«La necessità ci costringe a prendere posizione, uscendo dall’adorata asetticità del mestiere di giuristi». A differenza dei suoi colleghi, Marcello Gallo non ci aveva girato intorno, non aveva glissato, non aveva parlato in modo felpato. Giuspenalista raffinato, avvocato, parlamentare per tanti anni all’indomani dell’entrata in vigore del nuovo processo, il “maestro” era andato dritto al cuore del problema con parole semplici ma dure come una requisitoria. Sul banco degli imputati c’erano gli “scienziati del diritto penale”, per quella loro incapacità di incidere sulla politica e di fermarne la deriva populista. «Così stanno le cose – disse Gallo ai colleghi che affollavano il Complesso San Giovanni in Monte, a Bologna –. Per un motivo fondamentale: il carattere esoterico del linguaggio che ci sentiamo tenuti ad adottare quando ci caliamo nel ruolo di osservatori, con ambizioni da suggeritori, nel vasto orizzonte del mestiere delle leggi».
In ballo c’era – e c’è – un bene prezioso. Che Gallo spiegò così: «Dobbiamo affrontare quello che la mia generazione affrontò nel ‘43: la scelta di un futuro non solo per noi ma per tutto il Paese. E dobbiamo farlo oggi, adesso». Perciò, aggiunse, bisogna «lavorare per una legislazione che non consenta sotterfugi, che non tolleri interpretazioni tali da condurre dall’assetto liberal-democratico cui aspiriamo a soluzioni apparentemente innocenti ma sostanzialmente ispirate alla logica dell’autoritarismo».
Era il 7 marzo 2014. Ma solo tre anni dopo l’Associazione italiana dei professori di diritto penale si è decisa ad uscire allo scoperto come soggetto politico, o almeno sembra che ci voglia provare.
Complice il pasticcio parlamentare sulla legittima difesa, il 7 maggio scorso i giuspenalisti hanno preso carta e penna e vergato un duro comunicato stampa dal contenuto più politico che tecnico[1]. Contemporaneamente hanno ripreso e rilanciato la discussione al loro interno sulla “necessità” di sporcarsi le mani... .
Una «necessità» avvertita, peraltro, anche dagli avvocati, ben oltre il perimetro degli iscritti all’Unione delle camere penali, che da sempre si muove come soggetto politico. Nello scorso febbraio, infatti, il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin ha inaugurato il nuovo anno giudiziario del Consiglio nazionale forense con una sorta di chiamata alle armi di alto profilo politico, rivendicando il ruolo non solo sociale ma anche politico, appunto, dell’avvocato, «sentinella dell’interesse pubblico, libera, autonoma, indipendente, chiamata a dire la verità». «Dobbiamo essere il partito dell’altro sentire» ha detto Mascherin, parlando più come leader politico che come avvocato e sulla base di un preciso «programma» finalizzato a «non permettere a nessuno di giocare a dadi con il nostro Paese». Non a caso, consapevole del ruolo strategico della comunicazione per «fare politica» e «recuperare la fiducia dei cittadini», il Cnf si è anche fatto un giornale... .
L’obiettivo di questa comune rivendicazione di soggettività politica, al netto degli interessi corporativi, è avere un peso nel dibattito nonché nelle scelte di politica giudiziaria e criminale. A monte c’è quella «necessità» di cui parlava Gallo – che «non scende dal cielo ma ci si presenta, ci pone le sue mani adunche intorno al collo e ci costringe a prendere posizione» –; a valle (sempre al netto degli interessi corporativi) c’è la difesa dello Stato di diritto.
Il tema della sicurezza – che si ripresenta puntuale ad ogni vigilia elettorale, qual è anche quella che stiamo attraversando – costringe a «prendere posizione» e a farlo senza «sotterfugi», perché le politiche della sicurezza sono lo specchio dell’assetto liberal-democratico o, al contrario, autoritario di uno Stato.
Purtroppo, come molti altri temi che agitano le paure della collettività – migranti, carcere –, anche la sicurezza viene per lo più declinata in funzione del consenso popolare ed elettorale da catturare. Tant’è che in passato, con l’approssimarsi delle elezioni, abbiamo visto governi rinnegare disinvoltamente riforme sponsorizzate fino a quel momento, dall’abolizione dell’ergastolo all’introduzione di pene alternative al carcere, solo per citarne alcune. Ma, soprattutto, abbiamo assistito a improvvisi rigurgiti securitari e giustizialisti (sia pure solo verso i soliti noti: migranti, piccola criminalità di strada, tossicodipendenti) tanto improduttivi sul piano della sicurezza effettiva quanto appetibili su quello del consenso elettorale.
Un copione che si ripete anche per la puntuale assenza di voci fuori dal coro. E le poche che si sentono vengono subito etichettate come voci “contro”: contro i governi di turno, contro il buon senso o l’imparzialità di giudizio, contro la collettività, e persino contro la criminalità organizzata… .
Assente, o paludata, anche la voce degli scienziati del diritto penale, preoccupati più di apparire «apolitici» che della «necessità di prendere posizione» e di portare sulle spalle la scomoda croce del dissenso da politiche populiste. Destinate a infiltrarsi non solo nella rete della legislazione penale ma soprattutto nella coscienza sociale, con un progressivo, inarrestabile scollamento da quei “valori” di cui pretendiamo il rispetto dagli extracomunitari ma che noi lasciamo atrofizzare in ossequio a paure e populismo.
L’esigenza di sicurezza non va trascurata né minimizzata; neppure usando le statistiche sulla diminuzione dei reati, che fra l’altro non sempre fotografano la verità se è vero che tanta gente, ormai rassegnata, neanche denuncia più scippi e furti in casa.
Tuttavia, cavalcare le paure serve solo a produrre ulteriore insicurezza percepita. Qui, oltre alle responsabilità politiche, giocano anche quelle dei media, sempre pronti a rilanciare acriticamente gli allarmi e raramente disposti a prendere o a dare spazio a posizioni impopolari. Com’è avvenuto con gli studiosi del diritto penale, il cui dissenso rispetto al ddl sulla legittima difesa è stato di fatto ignorato, anche quando hanno deciso di farsi vivi con un comunicato stampa.
Certo, lo studioso del diritto penale parla dall’alto di una cattedra e in modo tutt’altro che “chiarissimo” (con buona pace del titolo di cui spesso si fregia), lontano dalla carne e dal sangue dei fatti, quasi che questa distanza sia garanzia di «asetticità», per non essere condizionati da sentimenti, emozioni, passioni da cui nascono di solito le cattive leggi. Ma qui torna il monito di Gallo ad uscire «dall’adorata asetticità di giuristi» per prendere posizione e confrontarsi sul terreno dei fatti, sia pure sempre nell’alveo dei valori di riferimento di uno Stato di diritto.
Ciò non significa che la voce dei giuspenalisti sia “il verbo”; occorre però che diventi una voce ingombrante e scomoda per chi usa la politica penale come una clava, a fini elettorali, facendosi scudo della sicurezza.
C’è questa volontà politica? O prevale la scelta della non contaminazione, peraltro un po’ ipocrita poiché, quando si scende dalla cattedra e si entra in Tribunale con la toga dell’avvocato, tutti o quasi aderiscono alle più estreme proteste dei colleghi penalisti, come gli scioperi ad oltranza?
Un lungo scambio di e-mail tra gli iscritti all’Associazione degli studiosi del diritto penale testimonia difficoltà e divergenze ancora esistenti, per ora superate soltanto con riferimento alla legittima difesa su cui si è trovata la quadratura del cerchio con il comunicato trasmesso alle agenzie di stampa. Politico, più che tecnico. Sia nell’incipit che nella chiusa si spiegava infatti che la preoccupazione dell’Associazione nasce dalle «linee di politica criminale sottese al ddl e al dibattito parlamentare… . Il rischio – scrivevano i giuspenalisti – è di giungere a un testo che conduca ad esiti incompatibili con uno stato di diritto»; di qui il «netto dissenso» per una riforma che «presenta elementi non compatibili con il quadro delle garanzie consacrate nella Costituzione e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo».
Parole “contro”, certo. Ma «necessarie» per rompere un conformismo che, ad ogni livello, rischia di cambiare i connotati della nostra democrazia.
È probabile che anche gli scienziati del diritto penale la pensino tra loro diversamente su alcune questioni scabrose, come il fine vita, il concorso esterno in associazione mafiosa, la prescrizione… . E non sempre è possibile trovare una mediazione tra diverse posizioni, per di più in tempi che siano compatibili con l’urgenza della comunicazione massmediatica o politica. Ma queste divergenze non possono diventare alibi per tornare sulla cattedra.
In fondo, si tratta di scegliere se esistere soltanto per uscire da un isolamento identitario oppure per impedire che il diritto penale diventi un’immensa prateria di scorribande politiche. Si tratta, in buona sostanza, di decidere se si vuole essere protagonisti (insieme ad altri soggetti) o semplici spettatori di quel che si sta costruendo, assumendone comunque la corresponsabilità.
Donatella Stasio
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[1] Cfr. Comunicato del Consiglio direttivo dell'Associazione italiana dei professori di diritto penale