale del condannato».
2. Tutto ciò rammentato, va, quindi, dato rapido atto del dibattito articolatosi, all’indomani della notizia della decisione della Consulta, all’interno degli uffici giudiziari requirenti italiani e, in specie, nel contesto delle procure generali presso le corti di appello, allo scopo di rintracciare un percorso comune interpretativo in ordine alle immediate ricadute applicative della decisione della Consulta.
A tali riguardi, va, in specie, data informazione delle scelte adottate dall’Ufficio di Procura generale presso la Corte di appello di Napoli, scelte condivise, all’esito di una partecipata riunione, dagli otto Procuratori del distretto; riunione, tenutasi in data 8.3.2018, all’esito della quale si sono confermate e precisate le prime linee interpretative già diffuse nel distretto e “fissate” in una motivata nota, quindi, redatta da questo Avvocato generale della Repubblica, d’intesa con il Procuratore generale, al fine di dare illustrazione delle ragioni in diritto delle scelte assunte, tenuto conto, peraltro, delle non del tutto uniformi determinazioni che si registravano assunte dagli altri Uffici di Procura generali italiani − determinazioni conosciute per il tramite dell’ormai collaudato meccanismo di comunicazione informale tra tali Uffici (oltre alle periodiche riunioni romane “autoconvocate” tra i vertici dei medesimi uffici, in specie tenute in previsione degli incontri con il Procuratore generale della Cassazione) −.
2.1 In primo luogo, infatti, non si è ritenuto potersi condividere l’insistito richiamo, che si è registrato contenuto in talune determinazioni che si andavano assumendo negli altri distretti italiani, al tema della successione delle leggi processuali in tema di esecuzione, tema che va subito annotato essere, invece, evidentemente diverso da quello in esame, laddove si ha riguardo ad una dichiarazione di incostituzionalità di norma processuale (sul punto, Sez. U., sentenza n. 42858 del 29.5.2014 Cc. − dep. 14.10.2014 −, Rv. 260695, pm in proc. Gatto, ove si insegna che i fenomeni dell’abrogazione e della dichiarazione di illegittimità costituzionale delle leggi vanno nettamente distinti, perché si pongono su piani diversi, discendono da competenze diverse e producono effetti diversi, integrando il primo un fenomeno fisiologico dell’ordinamento giuridico ed il secondo, invece, un evento di patologia normativa; in particolare, gli effetti della declaratoria di incostituzionalità, a differenza di quelli derivanti dallo ius superveniens, inficiano fin dall’origine, o, per le disposizioni anteriori alla Costituzione, fin dalla emanazione di questa, la disposizione impugnata).
Piuttosto, gli insegnamenti in materia della Corte di legittimità, tratti dalla giurisprudenza dettata in punto di successione di leggi processuali, vanno tenuti presenti anche nel caso di specie, semmai, sia per definire meglio il diverso contenuto concettuale della questione ora in esame, conseguente alla citata pronuncia della Consulta − rispetto al differente tema della successione di leggi processuali ora detto −, sia perché la lezione della Cassazione, nella sua interezza, rileva al fine di meglio indagare intorno all’ulteriore problema definitorio delle cd. situazioni processuali esaurite.
Il primo principio che rileva trarre dall’insegnamento della Corte di legittimità è quello per il quale le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena ma soltanto le modalità esecutive della stessa, non hanno carattere di norme penali sostanziali e pertanto, in assenza di una specifica disciplina transitoria, in caso di successione di leggi, soggiacciono al principio tempus regit actum e non alle regole dettate, in materia di successione di norme penali nel tempo, dall’art. 2 cod. pen. e dall’art. 25 della Costituzione (in tali sensi, Sez. U., sentenza n. 24561 del 30.5.2006 Cc. − dep. 17.7.2006 −, Rv. 233976, pm in proc. A., ove, in applicazione di tale principio, le SU hanno ritenuto che, in un caso nel quale vi era stata condanna per il delitto di violenza sessuale, la sopravvenuta inclusione di tale delitto, per effetto dell’art. 15 della legge 6.2. 2006 n. 38, tra quelli previsti dall’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario in quanto tali, e non più soltanto come reati-fine di un’associazione per delinquere, comportasse l’operatività, altrimenti esclusa, del divieto della sospensione dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 656, comma 9, lett. a), cpp, non essendo ancora esaurito il relativo procedimento esecutivo al momento dell’entrata in vigore della novella legislativa −).
Ove, dunque, l’espiazione della pena (o l’esecuzione di una misura alternativa) non sia iniziata o sia in corso al sopraggiungere di una nuova legge processuale, l’applicazione immediata della stessa discende proprio dal principio tempus regit actum (in tali sensi, Sez. U., sentenza n. 44895 del 17.7.2014 Cc. − dep. 28.10.2014 −, Rv. 260927, Pinna, ove è affermato che il principio di necessaria retroattività della disposizione più favorevole, affermato dalla sentenza Cedu del 17.9.2009 nel caso Scoppola contro Italia, non è applicabile in relazione alla disciplina dettata da norme processuali, che è regolata dal principio tempus regit actum − fattispecie relativa agli effetti della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, con la quale è stata dichiarata l’ incostituzionalità degli articoli 4-bis e 4-vicies ter del dl 30.12.2005, n. 272, convertito con modifiche dalla l. 21.2.2006, n. 49).
Quindi, come insegnato dalla Corte di legittimità, in caso di successione di leggi vige, nel campo processuale, come criterio regolatore del conflitto di diritto intertemporale, il principio dell’immediata operatività della legge successiva; principio il quale incontra, però, un limite di validità quando l’atto abbia compiutamente esaurito la propria funzione, dispiegando tutti i suoi effetti nell’ambito del regime anteriore alla nuova normativa, modificativa o sostitutiva di quella esistente al tempo in cui lo stesso atto è stato formato, perché allora da quest’ultima normativa la sua sorte giuridica resta regolata, dovendosi allo ius superveniens negare efficacia retroattiva.
Consegue che dalla legge posteriore debbono, invece, essere disciplinati, in virtù del principio richiamato, sia gli atti da compiersi nella sua vigenza, sia quelli posti in essere antecedentemente, qualora da essi siano derivate conseguenze giuridiche perduranti o situazioni processuali non ancora definite alla data della sua entrata in vigore.
Gli atti di quest’ultimo tipo (denominati permanenti) non sempre, infatti, sono suscettibili di regolamento unitario in quanto, esaurendosi la loro funzione con il completarsi del proprio ciclo temporale, rimangono esposti agli eventuali mutamenti legislativi, a differenza degli atti (cosiddetti istantanei) che nel momento stesso in cui vengono formati consumano i loro effetti.
Dunque, risulta evidente che i procedimenti di esecuzione (o di modificazione delle modalità di esecuzione) ancora in corso al sopravvenire di una nuova legge debbono da questa essere disciplinati senza che si possa parlare di retroattività della relativa normativa, bensì di immediata applicazione della stessa (in tutti tali sensi: Sez. 1, sentenza n. 33062 del 19.9.2006 Cc. − dep. 4.10.2006 −, Rv. 234384, pm in proc. Carderopoli, ove è detto che l’art. 659, comma 9, lett. c), cpp, come modificato dalla legge 5.12.2005, n. 251, siccome norma di natura processuale, è immediatamente applicabile a tutti i rapporti esecutivi che non siano ancora esauriti); Sez. 5, sentenza n. 22322 del 21.4.2006 Cc. − dep. 26.6.2006 −, Rv. 234708, Sibinovic, ove è ribadito che, in tema di esecuzione, in virtù del principio tempus regit actum, all’ordine di carcerazione emesso prima dell’entrata in vigore della legge n. 165 del 1998 che ha modificato l’art. 656 cpp, si applica la nuova disposizione dell’art. 656 comma 5, che impone al pubblico ministero di sospenderne l’esecuzione con decreto contenente l’avviso al condannato della facoltà di presentare, entro trenta giorni dall’avvenuta consegna del provvedimento, istanza di ammissione a una delle misure alternative alla detenzione in esso indicate; Sez. 1, sentenza n. 999 dell’11.2.2000 Cc. − dep. 8.3.2000 −, Rv. 215502, Patì, ove si afferma, in motivazione, che, stante la natura processuale delle regole relative all’esecuzione della pena, per esse trovi applicazione il principio del tempus regit actum, con la conseguenza che dalla legge posteriore debbono essere disciplinati, in virtù del principio richiamato, sia gli atti compiuti o da compiersi nella sua vigenza, sia quelli posti in essere antecedentemente, qualora da essi siano derivate conseguenze giuridiche perduranti o situazioni processuali non ancora definite alla data della sua entrata in vigore; Sez. 1, sentenza n. 949 del 2.2.1999 Cc. − dep. 22.3.1999 −, Rv. 212746, Oueslati; Sez. 1, sentenza n. 459 del 18.1.1999 Cc. − dep. 18.2.1999 −, Rv. 212584, PG in proc. Hamrouch).
2.2 Si diceva, tuttavia, che, nel caso in esame, si è di fronte al diverso caso della dichiarazione di incostituzionalità di norma processuale, con la conseguenza per la quale l’effetto retroattivo della declaratoria di illegittimità costituzionale (che elimina dall’ordinamento una norma, come se la stessa non avesse mai fatto parte del medesimo ordinamento), incidendo su di un rapporto di natura processuale che si articola in varie fasi che, a loro volta, si dipanano nel tempo e che rappresentano segmenti di una attività complessa, non può che riferirsi, secondo la giurisprudenza di legittimità, alla determinata fase in cui il processo si trova.
Questa scelta della giurisprudenza di legittimità è stata ritenuta coerente, comunque, con gli effetti di annullamento riconosciuti alla decisione di illegittimità costituzionale; annullamento che opera ex tunc ma con il limite dell’esaurimento del rapporto che, nel caso specifico, coincide con la fase processuale irretrattabile (sul punto, mette conto di evocare il pur risalente insegnamento di Sez. U., sentenza n. 7232 del 7.7.1984 Ud. − dep. 7.9.1984 −, Rv. 165563, Cunsolo, ove già si evidenziava che la dichiarazione di illegittimità costituzionale ha efficacia invalidante e non abrogativa e produce conseguenze simili a quella dell’annullamento; detta pronuncia, cioè, esplica i suoi effetti non soltanto per il futuro ma anche retroattivamente nei confronti di fatti e di rapporti instauratisi nel periodo in cui la norma incostituzionale era vigente, con esclusione delle situazioni giuridiche ormai consolidate, come tali insuscettibili di essere rimosse o modificate − cosiddetti rapporti esauriti − e con il conseguente obbligo per il giudice di non applicare la norma dichiarata incostituzionale non soltanto nel procedimento in cui è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale ma in ogni altro giudizio in cui la norma stessa possa essere assunta a canone di valutazione di qualsiasi fatto o rapporto anche se antecedente alla data di pubblicazione della suddetta sentenza e sempre che trattasi di fatti o rapporti ancora in via di svolgimento, non produttivi, cioè, di effetti giuridici definitivi − fattispecie relativa alla dichiarata illegittimità costituzionale dell’art. 513 cpp, con sentenza n. 224 del 1983 della Corte costituzionale, nella parte in cui escludeva il diritto dell’imputato a proporre appello avverso la sentenza di proscioglimento per amnistia −).
Dunque, va, in sintesi, affermato che la Cassazione riconosce che la dichiarazione di illegittimità costituzionale del giudice delle leggi determina una rimozione della norma affetta da un vizio genetico per contrasto con il precetto costituzionale, con efficacia ex tunc (precisa, peraltro, la già citata Sez. U., sentenza n. 7232 del 7.7.1984 Ud. − dep. 7.9.1984 −, Rv. 165565, Cunsolo, che, naturalmente, l’immediata operatività della dichiarazione di incostituzionalità nei giudizi non ancora definiti sussiste anche nella ipotesi di sentenza “additiva” della Corte costituzionale, quando, cioè, la suddetta dichiarazione importi la sostituzione positiva di una regola del decidere con altra regola anziché la pura e semplice caducazione di un testo normativo; in tal caso, il giudice deve assumere come canone di valutazione esclusivamente la disciplina risultante dalla innovazione apportata dalla decisione della corte costituzionale); e ribadisce il solo limite delle situazioni, sostanziali o processuali, esaurite e, a fortiori, della preclusione ob rem judicatam.
2.3 Ancor più in particolare, va annotato che una pronuncia della Corte costituzionale è destinata, all’evidenza, a produrre molteplici e rilevanti effetti; effetti che − sin dalla pubblicazione della sentenza medesima − involgono anche la fase dell’esecuzione, assegnando al giudice competente ex art. 665 cpp significativi poteri di intervento che discendono dai caratteri propri della pronuncia di incostituzionalità, per come richiamati dalla giurisprudenza di legittimità.
Si è già segnalato come la Corte di cassazione abbia sottolineato che gli effetti della declaratoria di incostituzionalità non sono paragonabili a quelli dello ius superveniens, poiché la dichiarazione d’illegittimità costituzionale inficia, come si diceva, fin dall’origine la disposizione impugnata.
Si è del pari già detto che la declaratoria d’illegittimità costituzionale di una norma − rimasta formalmente in vigore fino alla pubblicazione della sentenza costituzionale, ma sostanzialmente invalida − attesta che quella norma mai avrebbe dovuto essere introdotta nell’ordinamento repubblicano, che è Stato costituzionale di diritto, ciò che implica il primato delle norme costituzionali, che non possono perciò essere violate dal legislatore ordinario.
Pertanto, le pronunce d’illegittimità costituzionale fanno sorgere l’obbligo per i giudici − tutti i giudici, compreso quello dell’esecuzione −, avanti ai quali si invocano le norme di legge dichiarate illegittime, di non applicarle, a meno che i rapporti cui esse si riferiscono debbano ritenersi ormai esauriti in modo definitivo ed irrevocabile e conseguentemente non più suscettibili di alcuna azione o rimedio, secondo i principi invocabili in materia; sicché la declaratoria di illegittimità costituzionale, determinando la cessazione ex tunc di efficacia delle disposizioni che ne sono oggetto, impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza, che le stesse siano comunque applicabili anche a rapporti ai quali sarebbero state riferibili alla stregua dei comuni principi sulla successione delle leggi nel tempo.
Se, dunque, la norma costituzionalmente illegittima viene espunta dall’ordinamento proprio perché affetta da una invalidità originaria, ciò impone e giustifica la proiezione “retroattiva”, sugli effetti ancora in corso di rapporti giuridici pregressi, già da essa disciplinati, della intervenuta pronuncia di incostituzionalità; “incidenza retroattiva” della declaratoria di incostituzionalità che conosce un solo limite, non valicabile e non derogabile, costituito dai cosiddetti rapporti esauriti, per tali dovendosi intendere quelli che hanno trovato la loro definitiva ed irretrattabile conclusione mediante sentenza passata in giudicato ed i cui effetti non vengono intaccati dalla successiva pronuncia di incostituzionalità (sul punto, tra le numerose, Sez. 5, sentenza n. 15362 del 12.1.2016 Cc. − dep. 13.4.2016 −, Rv. 266564, Gaccione, ove è detto che è inammissibile l’istanza rivolta al giudice dell’esecuzione per la rideterminazione della pena illegale, derivante da dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, quando quest’ultimo, al momento della pronuncia su tale istanza, è stato interamente eseguito e il condannato ha già scontato la pena, poiché in tal caso si sono prodotti effetti irreversibili, con la conseguenza che l’eventuale rideterminazione finalizzata a future richieste risarcitorie per ingiusta detenzione è questione che deve essere risolta dal giudice competente a conoscere di tale richiesta, anche in via incidentale − fattispecie relativa alla dichiarazione di incostituzionalità della disciplina sugli stupefacenti ad opera della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale −).
A ciò va legata la constatazione per la quale, in specie, l’esecuzione della pena implica l’esistenza di un rapporto esecutivo, che nasce dal giudicato e si esaurisce soltanto con la consumazione o l’estinzione della pena; dunque, sino a quando l’esecuzione della pena è in atto, per definizione il rapporto esecutivo non può ritenersi esaurito e gli effetti della norma dichiarata costituzionalmente illegittima sono ancora perduranti e, dunque, devono essere rimossi; se è venuta meno la norma applicata per la determinazione della pena inflitta o di parte di essa, deve cessare l’esecuzione della pena o della parte di pena che ha trovato fondamento nella norma dichiarata incostituzionale (Sez. U., sentenza n. 42858 del 29.5.2014 Cc. − dep. 14.10.2014 −, Rv. 260697, pm in proc. Gatto, laddove si afferma che, quando, successivamente alla pronuncia di una sentenza irrevocabile di condanna, interviene la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, e quest’ultimo non è stato interamente eseguito, il giudice dell’esecuzione deve rideterminare la pena in favore del condannato pur se il provvedimento “correttivo” da adottare non è a contenuto predeterminato, potendo egli avvalersi di penetranti poteri di accertamento e di valutazione, fermi restando i limiti fissati dalla pronuncia di cognizione in applicazione di norme diverse da quelle dichiarate incostituzionali, o comunque derivanti dai principi in materia di successione di leggi penali nel tempo, che inibiscono l’applicazione di norme più favorevoli eventualmente medio tempore approvate dal legislatore).
Conclusioni ermeneutiche appena rassegnate che, peraltro, trovano pieno sostegno positivo in un complesso normativo unitario, risultante dall’art. 136, primo comma, della Costituzione, dall’art. 1 della legge costituzionale del 9 febbraio 1948, n. 1, e dalla legge dell’11 marzo 1953, n. 87, che stabiliscono il principio generale della cessazione di efficacia della norma di legge dichiarata incostituzionale e pongono il divieto della sua applicazione ai rapporti giuridici in corso con effetti invalidanti assimilabili all’annullamento.
In specie, l’art. 30 della legge n. 87 del 1953 esaurisce la sua valenza demolitoria sull’esecuzione della sentenza, invalidandone parzialmente il titolo esecutivo, senza alcuna efficacia risolutiva della decisione divenuta irrevocabile (in tutti tali sensi, in motivazione, Sez. 3, sentenza n. 38691 dell’11.7.2017 Cc. − dep. 3.8.2017 −, Rv. 271301, Giordano, ove, quale principio massimato, si afferma quello per il quale, in tema di esecuzione, il giudice, adito per la rideterminazione della pena a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 181, comma 1-bis, d.lgs n.42 del 2004 − Corte costituzionale n. 56 del 2016 −, può dichiarare l’estinzione per prescrizione del reato oggetto della sentenza definitiva di condanna, riqualificato come contravvenzione ai sensi del comma 1 della norma citata, qualora la prescrizione sia maturata in pendenza del procedimento di cognizione e fatti salvi i rapporti ormai esauriti).
2.4 Sul piano definitorio va, quindi, conclusivamente, ribadito che la giurisprudenza di legittimità pone il principio per il quale, in mancanza di una decisione irrevocabile, fin quando la validità ed efficacia degli atti disciplinati da una norma sono sub iudice, il rapporto processuale non può considerarsi esaurito.
Nel caso in esame, tale “esaurimento” del rapporto non può che riguardare l’intervento di una decisione sulla misura alternativa da parte del giudice della sorveglianza − al di là del tema della definizione di incidente di esecuzione da parte del suo giudice − (per il principio, sia pure con riguardo al caso della successione delle leggi nel tempo, Sez. U., sentenza n. 20 del 13.7.1998 Cc. − dep. 28.10.1998 −, Rv. 211467, pm in proc. Griffa, ove si aveva riguardo a procedimenti di sorveglianza in corso al momento dell’entrata in vigore della l. 27.5.1998, n. 165, e si affermava che le nuove disposizioni si applicano ai rapporti non ancora esauriti, sicché è consentita la sospensione dell’esecuzione della pena anche in favore del condannato che, al momento del passaggio in giudicato della sentenza, si trovi ristretto agli arresti domiciliari ed abbia richiesto l’affidamento in prova al servizio sociale, sempre che non sussista una delle condizioni ostative di cui al comma 9 dell’art. 656 cpp, come modificato dalla legge predetta, ovvero non sia nel frattempo intervenuta la decisione del tribunale di sorveglianza che abbia negato la concessione del beneficio).
In assenza di tale esaurimento del rapporto, dunque, nel caso di specie, trova immediata applicazione alle situazioni non esaurite la norma processuale come ridisegnata dalla Corte costituzionale; norma vigente, in tale suo testo, e che, dunque, disciplina immediatamente gli atti la cui validità ed efficacia sono sub iudice.
2.5 A siffatta, immediata applicazione della norma è preposto, infine, come rammenta la giurisprudenza di legittimità, proprio il pm, che adempie, in tal modo, alle sue funzioni istituzionali di vigilanza sulla «osservanza delle leggi» ed allo specifico compito di promozione dell’esecuzione penale «nei casi stabiliti dalla legge» (art. 73, primo comma, ord. giud.), compito che si concretizza anche nel formulare le richieste dello stesso pm al giudice dell’esecuzione, sia all’atto di promovimento dell’esecuzione, sia nel corso di questa (in tali sensi, Sez. U., sentenza n. 42858 del 29.5.2014 Cc. − dep. 14.10.2014 −, Rv. 260699, pm in proc. Gatto, ove, con riguardo a particolare fattispecie, si dice che al Pubblico ministero, in ragione delle sue funzioni istituzionali, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012, spetta il compito di richiedere al giudice dell’esecuzione l’eventuale rideterminazione della pena inflitta anche in applicazione dell’art. 69, quarto comma, cp, nel testo dichiarato costituzionalmente illegittimo, pur se il trattamento sanzionatorio sia già in corso di attuazione, e fino a quando questo non sia stato interamente eseguito, posto che «… il compito di rimuovere tale illegittimità compete al giudice dell’esecuzione, che deve procedere a quel giudizio di valenza che era stato illegittimamente inibito al giudice della cognizione dal divieto ritenuto costituzionalmente illegittimo; correlativamente, in situazioni siffatte, ai sensi degli artt. 655, 656 e 666 cpp, compete al pubblico ministero, nell’ambito delle sue funzioni istituzionali di vigilanza sulla “osservanza delle leggi” e dello specifico compito di promozione dell’esecuzione penale “nei casi stabiliti dalla legge” (art. 73, primo comma, ord. giud.), di richiedere al giudice dell’esecuzione, sia all’atto di promovimento dell’esecuzione sia − come è meritoriamente avvenuto nel caso di specie − nel corso di questa, l’eventuale rideterminazione della pena inflitta, all’esito del predetto giudizio di valenza»).
3. Tutto ciò osservato, va annotato che, di conseguenza, non pare potersi condividere la raccomandazione contenuta in una determinazione ufficialmente assunta da uno dei procuratori generali italiani, ove si afferma che il medesimo Procuratore generale «… allo stato non interverrà di ufficio rispetto agli ordini di esecuzione già eseguiti, mentre si esamineranno caso per caso eventuali istanze, valutando i caratteri concreti delle singole fattispecie (quali, ad esempio, l’eventuale proposizione di incidente di esecuzione o di istanze di misure di cui all’art. 656, comma 5, c.p.p.)», posto che una simile soluzione parrebbe ritenere, ai fini dell’applicazione della legge, così come ridisegnata per effetto dell’intervento della Corte costituzionale, imprescindibile l’istanza di parte e non dunque necessario l’intervento di ufficio del pubblico ministero, organo dell’esecuzione, nel ricondurre le modalità della stessa esecuzione della pena nel solco della normazione in vigore.
In ragione del succitato insegnamento della Corte di legittimità, di contro, tanto pare competere al pubblico ministero, come si diceva, nell’ambito delle sue funzioni istituzionali di vigilanza sulla «osservanza delle leggi» e dello specifico compito di promozione dell’esecuzione penale «nei casi stabiliti dalla legge» (art. 73, primo comma, ord. giud.).
Analoghe considerazioni devono porsi con riguardo alle considerazioni svolte da altri procuratori generali d’Italia, ove pare che le determinazioni annunciate al fine di escludere qualsivoglia ipotesi di intervento con riguardo ad ordini di carcerazione già emessi, la cui esecuzione è oggi da ritenersi non in conformità alla più volte citata decisione della Corte costituzionale, corrano, oltre tutto, il rischio di sovrapporre i due diversi temi, sui quali ci si è dinanzi soffermati, della successione delle leggi processuali nel tempo e degli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale di norma, e ciò in ragione dell’espressa citazione del principio del tempus regit actum.
In specie, si è assunto da un Procuratore generale, con conclusione che non pare prima facie del tutto riconducibile agli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità in ordine ai compiti in executivis del pubblico ministero, che per gli ordini di carcerazione «… eseguiti sarà competenza del magistrato di sorveglianza (es. affidamento provvisorio) o del Tribunale di sorveglianza eventualmente accelerare le pratiche, per una questione di giustizia sostanziale», posto che il pm, «… in sede di esecuzione», sarebbe «… un mero esecutore e non (avrebbe) alcun potere di scarcerazione dopo l’emissione dell’ordine se non nei casi espressamente disciplinati dalla legge − es. in caso di abolitio criminis, indulto, libertà anticipata, ecc. −»; osservazione ultima che, tuttavia, non pare immediatamente confrontabile alla suddetta lezione della Corte in tema di effetti di dichiarazione di illegittimità costituzionale che inficia, come si diceva, fin dall’origine la disposizione impugnata.
Il che vale anche per l’osservazione del medesimo PG per la quale «in caso di incidente di esecuzione sollevato su istanza del condannato (si potrà dare, dal pm) parere favorevole; ma (sarebbe da dubitare) che il giudice dell’esecuzione abbia il potere di scarcerare sulla base di un provvedimento correttamente emesso».
Si prende atto, poi, della scelta interlocutoria delle direttive di altri PG, fra i quali quelle con le quali si addiviene, però, alla decisione di diversificare «… gli ordini di esecuzione già emessi e non ancora eseguiti» dagli «… ordini di esecuzione già eseguiti», disponendo che i primi saranno «revocati, disponendosene la sospensione», mentre «per i secondi non si interverrà di ufficio, … se non nel corso delle procedure avviate dalla parte o dal Tribunale di sorveglianza».
Rispetto a tal conclusione, possono riformularsi le riserve già enunciate in ordine al ruolo del pm, da un canto, e, dall’altro, debbono anticiparsi i dubbi che saranno di qui a poco sciolti circa i poteri del pm in ordine ad una ipotizzata revoca dell’ordine di esecuzione, sia pure non eseguito.
Ancora analoghe considerazioni debbono svolgersi con riguardo a sovrapponibili determinazioni assunte in una direttiva di un Avvocato Generale ove, con riguardo agli «ordini di esecuzione già eseguiti», si ritiene, del pari, che non residui alcun compito per il pm, che dovrà limitarsi a trasmettere «… le eventuali istanze di scarcerazione … alla Corte di appello, quali incidenti di esecuzione», mentre «… le istanze per concessione di misure alternative andranno trasmesse alla Magistratura di sorveglianza».
Pare, inoltre, allo stato, debito manifestare riserva in ordine le direttive di altro PG quanto al punto della ritenuta necessità di «… revocare, e quindi scarcerare, gli ordini di esecuzione emessi ed eseguiti, ovviamente pertinenti alla questione, quando risulti che il detenuto abbia presentato istanza al tribunale di sorveglianza, per far sì che possa attendere la decisione in stato di libertà», laddove, come già si osservava, anche tale conclusione, se la si è intesa, parrebbe ritenere, ai fini dell’applicazione della legge, così come ridisegnata per effetto dell’intervento della Corte costituzionale, imprescindibile l’istanza di parte e non dunque necessario l’intervento di ufficio del pm, organo dell’esecuzione, nel ricondurre le modalità della stessa esecuzione della pena nel solco della normazione in vigore.
Infine, condivisibile paiono le osservazioni di altro PG almeno nella parte in cui si analizza il caso «… dell’emissione del decreto di sospensione dell’ordine di carcerazione non eseguito, in quanto costituente l’esercizio di un potere non esaurito con l’emissione dell’ordine di carcerazione» e si rammenta che «… l’art. 656, comma 5, c.p.p., prevede in materia un procedimento caratterizzato da un ordine di esecuzione e un decreto di sospensione che, per quanto di norma contestualmente adottati, risultano dotati di autonoma dignità formale, nell’ambito delle previsioni di cui al secondo periodo del comma 5 dell’art. 656 c.p.p» (non pare, invece, potersi far propria l’affermazione del medesimo PG per la quale al caso di specie «… troverebbe piena applicazione proprio la decisione delle S.S.U.U. n. 44895 del 17.7.2014», dinanzi già citata ma che è afferente, invece, al diverso tema della successione delle leggi processuali nel tempo).
4.1 Tutto ciò rammentato, ed in conclusione, può affermarsi che, ad avviso dell’ufficio della Procura generale di Napoli, come chiarito nella nota destinata ai Procuratori del distretto di Corte di Appello, la sentenza della Consulta in esame impone di riflettere nel senso per il quale gli ordini di carcerazione emessi nei confronti di condannati a pena detentiva superiore a 3 anni e non superiore a 4 anni conservano piena validità, posto che la Consulta si è limitata, come più volte detto, ad intervenire sul quinto comma dell’articolo 656 cpp, «nella parte in cui si prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non superiore a tre anni anziché a quattro anni».
Dunque, l’adempimento, da parte del pm, del suo specifico compito di promozione dell’esecuzione penale «nei casi stabiliti dalla legge» (art. 73, primo comma, ord. giud.) comporta che non sull’ordine di esecuzione debba oggi il pm intervenire − vieppiù attraverso l’esercizio di un non conferente potere di revoca di un suo stesso provvedimento − ma attraverso l’emissione del decreto di sospensione che è dovuto, per effetto dell’intervento sulla norma del giudice costituzionale, e che, ove ne ricorrano le condizioni, garantisce lo stato di libertà nel quale il condannato deve versare per godere del suo cd. spatium deliberandi.
A tal riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha sempre debitamente evidenziato che l’art. 656, comma 5, cpp, nella formulazione dettata dall’art. 1 della l. n. 165 del 1998, dispone, proprio, che «se la pena detentiva....non è superiore a tre anni (ed oggi non superiore a 4 anni) ... il pubblico ministero ... ne sospende l’esecuzione» e che questo è il vero cardine della disposizione, completata da quella seguente per la quale «l’ordine di esecuzione e il decreto di sospensione sono consegnati al condannato con l’avviso che egli entro trenta giorni, può presentare istanza ... volta ad ottenere la concessione di una delle misure alternative...».
Dunque, ad avviso risalente della Corte di legittimità, punto qualificante dell’art. 656 cpp è, in specie, proprio l’attribuzione al pm della competenza a sospendere la pena in vista dell’applicazione di una misura sostitutiva e tale competenza esiste nel momento in cui l’ordine di esecuzione è emesso; ritenuta, dunque, la competenza di un organo ad emettere un determinato provvedimento, essa non può venir meno in conseguenza della circostanza che esso sia normalmente contestuale o contemporaneo ad altro, nel caso in cui quest’ultimo sia stato emesso in precedenza e separatamente.
Come, quindi, ricordato dai giudici di legittimità, né dalla lettera della norma, né dalla finalità perseguita, concernente la deflazione carceraria nei casi in cui una misura alternativa è possibile, emerge che la sospensione della esecuzione da parte del pm non possa essere disposta se non contestualmente o contemporaneamente all’ordine di esecuzione: «… se questo è il caso tipico previsto dal legislatore, nulla toglie (che) in determinate ipotesi, quali ad esempio l’omissione dell’ordine di sospensione contemporaneo a quello di esecuzione, il provvedimento sospensivo concernente la carcerazione non ancora attuata possa essere emesso dall’organo al quale l’atto compete con provvedimento separato, da notificarsi con l’avviso a proporre istanza di misura alternativa entro trenta giorni, secondo quanto previsto dal quinto comma dell’art. 656 c.p.p.», mentre «… l’assenza nella … legge di uno specifico divieto di emanazione separata delle due disposizioni comporta che tale potere vada esercitato dal pm, nei casi in cui ne ricorrano gli estremi, in relazione ad ogni caso di ordine di esecuzione non completato dall’ordine di sospensione» (in tal senso, tra le altre, già Sez. 1, sentenza n. 981 del 3.2.1999 Cc. − dep. 29.3.1999 −, Rv. 212948, Sghiri, ove il principio affermato è quello per il quale, per l’appunto, dalla disciplina dettata dall’art. 656 cpp, come sostituito ad opera dell’art. 1 della l. n. 165 del 1998, e dalla relativa finalità di impedire la restrizione in carcere nei casi in cui è possibile l’applicazione di una misura alternativa, deriva che la sospensione dell’esecuzione da parte del pubblico ministero può essere disposta anche non contestualmente all’ordine di esecuzione; pertanto, mancando un divieto in tal senso ed in assenza di una disciplina transitoria, nel caso di ordini di esecuzione emessi sotto la vigenza della precedente normativa e non ancora eseguiti alla data della relativa entrata in vigore, il pubblico ministero, ove ne sussistano i presupposti, può disporre la sospensione dell’esecuzione con provvedimento separato − fattispecie nella quale l’ordine di esecuzione era stato emesso prima della data di entrata in vigore della l. n. 165 del 1998 ed era stato eseguito dopo tale data: la SC, nell’affermare il principio di cui in massima, ha osservato che per la disciplina in questione dovesse valere il principio tempus regit actum, con la conseguenza che il nuovo regime doveva trovare immediata applicazione all’atto della esecuzione del provvedimento del pubblico ministero; in senso analogo, Sez. 1, sentenza n. 2430 del 23.3.1999 Cc. − dep. 17.6.1999 −, Rv. 213875, Kola N., ove si dice che, a seguito delle modifiche apportate all’art. 656 cpp dalla l. n. 165 del 1998, il pubblico ministero non è esonerato dall’emettere l’ordine di carcerazione per le pene detentive brevi ma deve, contestualmente e con separato provvedimento, sospenderne l’esecuzione assegnando al condannato uno spatium deliberandi di 30 giorni per la richiesta di misure alternative sicché, ove non sia adottato il provvedimento di sospensione, non è ammissibile, in quanto tale, una istanza di annullamento o di revoca dell’ordine di carcerazione legittimamente emesso ma deve ritenersi consentito all’interessato − in applicazione analogica dell’art. 670 cpp − di chiedere al giudice della esecuzione la declaratoria di temporanea inefficacia del provvedimento che dispone la carcerazione; Sez. 1, sentenza n. 41592 del 13.10.2009 Cc. − dep. 29.10.2009 −, Rv. 245568, pm in proc. Dello Russo, ove si precisa che l’ordine di esecuzione, emesso dal pubblico ministero senza il contestuale provvedimento di sospensione per pene detentive brevi, non può essere annullato dal giudice dell’esecuzione ma solo dichiarato temporaneamente inefficace, per consentire al condannato di presentare, nel termine di trenta giorni, la richiesta di concessione di una misura alternativa alla detenzione).
4.2 Tutto quanto si è detto vale, in tutta evidenza, nel caso di ordini di esecuzione già eseguiti con riguardo a pene superiori a tre anni, laddove l’ordine di sospensione, da notificare al condannato ex art. 656, comma 5, cpp, in uno all’avviso che egli, entro trenta giorni, può presentare istanza volta ad ottenere la concessione di una delle misure alternative, va accompagnato da conseguente scarcerazione, sì da consentire al condannato medesimo, si diceva, di fruire del cd. spatium deliberandi previsto dalla norma nelle condizioni di libertà dalla stessa norma imposte; tutto ciò salvo già risulti che il condannato non possa accedere a misure alternative alla detenzione per pregressa decisione in tal senso già assunta dal giudice.
Ma, del pari, anche se gli ordini in questione, viceversa, non abbiano hanno ancora avuto esecuzione, fermo restando, di per sé, la validità genetica del titolo e l’inconferenza di una revoca di esso da parte del medesimo pm che lo ha emesso, occorre del pari provvedere all’emissione di ordine di sospensione dell’ordine ancora ineseguito, che impedisca la carcerazione del condannato, ai fini del completo svolgersi delle modalità esecutive di cui all’art. 656, comma 5, cpp.
In tutti tali sensi, va condiviso quanto annotato da due Procuratori generali che, nei loro provvedimenti determinativi, hanno previsto che «… l’ordine emesso prima della pubblicazione della sentenza dichiarativa della illegittimità costituzionale conserva efficacia, essendo stato legittimamente emesso e …, una volta posto in esecuzione con la carcerazione del condannato, con l’avvio quindi della fase esecutiva della pena, non è consentita la revoca da parte del pubblico ministero».
Per le medesime ragioni, peraltro, ed alla luce di quanto già sottolineato, non pare potersi, invece, condividere l’ulteriore osservazione di uno dei medesimi PG, allorché egli osserva che «… nel caso in cui l’ordine emesso non sia stato posto in esecuzione per la irreperibilità del condannato o per altra ragione, dovrà essere revocato d’Ufficio», con conseguente «… emissione di un nuovo provvedimento di esecuzione, con determinazione della pena entro i quattro anni e con contestuale sospensione ex art. 656, comma 5 c.p.p., contenente l’indicazione del termine di 30 giorni entro cui presentare l’istanza per l’ammissione alla misura alternativa prevista dall’art. 47, comma 3-bis, della L. 354 del 1975 (comma inserito dall’art. 3, comma 1, lett. c), del d.l. 23.12.2013, n. 146, conv. dalla l. 21.2.2014 n. 10)».
Piuttosto, nelle determinazioni assunte dall’Ufficio di Procura Generale di Napoli, è previsto che, in tale ulteriore caso di ordine di carcerazione non eseguito, occorrerà solo emettere, per l’appunto, decreto di sospensione ex art. 656, comma 5, c.p.p., semplicemente segnalando all’Autorità di polizia giudiziaria che l’ordine di carcerazione, per l’effetto, non è più eseguibile (e formulando invito «… alla Autorità di Polizia ai fini della materiale restituzione dell’ordine, allo stato non eseguibile»).
4.3 Quanto si è osservato, naturalmente, vale sul presupposto del già enunciato principio per il quale il rapporto processuale non può considerarsi esaurito, in mancanza di una decisione irrevocabile, fin quando la validità ed efficacia degli atti disciplinati da una norma siano sub iudice.
Nel caso in esame, come già osservato, tale “esaurimento” del rapporto non può che riguardare l’intervento di una decisione sulla misura alternativa da parte del giudice della sorveglianza − al di là del tema della definizione di incidente di esecuzione da parte del suo giudice −.
Nella lezione della Corte di legittimità, infatti, il pm può rigettare l’istanza relativa se al condannato sia già stata respinta una richiesta di affidamento da parte del tribunale di sorveglianza e non sia dedotto un quid novi rispetto alla precedente ovvero nell’ipotesi, del tutto analoga, in cui al richiedente, già affidato al servizio sociale, sia stato revocato l’affidamento per esito negativo della prova da parte del tribunale medesimo (in tali sensi, già Sez. 6, sentenza n. 6552 del 3.2.1998 Ud. − dep. 4.6.1998 −, Rv. 210888, pm in proc. Petruccelli A., ove si aveva riguardo a caso di affidamento in prova al servizio sociale nell’ipotesi di soggetto alcooldipendente o tossicodipendente che avesse in corso un programma di recupero o che ad esso intendesse sottoporsi, di cui agli artt. 91, commi terzo e quarto, e 92, comma secondo, del dPR 9.10.1990, n. 309, e si argomentava che, in tale situazione, … non vengono rimessi al pm apprezzamenti discrezionali di merito in contrasto con le norme anzidette perché l’inquirente deve limitarsi ad un accertamento del tutto estrinseco, consistente nel verificare l’esistenza della decisione del tribunale e l’identità della nuova istanza rispetto a quella sulla quale sia già intervenuta la decisione giudiziale ed il potere in tal modo riconosciuto all’organo cui compete l’esecuzione penale è in linea con la ratio dell’istituto della sospensione dell’esecuzione stessa, previsto dalle norme anzidette, e risponde all’esigenza di evitare che il condannato possa indefinitamente paralizzare l’attuazione del titolo esecutivo; in senso analogo, Sez. 6, sentenza n. 2766 del 23.9.1996 Cc. − dep. 14.11.1996 −, Rv. 206355, Boldrini, ove è spiegato che, in caso di istanza di affidamento in prova ex art. 47-bis dell’ordinamento penitenziario, il potere conferito in via eccezionale al pubblico ministero di sospendere l’emissione o l’esecuzione dell’ordine di carcerazione, in attesa della decisione del giudice competente, risulta compresso dal fatto che detto giudice si sia già pronunciato in senso negativo e che la nuova istanza sia ripetitiva di quella precedente, non deducendosi elementi nuovi rispetto a quelli già conosciuti e considerati).
*Allegati: due modelli di provvedimento di sospensione dell’ordine di esecuzione di pena detentiva relativo a condannato libero ed a condannato detenuto adottati dall’Ufficio di Procura generale presso la Corte di appello di Napoli