L’ordinanza n. 1104 del 2020 della Cassazione, ha affrontato il caso di una donna nigeriana che dichiarava di essere fuggita insieme al marito per sottrarsi alla violenta ritorsione del datore di lavoro del coniuge, che accusava ingiustamente la coppia di avere trafugato un camion di sua proprietà; durante il transito in territorio libico, la donna era stata segregata in una “connection house” e costretta a prostituirsi. Il giudice di primo grado aveva rilevato una serie di incongruenze nella narrazione, e non aveva riconosciuto pertanto alla donna lo status di rifugiata né la protezione sussidiaria nelle sue forme maggiormente individualizzate; aveva negato altresì la terza forma di protezione sussidiaria, connessa al rischio generalizzato derivante da violenza indiscriminata perché non rispondente alla condizione della zona di origine ed aveva infine ritenuto di non poter prendere in considerazione i gravi accadimenti libici, perché il luogo ove si erano verificati non corrispondeva a quello dove sarebbe dovuto avvenire il rimpatrio.
Il giudice di legittimità ha cassato il provvedimento rinviando il caso al tribunale per un nuovo esame, sulla base di un iter logico che può essere così sintetizzato:
- Le violenze subite nei paesi di transito possono assumere rilevanza centrale nella valutazione del grado di vulnerabilità della persona;
- Il giudizio comparativo che occorre sempre svolgere tra la condizione personale e le conseguenze di un eventuale rimpatrio non può prescindere dalla considerazione della persona, dei suoi diritti fondamentali e della sua dignità di essere umano;
- In una condizione di particolare o eccezionale vulnerabilità della persona, il giudizio comparativo delineato dalla sentenza 4455/2018 ai fini del percorso decisionale che può condurre al riconoscimento della protezione umanitaria, può e deve svolgersi in forma attenuata.
- La condizione della donna sottoposta all’umiliazione della violenza sessuale ed alla prostituzione forzata, rappresenta una delle massime espressioni di vulnerabilità della persona, e deve essere attentamente valutata ai fini della domanda di protezione umanitaria.
La decisione segue dunque in primo luogo l’opzione, già anticipata da una innovativa pronuncia della 1° sezione della Cassazione (Ordinanza n. 13096 del 15/05/2019) per la valorizzazione delle fragilità scaturite non solo dalla situazione vissuta dal migrante nel proprio paese di origine (la cd. spinta migratoria), ma anche di quelle derivanti da esperienze gravemente traumatiche occorse durante il cammino attraverso i paesi di transito (in applicazione peraltro del disposto dell’art. 8 d.lgs 25/08); la Cassazione si avvia dunque verso il superamento definitivo di precedenti arresti che avevano invece affermato la irrilevanza degli accadimenti verificatisi lungo il cammino del migrante, perché non inerenti al luogo di potenziale rimpatrio.
La decisione si pone poi nel solco tracciato dalla sentenza n. 4455/18, che ha affrontato il tema del rapporto tra la protezione umanitaria e l’integrazione sociale del richiedente asilo, indicando quale corretto percorso logico motivazionale quello di una comparazione tra la prospettiva del rimpatrio e quella dell’accoglienza sotto il profilo dell’accesso ai diritti fondamentali, da operarsi però sempre a partire da una situazione di vulnerabilità personale (riconducibile alle più varie condizioni, non astrattamente tipizzabili).
La sentenza n. 4890/19, che è intervenuta precipuamente sul tema dell’irretroattività delle disposizioni abrogatrici della protezione umanitaria, ne ha ulteriormente sviluppato sul piano dei contenuti la definizione, sottolineando il suo il carattere aperto e affermandone la diretta derivazione costituzionale.
Il percorso ermeneutico in tema di protezione umanitaria compie un altro significativo passo in avanti con la pronuncia a Sezioni unite n. 29549/19, che, chiamate a dirimere un contrasto di interpretazioni sul tema della irretroattività delle disposizioni abrogatrici contenute nel dl n. 113/18, hanno chiaramente affermato che la situazione dello straniero nei confronti del quale vi sono i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria è da annoverarsi tra i diritti umani fondamentali garantiti dall’art. 2 Cost. e 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ed ancora che tutte le forme di protezione internazionale sono espressione del diritto di asilo costituzionale, diritto della personalità posto a presidio di interessi irrinunciabili della persona, che non possono recedere al cospetto dello straniero bisognoso di aiuto che allegando motivi umanitari invochi il diritto di solidarietà sociale; proseguono le Sezioni Unite affermando con forza che i diritti fondamentali spettano ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani, e che la condizione giuridica dello straniero non può essere considerata ragione di trattamenti diversificati e peggiorativi; altra precisazione resa necessaria dai contenuti dell’ordinanza di rimessione della questione alle SU, è quella relativa alla corretta lettura dell’art. 10 comma 3 della Costituzione, laddove il riferimento all’intervento del legislatore ordinario in materia di asilo deve intendersi ristretto all’accertamento ed all’individuazione delle modalità di esercizio del diritto e non al riconoscimento del diritto medesimo. Ancora, merita di essere qui ricordato il passo nel quale le SU chiariscono che gli interessi protetti (i diritti da salvaguardare in materia di asilo) non possono essere ingabbiati in regole rigide e parametri severi che ne limitino le possibilità di adeguamento mobile ed elastico ai valori costituzionali e sovranazionali, e l’apertura e la residualità della tutela non consentono tipizzazioni (Cass. nn. 13079 e 13096 del 2019).
Dunque, il fondamento della protezione umanitaria risiede nell’opzione del Costituente italiano per uno stato che assuma tra i suoi compiti quello di tutelare i diritti fondamentali della persona umana (e non dei soli cittadini), e di proteggerne la vulnerabilità. Il fulcro dell’indagine deve perciò vertere in primo luogo sulla identificazione di una condizione di debolezza di tale natura, e sui danni che da essa possono derivare alla persona in quanto tale.
Un danno od un rischio di danno che – ed è qui il rilievo centrale dell’ordinanza in commento – non devono necessariamente essere correlati alla situazione di partenza del migrante, ma possono essere maturati in un momento successivo, nel percorso migratorio (come nel caso all’esame della Cassazione) o addirittura sur place (come nell’ipotesi del sopravvenire di una grave patologia); una condizione che non può essere dunque ricondotta (o ridotta) ad un catalogo chiuso di situazioni, ma che richiede un giudizio capace di calarsi di volta in volta nella specificità del caso concreto.
In questo contesto valutativo aperto, l’elemento dell’integrazione sociale – di per sé esprimente un fattore di segno contrario rispetto alla vulnerabilità, in quanto indicativo di capacità di adattamento, intelligenza, resilienza – si inserisce nella valutazione come elemento della comparazione tra l’ipotesi della permanenza sul territorio nazionale, e l’alternativa contraria; volendo ricorrere all’immagine di una bilancia sui cui piatti collocare le due prospettive, l’integrazione sociale dello straniero può essere immaginata come un peso poggiato sul piatto della bilancia dove è collocata l’alternativa dell’accoglienza, unitamente agli altri fattori personali, potenzialmente idonei a determinare la prevalenza di tale opzione. Restando nel solco di questa visualizzazione, dunque la posizione assunta dalla Cassazione nella pronuncia in commento appare di evidenza plastica: poiché la vulnerabilità e l’integrazione costituiscono entrambi fattori valutabili ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, ad un maggior livello di integrazione sociale potrà corrispondere una vulnerabilità meno accentuata, così come di fronte ad una persona la cui dignità ed integrità siano state lacerate da esperienze profondamente disumane e disumanizzanti, o che si trovi esposta seriamente sotto il profilo della salute, il grado di inserimento nel tessuto nazionale non costituirà un elemento di rilevanza determinante, e certamente non rappresenterà una condizione necessaria per il riconoscimento della protezione umanitaria. Ed in questa situazione, anche la valutazione delle condizioni oggettive del luogo di rimpatrio, sotto il profilo dell’accesso al nucleo minimo di diritti che connota la dignità umana (dunque in stretta correlazione con il profilo dell’integrazione sociale) potrà assumere una rilevanza più marginale.
È significativo che a mano a mano che si affina lo sforzo di definizione dell’istituto della protezione umanitaria, i suoi confini, in luogo di delimitarsi, sembrano estendersi in un ambito via via più fluido e mobile, tanto da imporre all’interprete una attenzione costante e mirata, tanto alla vicenda individuale di ciascun richiedente, quanto alla natura aperta ed “orizzontale” dei diritti che lo Stato Italiano si è impegnato a riconoscere ed a tutelare.
Da ultimo, si può segnalare che il continuo e progressivo svelamento dell’istituto ad opera della giurisprudenza, pare non subire alcuna flessione con l’approssimarsi del momento in cui le norme che ne prevedono l’abrogazione dovrebbero cominciare ad applicarsi (una volta esaurito cioè l’esame di tutte le domande presentate in via amministrativa prima dell’entrata in vigore del dl n. 113/18); ed ancora che non cessano nella giurisprudenza di merito e di legittimità i richiami al contenuto costituzionalmente necessitato di una misura di accoglienza da accordare agli esseri umani che sono stati o rischiano di essere privati di quei diritti e quelle libertà democratiche che costituiscono l’essenza della società immaginata dalla Costituzione e dal legislatore dell’Unione.