«Lunga vita alle correnti! E soprattutto alle correnti di sinistra!». Sembrano una provocazione le parole di Gabriella Luccioli all’indomani della lunga campagna elettorale per il rinnovo del Csm scandita da violentissimi attacchi alle correnti e all’organo di autogoverno della magistratura (al punto che, in una sede istituzionale, un neosottosegretario alla Giustizia si è sentito autorizzato ad auspicare la fine delle correnti, «in particolare di quelle di sinistra»). E invece no, non si tratta di provocazione ma di un pubblico e coraggioso riconoscimento del valore delle correnti come «luoghi di elaborazione di principi e di visioni», tanto più autorevole e credibile in quanto proveniente da una figura carismatica della magistratura che non è mai stata identificata con una corrente in termini di “appartenenza”. Non a caso nel suo bel libro Diario di una giudice – I miei 50 anni in magistratura (Forum, 2016), Luccioli si è concessa l’orgogliosa rivendicazione «di non aver mai salito le scale di Palazzo dei Marescialli se non per motivi istituzionali e di non aver mai alzato il telefono per chiedere». La sua clamorosa esclusione, nel 2013, dalla corsa per la prima presidenza della Cassazione resta una delle pagine più tristi della storia del Csm, ma l’amarezza non si è mai trasformata in rancorosa delegittimazione delle correnti, e dell’organo di autogoverno della magistratura. Un esempio di stile istituzionale in via di estinzione.
Siamo a Roma, l’occasione è il premio Ripdico 2018-Scrittori per la Giustizia e Luccioli è nella terna dei finalisti per la saggistica. Le urne per il rinnovo del Csm si sono chiuse da due giorni e le polemiche sulle correnti rimbalzano inevitabilmente anche nell’intervista all’autrice durante la presentazione del suo libro. Lei risponde, come sempre, con la leggerezza che rende forti le parole, una boccata d’ossigeno nel clima avvelenato che si respira nella magistratura, travolta da una crisi di fiducia micidiale. La sua è una voce fuori dal coro, capace di spiegare ciò che ormai è impronunciabile tanto è impopolare, in un contesto in cui fiducia e consenso si confondono e diffusa è la tentazione di rincorrere il secondo con la deresponsabilizzazione e la burocratizzazione della funzione nonché la demonizzazione delle correnti, invece di riannodare i fili della fiducia con l’esercizio responsabile della discrezionalità connaturata alla giurisdizione, secondo un modello di magistrato che Piero Calamandrei definiva «uomo sociale» o «giudice con l’anima».
In pensione ormai da tre anni, Gabriella Luccioli appartiene a quella magistratura “illuminata” che ha saputo coniugare etica della responsabilità con la tutela e la promozione dei diritti fondamentali delle persone. È stata una delle prime donne a entrare in magistratura nel 1965 e la sua carriera è stata caratterizzata anche dall’esigenza di declinare la giurisdizione riconoscendo la specificità di genere. Il suo Diario è una ricchissima testimonianza di questo percorso e della sua fecondità, e forse anche per questo ha vinto il premio Ripdico per la saggistica. Tuttavia, nonostante i consueti rimbalzi sulle mailing list, la notizia non ha fatto notizia tra i magistrati, più impegnati a guardare il proprio ombelico post elettorale che ad alzare lo sguardo e rimettersi in cammino, magari sfruttando come bussola anche le pagine del Diario. «Quel silenzio mi dà l’impressione di appartenere al passato, di essere lontana», confessa Luccioli. Come se nel giro di pochi anni tutto fosse cambiato nell’universo della magistratura.
In effetti molto è cambiato. «Negli ultimi anni sono entrate in magistratura più o meno mille persone e circa 600 erano donne – è la prima osservazione di Luccioli –. Ma di loro ignoriamo tutto: valori di riferimento, se e quanto sono contaminate dal carrierismo alimentato dal Testo Unico sulla dirigenza, come intendono la giurisdizione… Forse bisognerebbe fare anzitutto un’indagine sociologica per capire quanto è cambiata la magistratura per la presenza delle donne». Una presenza numericamente consistente ma non abbastanza visibile se è vero, come nota Luccioli, che «è ancora forte la tendenza delle donne a delegare agli uomini scelte, opinioni, linee politiche. Le donne che elaborano un pensiero politico autonomo sono pochissime», osserva rimandando alle mailing list, «piene soltanto o prevalentemente degli interventi degli uomini».
Detto questo, Luccioli auspica che si torni «allo spirito di Gardone», di quel Congresso dell’Anm svoltosi a settembre del 1965 che segnò un «prima e un poi» nella storia della magistratura. Le pagine da 27 a 31 del suo Diario andrebbero assolutamente rilette. Si racconta, tra l’altro, che dalla discussione emerse «una nuova concezione del rapporto del giudice con la società, fino a delineare un modello di magistrato che esce dalla torre d’avorio in cui nel passato era stato rinchiuso, si apre all’esterno e si confronta con le criticità del Paese e con le grandi questioni sociali, proponendosi come interlocutore primario nel dibattito politico, sociale e culturale e nell’elaborazione di un progetto complessivo di riforma». Parole, appunto, oggi impronunciabili se non al prezzo dell’impopolarità, eppure necessarie per fare i conti con la crisi di identità che sta attraversando la magistratura. Parole da rileggere, come quelle che, più avanti, raccontano delle correnti: «È evidente – osserva Luccioli – che il fervore che anima la discussione non è alimentato da lotte di potere tra correnti ma dalla forte e nobile tensione ideale che le accomuna verso una nuova costruzione del ruolo della magistratura e verso una difesa intransigente dei valori sanciti nella Carta costituzionale, che secondo un approccio da tutti condiviso devono presiedere e dare senso all’esercizio della giurisdizione».
Segue un’annotazione secca: «Nel dibattito manca totalmente la voce delle donne». Una voce che latita anche oggi, sebbene la loro presenza sia pari al 53% dei magistrati.
Impossibile non parlare del «devastante clima preelettorale» su cui ha pesato una «pessima legge elettorale». Mi chiedo se il risultato del voto per il Csm, in particolare l’enorme successo personale di Piercamillo Davigo, non rifletta anche il bisogno di identificarsi con uno dei pochi magistrati che oggi – complice la sua presenza mediatica – riscuote consenso. Se, cioè, non sia un modo indiretto per sentirsi supportati dal consenso popolare, compensando così la crisi di fiducia verso l’istituzione. Luccioli però ritiene che Davigo non è stato votato in quanto leader di una corrente. «Lui chiama consensi – spiega – perché ha delle certezze e le spende in modo efficace. E questo premia. Davigo suscita amore e odio, ma il voto a lui è un voto alla persona, non alla corrente, è un voto a quel che dice lui e a come lo dice lui». Quanto al risultato complessivo, questa tornata elettorale ha premiato le posizioni più conservatrici e corporative della magistratura e Luccioli non nasconde di essere «molto preoccupata di questo spostamento di equilibri», al di là del dato di una presenza femminile in aumento.
La disattenzione registrata verso il Diario di una giudice in un momento in cui, invece, sarebbe dovuto diventare una sorta di manifesto culturale, soprattutto per le donne, è assolutamente coerente con questo nuovo contesto, in cui più delle idee e dei valori contano le leadership ma, tramontate le leadership, purtroppo resta lo spettacolo desolante di macerie e di un vuoto di valori riempito solo da odi, rancori, egoismi. Reagire a questa deriva significa anche esercitare l’etica della responsabilità. Che, scrive Eligio Resta commentando il Diario di una giudice, «vive esclusivamente nell’esempio, nel fare, nel far parlare leggi e diritti in nome di bisogni concreti, vitali». Praticare la virtù, insomma, invece di declamarla: lo insegnava Stuart Mill e il Diario di Luccioli ne è una testimonianza. Una buona lettura, o rilettura, per le vacanze.
Donatella Stasio