L’ipotesi di riforma ordinamentale annunciata dal Ministro della giustizia e concretizzatasi nel testo depositato nei giorni scorsi alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, il cui contenuto è stato anche ampiamente riportato sui maggiori quotidiani, investe molti aspetti dell’ordinamento giudiziario come riformato nel 2007.
Fra i diversi fronti attinti dalla proposta di riforma, ci pare utile in questa occasione concentrarci – sia pure in modo veloce e quindi inevitabilmente incompleto – sul delicato tema degli incarichi direttivi e semidirettivi, indicato come «uno dei nodi centrali dell’intervento» dalla stessa relazione introduttiva del disegno di legge recante deleghe al Governo per la riforma ordinamentale della magistratura. È doveroso, innanzitutto, premettere che anche su questo specifico fronte il taglio della proposta d’intervento legislativo appare decisamente legato alle contingenze dei recenti fatti di cronaca, nel tentativo di dare una qualche risposta alle emergenze ed alle inadeguatezze dell’attuale sistema, che evidentemente sono considerate legate non solo alla gravità delle condotte personali emerse dalle indagini svolte dalla Procura di Perugia, ma anche a ritenute carenze dell’attuale meccanismo di scelta e nomina della dirigenza in magistratura. Ed infatti nella relazione illustrativa del disegno di legge si esplicita che:
«La riforma del 2006, che si proponeva, condivisibilmente, di tarare l’incarico direttivo sulle necessità dell’ufficio, e quindi di funzionalizzare la dirigenza alle esigenze del servizio secondo il buon andamento dell’ufficio, ha invece determinato a giudizio di molti, fenomeni di natura opposta, incentivando il magistrato che ambisca a ricoprire funzioni direttive o semidirettive, a procedere, sin dai primi anni di attività, alla costruzione della propria carriera, spendendosi nell’acquisizione di incarichi di collaborazione nella gestione degli uffici e privilegiando, nella trattazione degli affari, quelli che gli attribuiscono maggiora visibilità. L’incarico direttivo e semidirettivo, per molti, da servizio è diventato uno status. Dal lato del CSM, poi, l’attribuzione di una discrezionalità molto ampia non sempre è stata compensata dall’adozione di criteri trasparenti e autenticamente ancorati a dati oggettivi e coerenti... Lo scopo ed i principi ispiratori dell’intervento sono volti a garantire maggiore trasparenza del sistema di conferimento degli incarichi direttivi, di responsabilizzare maggiormente i capi degli uffici giudiziari».
Il contenuto della relazione illustrativa sopra riportato non nasconde la filosofia della proposta d’intervento: da un lato una marcata diffidenza verso il Consiglio e le sue prerogative nella scelta della dirigenza avendo in questi anni dato cattiva prova nell’esercizio della discrezionalità, dall’altro affermare che le norme ordinamentali attuali, che consentono una direzione partecipata e collegiale dell’organizzazione degli uffici giudiziari, hanno favorito in realtà solo la “carriera” e non sono funzionali a rendere un servizio qualitativamente e quantitativamente adeguato alla complessità della giurisdizione.
Con la inevitabile approssimazione di una riflessione immediata e a caldo, ci pare utile, innanzitutto illustrare per grandi linee la direzione dell’intervento proposto, rimandando a un momento successivo una riflessione più analitica e sistematica.
Innanzitutto, con riferimento agli incarichi direttivi, l’intervento riformatore, sebbene non scardini le attitudini e il merito quali criteri d’individuazione del candidato migliore, reintroduce – con una significativa valenza – il parametro dell’anzianità sia quale elemento di legittimazione minima necessaria per ricoprire i diversi incarichi direttivi (per le funzioni direttive di primo grado è richiesto il conseguimento almeno della quarta o della quinta valutazione in luogo dell’attuale terza e quarta valutazione, per le funzioni direttive di secondo grado è richiesto il conseguimento della sesta valutazione in luogo della attuale quinta ed per le funzione direttive superiori il conseguimento della settima valutazione di professionalità), sia ripristinando la cd. “fascia di anzianità” decorrente dall’aspirante più anziano (purché non “manifestamente inidoneo”), peraltro fissata in soli cinque anni, senza meccanismi derogativi pur previsti nel passato (“spiccato rilievo”). Si tratta di un meccanismo che ha la positiva aspirazione di ridimensionare taluni eccessi nell’uso della discrezionalità della scelta, ma che, per come articolato in concreto (duplice intervento legittimazione e fascia, quest’ultima peraltro di entità molto stringata di cinque anni, assenza di aperture derogative e decorrenza dal più anziano non “manifestamente inidoneo”) rischia di limitare eccessivamente (e per di più su aspiranti troppo anziani) la “platea” degli aspiranti concretamente valutabili per ciascun concorso (particolarmente per gli uffici meno ambiti) e di reintrodurre condotte eticamente inaccettabili osservate nel passato lontano, in cui venivano sollecitate candidature “anziane” al solo fine strumentale di condizionare la decorrenza della “fascia”. Ancora una volta l’anzianità, lungi dall’essere criterio idoneo ad assicurare una scelta adeguata, ritorna ad essere, come nel passato, una necessaria garanzia ed un limite ad una discrezionalità che non si ritiene aver dato buoni frutti. Un passo indietro deciso rispetto alla riforma ordinamentale del 2007. E nel tentativo di delimitare la discrezionalità del Consiglio si accetta il rischio di ricadere in scelte che hanno segnato una stagione problematica del circuito del governo autonomo della magistratura come quando per la nomina a Consigliere istruttore del Tribunale di Palermo venne preferito, proprio in ragione del requisito dell’anzianità, Antonino Meli a Giovanni Falcone. La proposta di riforma si fa carico del sentire di una parte della magistratura che sconcertata di fronte ad alcune nomine non condivise si è lasciata abbracciare dall’idea “che si stava meglio quando si stava peggio”. Eppure anche quando regnava la regola della selezione per anzianità non sono mancate nomine viziate da logiche di appartenenza ed anzi proprio la magistratura progressista lamentava di essere oggetto di una «conventio ad excludendum ai suoi danni» [1].
La proposta riformatrice dimostra poi un particolare entusiasmo circa il contributo che alla scelta comparativa possono offrire le audizioni, al punto da disporre – con una buona dose di astrattezza ed una scarsa dimestichezza col procedimento amministrativo di nomina e con la gestione del tempo e delle energie – l’audizione obbligatoria non solo dei candidati (questa sì doverosa), ma anche di tutta una serie di soggetti variamente coinvolti non solo nell’organizzazione dell’ufficio da ricoprire, ma addirittura degli uffici di provenienza dei diversi aspiranti: dagli avvocati ai magistrati, ai dirigenti amministrativi!
Apprezzabile appare invece, quanto meno in astratto, il tentativo di dare maggiore concretezza e rigore agli elementi attitudinali e di merito da valutare ed in particolare agli indicatori specifici (art. 24 lett. d, e, f) e alla effettiva attività giurisdizionale nella specifica tipologia dell’ufficio da ricoprire, nel tentativo – non privo di controindicazioni – di introdurre rigidità valutative capaci di “imbrigliare” ancora una volta quei margini di ritenuta eccessiva discrezionalità.
Non secondario appare anche l’inserimento di una valutazione dei magistrati dell’ufficio da esprimersi in occasione della conferma ex art. 45 del d.lgs n. 160 del 2006, meccanismo la cui concreta regolazione appare affidata al Csm e che introduce una positiva impronta partecipativa degli “amministrati” all’istituto della conferma, la cui concreta gestione risulta ad oggi uno dei segmenti più fallimentari del meccanismo attualmente in vigore e su cui invece occorrerebbe veramente investire [2].
Così come positivo risulta senza dubbio l’inserimento di un maggiore rigore nella legittimazione ai successivi trasferimenti da parte dei vertici dirigenziali della magistratura (presidenti di corte d’appello e procuratori generali, presidenti di sezione e avvocati generali presso la Corte di cassazione, etc.), oggi legittimati a trasferirsi senza limiti di legittimazione da un ufficio direttivo all’altro, con buona pace della continuità dell’azione direttiva e dell’interesse pubblico.
Meno chiaro è invece il meccanismo introdotto dalla proposta, che prima facie parrebbe imporre una sorta di “stop” della durata di un anno per coloro i quali abbiano ottenuto la conferma nell’incarico direttivo, prima di poterne richiedere un altro. Tuttavia non ne è chiarissimo il funzionamento, laddove dalla lettura del testo sembrerebbe non trattarsi di un periodo di “decantazione” nello svolgimento di funzioni “ordinarie” e non direttive, quanto piuttosto di un semplice obbligo di permanenza minima di un anno, oltre i quattro di svolgimento delle funzioni direttive, nello stesso ufficio direttivo ricoperto e per il quale si è appena ottenuta la conferma, prima di poter accedere ad altro diverso incarico.
Il fronte attinto da un cambiamento davvero radicale è però quello che riguarda gli incarichi semidirettivi, i quali risultano soppressi e sostituiti da incarichi di coordinamento (magistrato coordinatore) “tabellarizzati”, individuati su proposta del dirigente fra i magistrati in servizio nell’ufficio, tanto per gli uffici giudicanti (coordinatore di sezione) quanto per gli uffici requirenti (coordinatore di dipartimento), di durata quadriennale senza possibilità di rinnovo.
La relazione al disegno di legge delega chiarisce al riguardo l’intenzione del Legislatore: «Ai sensi dell’art. 107 della Costituzione i magistrati si distinguono tra loro solo per funzioni. È invece innegabile che il sistema attuale di nomina dei semidirettivi ha portato alla creazione di una vera e propria “carriera” separata e parallela rispetto a quella dei magistrati che a tali ruoli non ambiscono o che ad essi non riescono ad accedere, non sempre giustificatamente. Ai semidirettivi sono attribuiti compiti di natura organizzativa ed essi si allontanano sempre più dall’esercizio della funzione giurisdizionale e, sempre più spesso, l’incarico di presidente di sezione di tribunale funge da trampolino di lancio per il conferimento di ulteriori e più “prestigiosi” incarichi».
La proposta ha certamente un merito, reso necessario dalla scelta della “tabellarizzazione” di questi incarichi, ma fortunatamente introdotto anche a prescindere da essa: quello di reintrodurre la procedura tabellare per gli uffici requirenti, la cui eliminazione ha contribuito fortemente ad imporre l’impronta gerarchica di questi uffici, di cui oggi si può agevolmente constatare gli effetti perversi. A questo merito (che, come detto, per fortuna è reintrodotto anche a prescindere dalla soppressione di queste figure), tuttavia, paga un costo non banale: la riforma introduce, infatti, una sorta di staff del dirigente, da questi individuato discrezionalmente (sia pure nell’ambito di una procedura molto procedimentalizzata ed interamente nel perimetro dell’autogoverno), rafforzando la spinta “autarchica” e autoreferenziale del “capo” e dunque l’impianto gerarchico della magistratura sia nel settore giudicante sia in quello requirente.
Eppure la complessità dell’amministrazione della giurisdizione fa a pugni con la mitologia dell’uomo solo al comando. Un meccanismo, quello individuato dalla proposta di riforma, in cui il dirigente dell’ufficio diviene il vero dominus [3], che deciderà il presente ed il futuro, grazie all’eliminazione di quei quadri intermedi stabili e capaci, proprio perché scelti in modo autonomo, di avere forti spazi di autonomia e di rappresentare quel potere diffuso e partecipato nell’amministrazione della giurisdizione che è essenziale per una organizzazione complessa come è quella giudiziaria. Un paradosso evidente del progetto di riforma che rafforza i poteri dei dirigenti in un contesto storico in cui le vicende connesse alla indagine della Procura di Perugia hanno fatto emergere gli “appetiti” esterni proprio nella scelta dei procuratori della repubblica, considerati snodi strategici per perseguire interessi personali.
Ma soprattutto il progetto di riforma finisce con l’ostacolare considerevolmente la circolazione di prassi virtuose o comunque di modelli organizzativi diversi e di informazioni e confronto sul funzionamento di uffici differenti, circolazione molto favorita, invece, dall’attuale meccanismo che prevede la nomina agli incarichi semidirettivi aperta ai magistrati provenienti da altri uffici. Non dimentichiamo che la storia della magistratura è sempre stata una storia di buone prassi e di cultura organizzativa che si arricchisce nel confronto tra esperienze diverse.
La proposta ha anche un’altra rilevante controindicazione, via via più asfissiante quanto più piccolo è l’ufficio in cui si colloca la scelta del coordinatore: il bacino dei magistrati fra i quali individuare il prescelto. Se, infatti, in un ufficio di medie o grandi dimensioni il bacino di magistrati potenzialmente individuabili come coordinatore può consentire una più o meno idonea ampiezza di scelta, negli uffici di dimensioni piccole o medio-piccole la scelta finisce con l’essere davvero ridotta a zero o comunque agganciata alla sola presenza di magistrati di prima nomina e privi di esperienze (si pensi, in particolare, agli uffici collocati nelle regioni del sud, della Calabria, della Sicilia, etc.).
Come si coglie con chiarezza già dall’approfondito scritto di Maria Giuliana Civinini in questa Rivista [4], focalizzato interamente sul segmento giudicante (peraltro certamente meno problematico di quello requirente), la maggiore o minore plausibilità della proposta che sottrae al Csm la nomina di questo genere di incarichi e la colloca nell’ambito del medesimo ufficio risente in modo decisivo del tipo di lavoro che tali figure sono chiamate a svolgere, il quale a propria volta risente profondamente di quanto definito in sede normativa, ma anche delle dimensioni dell’ufficio e della maggiore o minore curvatura organizzativa che l’incarico assume.
Non vi è infatti chi non veda la differenza enorme dei compiti affidati al presidente di sezione civile e/o penale quando la sezione è composta da 6/9 giudici rispetto a quelli affidati al presidente di sezione dell’ufficio gip nelle sedi metropolitane, trattandosi di sezione composta anche fino a 40 giudici, che quindi può raggiungere le stesse dimensioni di un tribunale di medie dimensioni. Gli aspetti peculiari dell’Ufficio Gip-Gup dei grandi tribunali, a cui lo stesso progetto riformatore attribuisce nuovi e più pregnanti compiti con la riforma dell’art. 425 e 438 cpp, rendendoli il centro della giurisdizione penale, rendono tale sezione molto diversa da quella dibattimentale, e il ruolo dei semidirettivi (presidente e presidente aggiunto), che si avvicina molto di più a quello del direttivo, mal si concilia con il “coordinatore” disegnato dal progetto di riforma.
Analogamente profonde diversità sussistano nella figura del coordinatore riferita agli uffici giudicanti da quella dell’ufficio requirente, ufficio quest’ultimo caratterizzato da una maggiore gerarchizzazione soprattutto dopo l’intervento riformatore del 2006, che verrebbe ulteriormente accentuata attribuendo la scelta dei “coordinatori” al Procuratore della Repubblica, pur nell’ambito di una reintrodotta procedura tabellare [5].
Pur nei limiti di un primo intervento e quindi senza la ricchezza di una riflessione più meditata e approfondita, sembra conclusivamente di potersi rilevare che la fragilità o opinabilità dell’impianto proposto in punto di incarichi semidirettivi, oltre che su una evidente marcata diffidenza e sfiducia verso l’organo di governo autonomo della magistratura, poggia soprattutto su un’insufficiente consapevolezza della particolare ampiezza e differenza fra le diverse tipologie degli uffici giudiziari e delle esigenze organizzative e professionali che li caratterizzano. In definitiva se da un lato non è chiaro cosa si chieda e ci si aspetti dai novelli “coordinatori” per non riproporre il rischio di quella carriera da cui la riforma afferma espressamente di voler prendere le distanze, dall’altro non sembra chiaro a chi propone la riforma quale sia il know-how organizzativo necessario alle singole diverse tipologie di uffici. Sotto tale profilo non può essere escluso che per determinate peculiari tipologie di uffici l’introduzione della figura del coordinatore tabellarizzato possa risultare di qualche utilità, ma con un buon grado di realismo e onestà intellettuale deve constatarsi che si tratta di tipologie molto circoscritte e comunque non individuate né messe a fuoco dalla filosofia dell’intervento, ma soprattutto che l’intervento sul punto rechi complessivamente più controindicazioni di quanti potenziali benefici.
Tra le ragioni di perplessità non devono essere sottovalutati gli inconvenienti connessi alla stessa scelta di ancorare la verifica sull’adeguatezza del “collaboratore” alla procedura tabellare. Si tratta di un istituto divenuto nel tempo sempre più complesso, se si considera che da strumento di attuazione del “giudice naturale” è divenuto momento di controllo dell’organizzazione degli uffici e luogo di rendicontazione degli obiettivi raggiunti. Un sistema già quindi molto complesso che rischia di essere ulteriormente sovraccaricato dal nuovo compito di verifica della scelta dei “coordinatori” operata dal presidente e dal procuratore. Peraltro con una sfasatura nei tempi, se si considera che le tabelle hanno validità per tre anni e il coordinatore può restare in carica per quattro anni. Una procedura, inoltre, che aggraverà l’impegno già oggi gravoso da parte dei Consigli giudiziari e del Csm e porterà a tempi sicuramente non brevi e tempestivi. Con la conseguenza che gli stessi “coordinatori” designati potrebbero essere soggetti ad una lunga procedura di verifica della correttezza della scelta operata dal dirigente, soprattutto in presenza di osservazioni da parte di magistrati e/o aspiranti a quel ruolo, con tutto ciò che ne consegue in termini di “legittimazione” del coordinatore “sottogiudizio”. Né le esperienze passate, ed in particolare il modo in cui i dirigenti sceglievano i propri collaboratori o distribuivano incarichi possano tranquillizzare sulla volontà della riforma di sottrarre questa competenza al Csm, organo, come già detto, su cui il Legislatore mostra di non nutrire alcuna fiducia, per affidarla al “capo” e ad una procedura di controllo da svolgersi in sede distrettuale. In realtà non vi è alcuna certezza che l’ambito locale sia più libero da condizionamenti, anche correntizi, e personalismi rispetto a quello centrale. Insomma appare veramente discutibile che il contrasto alla “carriera” si attui affidando la selezione dei coordinatori al circuito locale (dirigente, magistrati dell’ufficio, Consiglio giudiziario), ritenuto esente dai “mali” che affliggono il sistema centrale.
Forse bisognerebbe essere consapevoli che non esistono sistemi di selezione perfetti, e che qualunque riforma viene attuata da uomini e donne, ed è sulla loro etica e sul loro principio di responsabilità che si dovrebbe investire. L’art 105 Cost. affida il potere di scelta dei dirigenti al Consiglio superiore secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, aggirare questa disposizione abolendo la figura dei semidirettivi, potrebbe non rivelarsi una scelta “saggia” per combattere, come affermato nella relazione introduttiva alla proposta di riforma, la “carriera” ed evitare che l’incarico direttivo e semidirettivo rappresenti uno status e non soltanto una delle diverse attitudini in cui il mestiere di magistrato può esplicarsi.
[1] Vds. F. Gianfrotta, Direttivi e semidirettivi: indietro non si torna, in Questione Giustizia trimestrale, ed. Franco Angeli, Milano, n. 3-4/2013, pp. 33-43.
[2] Vds. M. Guglielmi, Le conferme quadriennali, in Questione Giustizia trimestrale, ed. Franco Angeli, Milano, n. 3-4/2013, pp. 248-262; D. Cappuccio, La conferma del dirigente: dall’analisi dei dati alla ricerca di una credibile prospettiva, in Questione Giustizia trimestrale, n. 4/2017, pp. 71-78, http://questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2017-4_10.pdf.
[3] Sempre il capo dell’ufficio sarà il vero fulcro nelle valutazioni di professionalità se si guarda alla proposta di riforma descritta all’art. 27 con la semplificazione dei rapporti e dei pareri.
[4] M.G. Civinini , Il presidente di sezione: ruolo e nomina, in Questione Giustizia trimestrale, 4/2017, pp. 91-96, http://questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2017-4_12.pdf.
[5] L’importanza del ruolo dei Procuratori aggiunti era stato segnalato dall’Associazione nazionale magistrati (documento del Cdc del 12 dicembre2015) nel dibattito che ha preceduto la riforma del 2006: «La riforma del 2006 ha ridisegnato, infatti, i poteri del Procuratore della Repubblica; in tale quadro, il ruolo del Procuratore aggiunto, che potrebbe essere anche meglio definito a livello normativo, assume un rilievo decisivo per conservare la gestione partecipata e democratica degli uffici di Procura e per evitare “gestioni autoreferenziali” dei dirigenti. Per tale motivo, il Procuratore aggiunto, soprattutto nei grandi uffici, deve essere “l’anello di congiunzione” fra le esigenze dei Sostituti e le decisioni organizzative del Procuratore; deve essere il fattore di sviluppo della professionalità dei colleghi e dell’uniformità dell’esercizio dell’azione penale, promuovendo e facendosi protagonista di riunioni periodiche del gruppo che coordina, incrementando i protocolli investigativi ed i protocolli organizzativi, che facilitino in particolare i rapporti con gli altri uffici giudiziari e la PG».