Il decreto legislativo 28/2015, in vigore dallo scorso 2 aprile, ha modificato il codice penale introducendo all’art. 131 bis una nuova causa di non punibilità, “per particolare tenuità del fatto”.
L’istituto, già conosciuto nel nostro ordinamento penale in quanto già previsto - sebbene con peculiarità diverse - nel rito minorile (art. 27 DPR 448/1988) e in quello davanti al giudice di pace (art. 34 d. lgs. 274/2000), è ora applicabile nei processi per reati “per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena”: i criteri di determinazione della pena sono indicati dal comma 4 dello stesso articolo, in cui si precisa che “non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale”.
La ricorrenza di tali ultime circostanze influirà, dunque, sulla determinazione della pena, indipendentemente da un eventuale giudizio di bilanciamento operato ex art. 69 c.p., e salva soltanto l’ipotesi in cui il giudice ne escluda la sussistenza.
Si tratta, dunque, di un istituto il cui ambito di applicazione è potenzialmente molto ampio, arrivando a riguardare reati ulteriori rispetto a quelli procedibili con citazione diretta a giudizio ed anche reati per i quali è ammessa la custodia cautelare in carcere. Un ambito ancora più ampio ove si consideri che, sebbene non esplicitato dal legislatore, la causa di non punibilità potrà essere applicata anche ai reati tentati: in questi casi, costituendo il tentativo ormai pacificamente una figura autonoma di reato, il limite edittale dei cinque anni dovrà riferirsi alla pena prevista per la fattispecie tentata, secondo le modalità di calcolo anche recentemente affermate dalla Corte di Cassazione (Cass. Pen., sez. 5, n. 3526 del 15.10.2013, in cui si è affermata la possibilità di effettuarlo con il cosiddetto metodo diretto o sintetico, cioè senza operare la diminuzione sulla pena fissata per la corrispondente ipotesi di delitto consumato, oppure con il calcolo bifasico, mediante scissione dei due momenti indicati, ferma la necessità del contenimento della riduzione della pena edittale prevista per il reato consumato da uno a due terzi).
Sulla natura dell’istituto, già in sede di delega lo stesso era stato delineato quale causa di non punibilità: una causa che si connota in termini del tutto peculiari sia per gli effetti negativi che produce in capo all’imputato in determinati casi sia per il contraddittorio che la sua applicazione richiede, quanto meno nella fase delle indagini preliminari ed in quella predibattimentale. Né può assumere rilevanza nel senso di una diversa qualificazione la formula di proscioglimento prevista per il caso di sentenza predibattimentale, pronunciata ai sensi del nuovo comma 1 bis dell’art. 469 c.p.p.: la esplicita previsione, per tale caso, di una pronuncia di “non doversi procedere” – normalmente riservata a pronunce di carattere procedurale – può ritenersi, infatti, giustificata dalla necessità di distinguere la pronuncia resa in tale fase rispetto a quella resa in esito a dibattimento o a rito abbreviato e caratterizzata, come vedremo a seguire, da un contenuto e da un fondamento ben più ampio.
Il legislatore ha individuato i criteri in presenza dei quali dichiarare la causa di non punibilità ed ha rimesso al giudice il compito di accertarne la sussistenza, in ossequio al principio della obbligatorietà della azione penale e del principio di rieducazione del reo, enunciato nell’art. 27 c.3 Cost., nel quadro di un più generale ripensamento del sistema delle pene, che consideri la sanzione detentiva come extrema ratio e valorizzi il principio di proporzione tra il disvalore del reato e la pena. Tale ultimo principio - la cui dignità autonoma appare confermata dall’art. 49 c.3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ove si stabilisce che “le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato”- è una proiezione del principio di ragionevolezza, che assume rilevanza in materia penale soprattutto alla luce della finalità rieducativa della pena, che esige che il trattamento sanzionatorio sia proporzionato all’effettivo disvalore del fatto. Un intervento, dunque, molto atteso, anche sulla scorta dei recenti interventi della Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dell’Italia in materia di pene detentive e la cui concreta riuscita è demandata alla sede giurisdizionale.
Già all’indomani della entrata in vigore della legge se ne sono evidenziati alcuni problemi applicativi, in parte collegati alla assenza di una disciplina transitoria ed in parte conseguenza delle poche modifiche apportate dal legislatore al codice di procedura penale.
Com’è noto, la causa di non punibilità troverà applicazione quando “per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”. I presupposti di applicazione (cd. “indici-criteri”, secondo la relazione allegata allo schema di decreto legislativo), dunque, sono due - la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento – e dovranno essere oggetto di una valutazione congiunta. Il primo si articola, a sua volta, in due “indici-requisiti”, costituiti dalle modalità della condotta e dalla esiguità del danno o del pericolo, da valutarsi entrambi sulla base dei criteri di cui all’art. 133 c.1 c.p.p.; il secondo concerne, invece, la personalità dell’imputato ed è chiaramente ispirato ad esigenze di prevenzione speciale, che impediscono la applicazione dell’istituto in tutti quei casi in cui, alla luce dei parametri individuati dal legislatore, si colga la abitualità del comportamento criminoso da parte del soggetto agente.
Con specifico riferimento al primo dei due “indici-criteri”, poi, il legislatore ha escluso la possibilità di applicare il nuovo istituto in determinate ipotesi, individuate al comma 2 dell’art. 131 bis c.p., in cui l’offesa non potrà essere ritenuta di particolare tenuità (“l’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità, ai sensi del primo comma, quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizio o, ancora, ha approfittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona”): una specificazione, questa, che discende dalle osservazioni presentate della Commissione giustizia della Camera dei deputati in ordine alla essenzialità del bene della vita e della integrità psicofisica della persona anche nelle ipotesi in cui la lesione sia dovuta a condotte colpose e che recepisce, nello stesso senso, le sollecitazioni della Corte europea dei Diritti dell’Uomo (sentenza 29.3.2011, Alikaj e altri c. Italia).
Con specifico riferimento alla non abitualità del comportamento – nozione certamente più ampia di quella di “non occasionalità” – il legislatore ha indicato al terzo comma dell’art. 131bis c.p. in quali casi il comportamento deve ritenersi abituale. Alla luce di tale previsione, l’esistenza di un solo precedente non è di per sé ostativa alla applicazione della causa di non punibilità, al ricorrere delle ulteriori condizioni; al contrario, ostacolerà la applicazione della norma la precedente commissione, da parte dell’imputato, di “più reati della stessa indole”, anche laddove non sia formalmente contestata la corrispondente recidiva.
Entrambi i requisiti, in ogni caso, dovranno essere oggetto di una valutazione operata ai sensi dell’art. 133 c.1 c.p.: il mancato riferimento al comma 2 di tale articolo, oggetto di una scelta consapevole da parte del legislatore, trova il suo fondamento nella esigenza di sganciare il giudizio di irrilevanza da accertamenti di tipo psicologico-soggettivistico, che, come evidenziato nella stessa Relazione di accompagnamento al decreto delegato, sono sempre “ardui e decisamente tanto più problematici quanto più destinati ad essere effettuati nelle fasi prodromiche del procedimento, secondo la naturale vocazione dell’istituto”. Rimane, in ogni caso, la rilevanza dell’elemento soggettivo sub specie di valutazione della intensità del dolo o del grado della colpa ai sensi dell’art. 133 c.1 c.p. con riferimento alle modalità della condotta.
Valutata positivamente l’esistenza di entrambi tali presupposti, la sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto riconoscerà, in sintesi, la sussistenza del fatto, la attribuibilità dello stesso all’imputato e conterrà una rinuncia alla applicazione della sanzione penale rispetto ad un fatto reato che, per come concretamente verificatosi, vedrebbe come sproporzionata anche la applicazione di una pena prossima al minimo edittale. Un contesto, dunque, diverso ed ulteriore rispetto a quello della cd. “inoffensività del fatto”, da ricondurre all’art. 49 c.2 c.p.: se in quelle ipotesi, infatti, ci si trova di fronte alla assenza di offensività del fatto, i cui elementi non integrano il reato, nei casi di irrilevanza pronunciata ex art. 131bis c.p., si accerterà la sussistenza di un fatto tipico, che integra gli elementi costitutivi del reato, ma che si riterrà non punibile in applicazione dei principi costituzionali sopra richiamati.
Si tratta, dunque, di un istituto la cui applicazione passa per una pronuncia giurisdizionale, che assumerà le forme di un provvedimento (decreto o ordinanza) di archiviazione, di una sentenza pronunciata ex art. 425 c.p.p. in esito ad udienza preliminare, di una sentenza predibattimentale ex art. 469 c.p.p. oppure di una sentenza di assoluzione ex art. 530 c.p.p.
Alla declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto, infatti, può procedersi sia nel corso delle indagini preliminari sia dopo l’esercizio della azione penale: vista la finalità di alleggerimento del carico giudiziario - anch’essa inequivocabilmente perseguita con il decreto legislativo n. 28/15 -, il legislatore ha aggiunto all’art. 411 c.p.p. una nuova ipotesi di richiesta di archiviazione, “per particolare tenuità del fatto”, ed ha introdotto nello stesso articolo un nuovo comma 1bis, che impone la necessaria interlocuzione dell’indagato e della persona offesa su tale richiesta. Ad entrambi (alla persona offesa anche al di fuori delle ipotesi di cui all’art. 408 c.2 c.p.p.) il Pubblico ministero deve dare avviso della richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto ed entrambi potranno presentare opposizione nel termine (unico per tutti i reati) di dieci giorni: una opposizione che troverà fondamento, da parte dell’indagato, nel suo interesse alla prosecuzione del processo al fine di ottenere un risultato pienamente liberatorio nel merito e da parte della persona offesa nel suo interesse a dimostrare la non tenuità del fatto.
Le modifiche apportate all’art. 411 c.p.p., in assenza di una disciplina transitoria, potrebbero avere ripercussioni sulle richieste di archiviazione già depositate, per altra causa, prima della entrata in vigore del decreto. Il problema potrebbe concernere, in particolare, la necessità di assicurare il contraddittorio delle parti sulla possibile adozione di tale diversa formula di archiviazione: sembra ipotizzabile, allora, una integrazione della notifica dell’avviso da parte del Pubblico ministero o piuttosto una integrazione dell’avviso di fissazione dell’udienza, nel caso in cui già sia stata presentata opposizione. Nel corso della udienza camerale, allora, le parti potranno prendere posizione anche in ordine a tale possibile esito ed il giudice potrà, conseguentemente, decidere.
Nessuna delle due parti, comunque, a differenza di quanto accade di fronte al giudice di pace, è titolare di uno specifico potere di veto alla archiviazione per particolare tenuità del fatto, così come a nessuna delle due parti è stato attribuito il potere di opporsi nel merito al provvedimento di archiviazione: una scelta voluta in sede di attuazione della delega, a fronte di diverse sollecitazioni della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, che avevano rappresentato la necessità di introdurre un meccanismo di reclamo nel merito del provvedimento di archiviazione, sotto lo specifico profilo del giudizio operato in ordine alla tenuità del fatto. La Relazione di accompagnamento al decreto è esplicita, sul punto, nel ritenere che “le ragioni dell’indagato e della persona offesa trovano adeguata tutela nella preposta sede della opposizione e della conseguente udienza camerale”: in esito alla interlocuzione delle parti, dunque, il giudice autonomamente valuterà la sussistenza dei presupposti per disporre la archiviazione e potrà pronunciarla anche in caso di difformi conclusioni di una delle parti. Non può non considerarsi però che, se il mancato riconoscimento di un potere di veto in capo alla persona offesa appare conforme alla legge delega (che nulla prevedeva sul punto) e conferma la circostanza per cui non sussiste alcun “principio dispositivo” del processo in mano alla persona offesa, se non nei casi in cui è esplicitamente previsto, la mancata previsione di un potere di veto in favore dell’indagato rischia di porsi in contrasto con l’art. 6, par. 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e con il diritto all’equo processo ivi sancito, nelle sue declinazioni di carattere sostanziale.
La modifica dell’art. 411 c.p.p. non costituisce l’unica norma di coordinamento del nuovo istituto con l’impianto processuale. È stato modificato, infatti, anche l’art. 469 c.p.p. mediante la introduzione di una nuova ipotesi di sentenza predibattimentale nel caso in cui “l’imputato non è punibile ai sensi dell’articolo 131 bis del codice penale, previa audizione in camera di consiglio anche della persona offesa, se compare.”
Su tale modifica si registrano già alcun pronunce di merito, che affrontano sia il tema della ampiezza della cognizione del giudice in tale fase sia il diverso profilo concernente il presupposto della non opposizione delle parti, finora caratteristico della pronuncia resa in tale sede.
Con specifico riferimento al primo profilo, non può non evidenziarsi come il legislatore, modificando l’art. 469 c.p.p., ha in sostanza equiparato il giudizio sulla particolare tenuità del fatto alle diverse ipotesi in cui la declaratoria di improcedibilità consegue alla constatazione – oggettiva – della mancanza di una condizione di procedibilità o proseguibilità della azione penale o del verificarsi di cause estintive del reato, per il cui accertamento non occorra procedere al dibattimento. Con specifico riferimento al contenuto di tale pronuncia, com’è noto, la Corte di Cassazione ha in più occasioni affermato che “in tema di sentenza predibattimentale, non è consentito al giudice emettere pronuncia che comporti proscioglimento (e quindi valutazione) nel merito, implicando essa un giudizio che deve essere compiuto con la garanzia del pieno contraddittorio, che si realizza solo nella sede dibattimentale. Prima dell'apertura del dibattimento, pertanto, il giudice, sentite le parti, può emettere solo sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato o per improcedibilità dell'azione penale” (Cass. Pen., sez. V, n. 2886 del 18.5.2000; nello stesso senso Cass. pen., sez. V, n. 4386 del 7.4.2000, in cui si afferma che “il proscioglimento prima del dibattimento, previsto dall’art. 469 c.p.p., non può essere pronunciato per motivi di merito”).
Tale impostazione, oggi, parrebbe superata con riferimento alla ipotesi di sentenza predibattimentale di proscioglimento per particolare tenuità del fatto, che si fonda - al contrario - sulla conoscenza del merito della vicenda, richiesta al giudice al fine di valutare le modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo alla luce dei criteri di cui all’art. 133 c.1 c.p.
La diversa natura di tali pronunce si riflette anche sulla conoscenza necessaria alla loro adozione. In questa fase del procedimento, infatti, difficilmente il giudice potrà avere una completa cognizione nel merito sulla base dei pochi elementi desumibili dal fascicolo per il dibattimento, formato ex art. 431 c.p.p., che nella maggior parte dei casi conterrà esclusivamente il certificato del casellario, il decreto di citazione a giudizio e le relative notifiche, gli atti relativi alla procedibilità del reato (non utilizzabili, comunque, ai fini del merito) ed eventuali verbali di atti irripetibili: elementi di solito sufficienti per pronunciare sentenza ex art. 469 c.p.p. nelle ipotesi che finora la norma prevedeva ma che potrebbero non essere sufficienti ai fini di una pronuncia di tenuità del fatto.
Premesso che la questione si pone soltanto con riferimento alla pronuncia ex art. 469 c.p.p. e non anche, ovviamente, nei casi in cui la particolare tenuità del fatto sia pronunciata con provvedimento di archiviazione (nel qual caso il giudice per le indagini preliminari ha a disposizione l’intero fascicolo del Pubblico ministero) o con sentenza dibattimentale (pronunciata, quindi, in esito ad istruttoria), una prima interpretazione potrebbe essere nel senso di ritenere che, in mancanza di una diversa previsione legislativa, il giudice anche in questo caso debba fondare il proprio convincimento esclusivamente sulla base degli elementi a sua disposizione e, quindi, sul contenuto del certificato del casellario per valutare la non abitualità della condotta e sulla descrizione del fatto contenuta nella imputazione per verificare la sussistenza dei limiti edittali e della tenuità dell’offesa sotto il duplice profilo delle modalità della condotta e della esiguità del danno o del pericolo: laddove tali elementi non siano sufficienti ad applicare l’istituto si esulerebbe, dunque, rispetto all’ambito di applicazione della sentenza predibattimentale che, secondo quanto espressamente previsto nella stessa norma, può essere pronunciata soltanto quando per accertare la relativa causa “non è necessario procedere al dibattimento”.
In questi casi si dovrebbe, quindi, necessariamente procedere a giudizio e, soltanto in esito a questo, una volta ampliato il patrimonio conoscitivo a disposizione, eventualmente valutare nuovamente la sussistenza dei presupposti richiesti dall’art. 131bis c.p. In tal senso sembrerebbe deporre anche la modifica apportata all’art. 651bis c.p.p. con riferimento all’efficacia della sentenza di proscioglimento nei giudizi civili ed amministrativi: una efficacia che, come vedremo, è limitata alla sentenza irrevocabile che abbia applicato la tenuità del fatto in esito a dibattimento o in esito a rito abbreviato e che non riguarda anche la sentenza pronunciata ex art. 469 c.p.p., con ciò evidentemente differenziandosi gli effetti delle rispettive pronunce sulla base del diverso contenuto (e del diverso fondamento) delle stesse.
In senso diverso, potrebbe ipotizzarsi un accordo delle parti ex art. 493 c.3 c.p.p. alla acquisizione degli atti contenuti nel fascicolo del Pubblico ministero nei casi in cui provenga da loro la sollecitazione ad una pronuncia di non doversi procedere oppure una acquisizione d’ufficio dello stesso nei casi in cui, sebbene le parti non si oppongano, l’iniziativa provenga dall’organo giudicante. In tal senso si è recentemente pronunciato il Tribunale di Bari (sez, II, sentenza 20.4.2015), che ha evidenziato, da un lato, la diversa natura di tale pronuncia rispetto alle altre pronunce adottabili ex art. 469 c.p.p. “per fatti oggettivi ed indiscutibili come la mancanza della condizione di procedibilità o l’avvenuta estinzione del reato” e, dall’altro, la necessità che il giudizio da operare ai sensi dell’art. 133 c.1 c.p. sia sorretto da approfondimenti nel merito che certamente esulano rispetto agli elementi in possesso del giudice in quella fase del processo.
“Il problema che si pone, nel caso di specie, è quello di fornirgli in via preliminare una più ampia cognizione di merito per avere la disponibilità di tutti quei dati necessari e sufficienti per la emissione di una sentenza”: problema che il Tribunale ha ritenuto di poter risolvere applicando analogicamente alle ipotesi di proscioglimento ex art. 469 c.p.p. per particolare tenuità del fatto la acquisizione degli atti contenuti nel fascicolo del Pubblico ministero prevista dall’art. 135 disp. att. c.p.p. per le ipotesi di applicazione pena su richiesta delle parti. Questo consentirebbe al giudice procedente di operare una piena valutazione nel merito sulla sussistenza dei requisiti della causa di non punibilità alla luce dei criteri di cui all’art. 133 c.1 c.p.; da ciò discenderebbe, inoltre, secondo il Tribunale, una incompatibilità ex art. 34 c.p.p. alla trattazione del processo da parte del giudice che, investito di tale cognizione, ritenga l’insussistenza dei presupposti per ritenere il fatto di particolare tenuità alla luce del contenuto del fascicolo delle indagini. In tale prospettazione, dunque, ad una maggiore ampiezza dei poteri cognitivi del giudice farebbe seguito un più completo contenuto della pronuncia ex art. 469 c.p.p. ed una nuova ipotesi di incompatibilità ex art. 34 c.p.p.
Anche a volere accedere a tale interpretazione - che però pare contrastare con il dato letterale della norma e, soprattutto, con la previsione contenuta nel nuovo art. 651 bis c.p.p. sopra menzionata - sembra comunque preferibile ritenere che la sussistenza della incompatibilità ex art. 34 c.p.p. debba essere valutata alla luce dei principi affermati sul tema dalla giurisprudenza costituzionale, secondo la quale “perché persista l'incompatibilità a giudicare non è sufficiente la pregressa mera conoscenza degli atti, ma occorre che il giudice abbia operato una valutazione di merito circa l'idoneità delle risultanze delle indagini a fondare il giudizio di responsabilità dell'imputato” (Corte Cost., sentenza n. 186 del 13.4.1992).
Sempre con riferimento alla pronuncia resa ex art. 469 c.p.p. e con specifico riguardo ai presupposti procedurali della stessa, il Tribunale di Asti ha proposto, nella sentenza n. 724 del 13.4.2015, una lettura del nuovo comma 1bis come autonomo rispetto alle altre ipotesi previste dalla norma e ha evidenziato, in tal senso, il mancato riferimento da parte dello stesso alla non opposizione delle parti: si legge nella sentenza “la pronuncia predibattimentale ex art. 469, comma 1 bis, c.p.p., presuppone necessariamente il contraddittorio tra le parti, in tal senso dovendosi intendere la scelta legislativa di prediligere lo strumento adottato rispetto a quello dell'art. 129 c.p.p. Ma proprio per le necessità deflattive e di contenimento dei costi che stanno alla base della scelta legislativa, ritiene il Tribunale che nessun potere di veto possa essere riconosciuto alla difesa o al PM in ordine alla pronuncia della sentenza di proscioglimento predibattimentale. Una volta ascoltate le posizioni delle parti, spetta al giudice decidere nella sua autonomia, senza che tale decisione possa essere subordinata al consenso delle parti”, evidenziando dunque la funzione deflattiva del nuovo istituto e l’inserimento di un nuovo comma, ad esso dedicato, al fine di escludere che i presupposti operativi siano quelli tipici delle altre ipotesi di proscioglimento pronunciato ex art. 469 c.p.p.
Resta fermo, comunque, che anche in questa fase come nella fase delle indagini preliminari la persona offesa dovrà essere sentita soltanto se comparsa (e senza che sia previsto uno specifico avviso finalizzato a metterla a conoscenza della possibile definizione ex art. 469 c.p.p. per tenuità del fatto) e che alla stessa non è stato attribuito alcun potere di veto in ordine alla applicazione dell’istituto.
Tanto considerato sulle prime questioni interpretative emerse con riferimento alle modifiche apportate agli articoli 411 e 469 c.p.p., non può non evidenziarsi come queste costituiscono le uniche modifiche apportate dal legislatore al codice di rito a seguito della introduzione della nuova causa di non punibilità: analogo coordinamento, infatti, non è operato con riferimento alla declaratoria di particolare tenuità del fatto in esito ad udienza preliminare o a dibattimento così come non è stato in alcun modo modificato l’art. 129 c.p.p.
Per quanto concerne tale ultimo profilo, l’art. 129 c.p.p. non contempla fra le “determinate” pronunce adottabili in ogni stato e grado l’ipotesi in cui ricorra una causa di non punibilità: “in ogni stato e grado del processo, il giudice, il quale riconosce che il fatto non sussiste, che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero che il reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità, lo dichiara di ufficio con sentenza”. La sussistenza di una causa di non punibilità, dunque, non è ipotesi espressamente contemplata, così come non lo è – a seguito della entrata in vigore della nuova disciplina – quella specifica per particolare tenuità del fatto, diversamente da quanto era previsto nello schema di decreto approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri.
A fronte di questo dato letterale e più in generale rispetto alle cause di non punibilità, una parte della dottrina ha evidenziato la impossibilità di ricondurre tale ipotesi a quelle già espressamente previste in quanto diversi ne sono i presupposti e soprattutto perché il riconoscimento di una causa di non punibilità passa attraverso l’accertamento della sussistenza della rilevanza penale e della attribuibilità del fatto all’imputato.
D’altra parte, la Corte di Cassazione non ha esplicitamente affrontato il problema ma, come rimarcato dalla Relazione n. III/02/2015 dell’Ufficio del Massimario all’indomani della entrata in vigore della nuova legge, la stessa ha più volte ammesso la possibilità di rilevare la sussistenza delle cause di non punibilità anche con sentenza resa ex art. 129.