1) Stereotipi, pregiudizi e discriminazione.
Il concetto di discriminazione non deve essere confuso con quello di stereotipo o di pregiudizio, dei quali è una manifestazione.
Lo stereotipo è una semplificazione della realtà che, in campo sociale, si esprime attraverso l’associazione dell’appartenenza a un gruppo a determinate caratteristiche; si tratta di un meccanismo che è associato al funzionamento del cervello umano (verosimilmente per ragioni evolutive), e come tale è caratteristico di tutti gli individui, con livelli maggiori o minori di pregiudizi (1).
Lo stereotipo, dunque, non è né giusto né sbagliato, fino a quando non genera il pregiudizio, cioè la convinzione – che marca la vera differenza tra il razzista, il sessista, il fondamentalista religioso ecc. e le persone tolleranti – che lo stereotipo fornisca una descrizione accurata della realtà.
Le persone che hanno meno pregiudizi si rendono conto che gli stereotipi sono inaccurati e inappropriati, mentre le persone che ne hanno di più tendono a ritenere che siano delle accurate descrizioni della realtà, tali da determinare un giudizio ex ante che sfugge alla complessità dell’esistente (pre-giudizio). (2)
Il pregiudizio, in sé, può rimanere una convinzione interiore; la discriminazione, invece, è una sua manifestazione esteriore, che non può essere tollerata da un ordinamento democratico fondato sulla pari dignità delle persone e l’uguaglianza.
Questo principio è ben espresso nel ben noto paradosso dell’intolleranza di Popper: "Se estendiamo l'illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l'attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti, e la tolleranza con essi" (3).
Non a caso, infatti, una delle principali pronunce in materia della Corte europea dei diritti dell’uomo, la famosa sentenza Garaudy c/ Francia, pone proprio questo paradosso al centro dei limiti di tutela del principio di manifestazione del pensiero: “La Corte ritiene che il contenuto principale e il tenore generale del libro del ricorrente, e il suo scopo, sono marcatamente revisionisti e perciò confliggono con i valori fondamentali della Convenzione, come espressi nel suo Preambolo, e in particolare la giustizia e la pace. Ritiene che il ricorrente tenti di distogliere l’art. 10 della Convenzione dal suo vero scopo utilizzando la sua libertà di espressione che sono contrari al testo e allo spirito della Convenzione. Tali scopi, se ammessi, contribuirebbero alla distruzione dei diritti e delle libertà garantiti dalla Convenzione” (4).
***
2) Le fonti della tutela antidiscriminatoria.
L’introduzione della tutela antidiscriminatoria nel nostro ordinamento deriva dalla confluenza di più fonti interne e internazionali:
- l’art. 3 della Costituzione, nella sua duplice dimensione di uguaglianza formale e sostanziale, di solito indicato dalla Corte Costituzionale come fonte della tutela antidiscriminatoria;
- la Convenzione di New York del 1966 delle Nazioni Unite, che fu recepita nell’ordinamento interno con la legge 654/1975 e che tuttora rappresenta il fondamento della tutela penale contro la discriminazione;
- la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che all’art. 14 prevede un divieto di discriminazione in merito ai diritti e alle libertà previsti dalla CEDU, e all’art. 1 del protocollo n. 12 prevede un divieto generale di discriminazione.
Nell’Unione europea il principio di uguaglianza, originariamente non previsto dai trattati, è stato elaborato come principio generale dell’Unione da una serie di sentenze della Corte di giustizia (5).
Un riconoscimento formale ai massimi livelli è arrivato solo con la Carta di Nizza (ora Carta dei diritti fondamentali della UE), che agli artt. da 20 a 23 riconosce l’uguaglianza davanti alla legge, il rispetto della diversità culturale, religiosa e linguistica, il principio di non discriminazione, il principio di parità tra uomini e donne e la necessità di adottare azioni positive.
Il Trattato di Lisbona (art. 3, terzo comma) ha stabilito espressamente che “l’Unione combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociale, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore”; inoltre l’art. 6 riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali, alla quale viene attribuito lo stesso valore giuridico dei Trattati.
Già prima che venissero adottati questi atti, tuttavia, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di giustizia l’UE era intervenuta con una serie di direttive, tra le quali spiccano la direttiva 2000/43/CE del 29.6.2000, sulla parità di trattamento tra le persone indipendente dalla razza e dall’origine etnica, e la direttiva 2000/78/CE sulla discriminazione nei luoghi di lavoro; atti che, come si vedrà, sono stati fondamentali per la modificazione dell’ordinamento interno.
Possiamo dunque dire che il principio di non discriminazione, oltre a discendere direttamente dai principi fondamentali della Costituzione, è cristallizzato tra i principi generali del diritto europeo e di trattati internazionali cui l’Italia aderisce (6), ciò che ha notevoli conseguenze sul livello di tutela dei diritti.
La definizione di discriminazione, introdotta per la prima volta nell’ordinamento italiano con il recepimento della Convenzione di New York delle Nazioni Unite del 1966 (legge 654/1975), comprende “ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine etnica, che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica”.
Nell’ordinamento italiano una definizione pressoché identica si trova nell’art. 43 D.lgs. 286/1998 (Testo unico sull’immigrazione), sia pure in esclusiva correlazione alla normativa cui tale disposizione si riferisce:
“Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”.
La Convenzione di New York introdusse, inoltre, il concetto di discriminazione “diretta” e “indiretta”, tuttora presente nella normativa nazionale e sovranazionale:
- l’art. 2, comma 2, lett. a) della direttiva UE sull’uguaglianza razziale stabilisce che “sussiste una discriminazione diretta quando, a causa della sua razza o origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga”; la giurisprudenza EDU richiede, analogamente, una “differenza nel trattamento riservato a persone che si trovano in situazioni analoghe o significativamente simili, basata su una caratteristica identificabile”;
- l’art. 2, comma 2, lett. a) della direttiva UE prevede che “sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere persone di una determinata razza o origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”, concetto recepito dalla Corte EDU, secondo la quale “una differenza di trattamento può consistere nell’effetto sproporzionatamente pregiudizievole di una politica o di una misura generale che, se pur formulata in termini neutri, produce una discriminazione nei confronti di un determinato gruppo”.
***
3) La tutela civilistica contro le discriminazioni.
Nell’ordinamento interno il recepimento del divieto di discriminazione è stato affidato, per molti anni, esclusivamente alla tutela penale, in applicazione della convenzione di New York che prevedeva, per gli stati aderenti, un obbligo di criminalizzazione.
La prima norma di rilievo introdotta in ambito civilistico è stata quella del testo unico sull’immigrazione (D. lgs. 286/1998), che all’art. 43 vieta qualsiasi discriminazione (secondo l’ampia definizione sopra riportata, specificata nel secondo comma in una serie di condotte) e all’art. 44 prevede un’azione civile contro la discriminazione, di competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria (Tribunale), che può emettere provvedimenti dotati di particolare forza vincolante.
La tutela civilistica è inoltre assistita da una sanzione penale: il comma 8 dell’articolo prevede che l’elusione dell’esecuzione del provvedimento sia punibile ai sensi dell’art. 388 c.p.
Con il recepimento delle direttive 2000/43/CE e 2000/78/CE (decreti legislativi n. 215 e n. 216 del 9 luglio 2003) questa tutela – originariamente riservata alla discriminazione etnico-razziale o religiosa – è stata estesa in modo da configurare un generale rimedio antidiscriminatorio, in particolare nel mondo del lavoro (D. lgs. 216).
Infatti in ambito lavorativo la tutela è stata estesa alle discriminazioni per convinzioni personali, handicap, età e – caso unico nell’ordinamento – per orientamento sessuale.
La legge 1 marzo 2006, n. 67, ha inoltre disciplinato la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni, mentre il D. lgs. 11 aprile 2006, n. 198, ha stabilito una specifica tutela della parità tra uomo e donna.
Una serie di norme, infine, stabiliscono che quando la discriminazione sia imputabile a soggetti beneficiari di contributi pubblici o assegnatari di appalti il giudice, con il provvedimento decisorio, ne dia comunicazione agli enti pubblici che abbiano disposto la concessione dei benefici, i quali ne dispongono la revoca e nei casi più gravi possono interdire per due anni l’accesso a ulteriori contributi, sgravi finanziari, appalti e così via.
Il procedimento giudiziario, infine, è stato unificato dall’art. 28 D. lgs. 1 settembre 2011, n. 150, che ha sottoposto tutte le controversie in tema di discriminazioni al rito sommario di cognizione, stabilendo una serie di regole innovative e assai incisive:
-
Giurisdizione: è del giudice ordinario, sia nella fase cautelare sia in quella di merito, in quanto il diritto a non essere discriminati, nelle fonti nazionali e sovranazionali, si pone come diritto soggettivo assoluto (7);
-
Inversione dell’onere della prova: in conformità alla giurisprudenza CEDU, la norma citata stabilisce che quando il ricorrente fornisca, anche con prova statistica, elementi di fatto indicativi di comportamenti discriminatori spetti al convenuto provare l’insussistenza della discriminazione;
-
Competenza territoriale: si determina con riferimento al domicilio del ricorrente che assume di essere vittima di discriminazione;
-
Poteri del giudice: oltre al risarcimento del danno, patrimoniale e no, il giudice può ordinare la cessazione del comportamento discriminatorio, adottando, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni provvedimento utile per rimuoverne gli effetti e prescrivendo l’adozione, entro termini certi, di un piano di rimozione delle discriminazioni accertate;
-
Pubblicità: è prevista la possibilità della pubblicazione del provvedimento su un quotidiano di tiratura nazionale.
È importante sottolineare che la sussistenza della discriminazione prescinde dall’elemento soggettivo, ed è dunque ravvisabile anche in assenza di espressa finalità o consapevolezza da parte del suo autore; tratto che differenzia sensibilmente la discriminazione in sede civile da quella prevista da disposizioni sanzionatorie (in particolare penali).
Questa disciplina ha ridato nuova linfa alla tutela antidiscriminatoria, ai diversi livelli, anche grazie all’istituzione dell’UNAR (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali), un ente istituito presso la presidenza del consiglio originariamente come ente di tutela contro le discriminazioni razziali, ma che ben presto ha esteso le proprie competenze, ponendosi come punto di riferimento generale in materia di discriminazioni.
In particolare l’UNAR anticipa le spese processuali a chi intenda agire per la tutela contro una discriminazione, tramite le associazioni accreditate (e quindi in particolare per le discriminazioni collettive, le sole per le quali possono agire direttamente anche enti rappresentativi); spese che saranno poi recuperate dal soccombente in caso di vittoria della causa.
Ancora più di recente, inoltre, l’UNAR ha sottoscritto un protocollo con il Consiglio Nazionale Forense per la gestione di un fondo di solidarietà per le vittime di discriminazione, che ha lo scopo di fornire assistenza legale alle vittime di discriminazione che intendano agire a tutela dei propri diritti e non usufruiscano del patrocinio a spese dello Stato (8).
***
4) Applicazioni della tutela antidiscriminatoria nei confronti dei Rom, Sinti e Caminanti.
La tutela antidiscriminatoria ha avuto una serie di fertili applicazioni, sia nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sia in quella interna, riguardo ai Rom, Sinti e Caminanti, la “minoranza più discriminata d’Europa” secondo la comunicazione della Commissione UE n. 173 del 5.4.2011 (e in effetti alcuni dei casi che emergono dall’analisi della giurisprudenza EDU fanno rabbrividire).
La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in particolare, oltre a ipotesi di violenza etnica (attacchi ai villaggi, sterilizzazioni forzate), ha dovuto affrontare una serie di casi relativi, ad esempio:
-
all’integrazione scolastica: c’è una serie di pronunce di condanna di vari stati europei per la segregazione dei bambini Rom in appositi istituti scolastici o, in alcuni casi, in scuole speciali riservate ai minori con deficit intellettivi (9);
-
al matrimonio Rom: la Corte EDU ha ritenuto ingiustificato l’omesso riconoscimento, ai fini della pensione di reversibilità, del matrimonio celebrato secondo il rito Rom (10);
-
al divieto di candidarsi alle elezioni: la Corte, applicando per la prima volta il protocollo addizionale n. 12, art. 1, ha ritenuto discriminatori gli accordi di Dayton, recepiti nella Costituzione della Bosnia-Erzegovina, nella parte in cui riservano l’accesso alle più alte cariche dello stato ai membri dei “popoli costituenti”, cioè serbo, bosniaco e croato (11).
Nel diritto nazionale, tra i casi più eclatanti si segnala la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, del 16 novembre 2011, relativa alle tre ordinanze del presidente del consiglio dei ministri del 30 maggio 2008 (governo Berlusconi) sulla c.d. emergenza Rom.
La sentenza, in linea generale, esclude la natura discriminatoria dei decreti, sulla base di argomenti piuttosto discutibili che si riportano testualmente:
a) la dichiarazione dell’emergenza non era in sé finalizzata a realizzare una “ghettizzazione” delle popolazioni Rom residenti nelle Regioni interessate, ma aveva il primario obiettivo di porre riparo a una “situazione di allarme sociale” ritenuta sussistente (salvo quanto si è detto in ordine alla carenza di prova dell’effettiva esistenza di tale situazione e della sua straordinarietà);
b) le misure adottate, al di là della loro possibile illegittimità sotto profili diversi e ulteriori, effettivamente si estendevano in via generale a tutti i soggetti residenti nei campi nomadi e persino a soggetti a questi estranei (si pensi alle disposizioni regolamentari annullate dal T.A.R. in ordine all’identificazione di chi si recasse in visita nei campi).
In sostanza il Consiglio di Stato afferma che non si tratterebbe di un provvedimento discriminatorio nei confronti dei Rom perché la giustificazione formale era una situazione di allarme sociale che però lo stesso Consiglio ritiene smentita dai fatti, e perché i “campi nomadi” avrebbero potuto accogliere anche persone di diverse etnie (ragionamento che mai riuscirebbe a passare nel diritto europeo, e che contrasta con l’ammissione della “prova statistica” anche nel diritto nazionale).
Con questi limiti, la sentenza in esame ha riconosciuto che l’emergenza era “gonfiata”, non essendovi sufficienti dati di fatto che la supportassero, e ha affermato la natura discriminatoria di alcune clausole dei decreti e/o dei regolamenti emessi dai commissari straordinari, e segnatamente:
- della facoltà di identificare e fotosegnalare qualsiasi persona che facesse ingresso nei campi, anche al di fuori di effettive necessità di polizia (su questa base vi sono stati dei ricorsi al Tribunale di Roma, il quale, riconoscendo la natura discriminatoria della condotta, ha ordinato la distruzione di tutti i dati sensibili e ha condannato il Ministero dell’interno al risarcimento del danno);
- dell’obbligo di sottoscrivere le norme interne di disciplina per chiunque acceda ai campi attrezzati: il Consiglio di Stato, al riguardo, evidenzia che il presupposto è che per tutti coloro che andranno a risiedere nei campi nomadi, nessuno escluso, si pongano esigenze di ordine pubblico e sicurezza, e che se lo scopo è di creare insediamenti permanenti definitivi che risolvano il problema della precarietà dei campi nomadi “dovrebbe valere ciò che vale per qualsiasi soggetto a casa propria”, anche in relazione al libero accesso di terzi senza che debbano essere identificati da custodi; inoltre si tratterebbe di un impegno in bianco, non essendo ancora state emesse le norme di riferimento;
- dell’obbligo di accettare qualsiasi proposta di avviamento al lavoro.
Un’altra sentenza interessante è quella del Tribunale di Roma del 2015 che ha condannato una casa editrice per condotta discriminatoria nei confronti di rom e sinti in relazione a una pubblicazione di diritto penale (raccolta di pareri per l’esame di avvocato) nella quale, prendendo in considerazione il reato di acquisto di cose di sospetta provenienza, l’autore faceva l’esempio dell’acquisto da “un mendicante, uno zingaro o un noto pregiudicato”.
Il Tribunale ha ritenuto che il termine “zingaro” fosse associato alla commissione di reati contro il patrimonio per la sola appartenenza all’etnia rom, e quindi in modo discriminatorio; ragione per la quale, oltre a stabilire un risarcimento del danno, ha ordinato la cessazione del comportamento discriminatorio attraverso l’immediato ritiro del volume dal mercato.
Il provvedimento indubbiamente più importante – tanto che i diversi enti sovranazionali che hanno competenze in materia di diritti umani ne hanno ripetutamente raccomandato l’attuazione – è però l’ordinanza del Tribunale di Roma del 30.5.2015, che ha ritenuto di per sé discriminatoria (quindi a prescindere dalle condizioni di vita all’interno dei campi, che potrebbero rilevare sulla base della CEDU) l’istituzione di campi attrezzati per i rom, anche alla luce dell’orientamento assunto dal Consiglio dei ministri e da diversi organi internazionali.
***
5) Il superamento dei campi rom.
Con la risoluzione dell’11 marzo 2009 il Parlamento europeo ha sollecitato per l’ennesima volta gli Stati membri a “risolvere il problema dei campi, dove manca ogni norma igienica e di sicurezza e nei quali un gran numero di bambini Rom muoiono in incidenti domestici” e ad adottare iniziative volte all’inclusione e alla protezione sociale, come poi ribadito con una risoluzione specifica del 9 marzo 2011.
Con la comunicazione n. 173 del 5.4.2011 la Commissione dell’Unione Europea – la quale ha stanziato oltre dieci miliardi di euro per fronteggiare il problema della discriminazione e dell’esclusione dei Rom – ha riconosciuto che si tratta della principale minoranza emarginata d’Europa e ha indicato una strategia imperniata su quattro punti:
-
fare in modo che tutti i bambini completino almeno la scuola primaria;
-
ridurre il divario occupazionale rispetto al resto della popolazione;
-
garantire l’accesso all’assistenza sanitaria;
-
garantire l’accesso all’alloggio e ai servizi essenziali.
Nell’inerzia del legislatore italiano, che non ha mai neppure riconosciuto i Rom come minoranze, il Governo ha adottato un “piano nazionale d’inclusione dei Rom, dei Sinti e dei Caminanti” in base al quale si dovrà “aumentare l’accesso ad un ampio ventaglio di soluzioni abitative... in un’ottica partecipata di superamento definitivo di logiche emergenziali e di grandi insediamenti monoetnici”.
La logica dei campi nomadi, dunque, è destinata ad uscire definitivamente dal panorama italiano, e gli enti locali non possono certo muoversi in controtendenza con la strategia nazionale, tanto più in ambito regionale; infatti la Legge Regionale della Sardegna n. 9 del 1988 (cosiddetta Legge Tiziana, dal nome di una neonata Rom scomparsa in condizioni di tragico degrado sanitario) prevede espressamente (art. 7) che “I Comuni adottano opportune iniziative atte a favorire l’accesso alla casa delle famiglie nomadi che facciano la scelta della vita sedentaria, utilizzando a tal fine leggi vigenti e in particolare le agevolazioni previste dal Fondo Sociale Europeo”.
Un ulteriore e decisivo salto in questa direzione è stato fatto con l’ordinanza del Tribunale di Roma del 30.5.2015, che sulla base del ricorso di alcune associazioni di tutela dei diritti civili ha ritenuto – anche in considerazione del superamento della condizione di nomadismo, ormai limitata a circa il 2 % delle popolazioni RSC – che la presenza dei campi Rom sia discriminatoria già per il solo fatto di rappresentare una soluzione abitativa di grandi dimensioni rivolta a un gruppo etnico specifico e priva dei caratteri tipici di un’azione positiva:
«Deve infatti intendersi discriminatoria qualsiasi soluzione abitativa di grandi dimensioni diretta esclusivamente a persone appartenenti a una stessa etnia, tanto più se realizzata, come nel caso dell’insediamento sito in località La Barbuta, in modo da ostacolare l’effettiva convivenza con la popolazione locale, l’accesso in condizione di reale parità ai servizi scolastici e socio-sanitari e situato in uno spazio dove è posta a serio rischio la salute delle persone ospitate al suo interno».
L’ordinanza, non ancora eseguita dallo stato italiano nonostante i ripetuti richiami da organi internazionali (12), segna un punto di non ritorno, perché la natura di per sé discriminatoria degli insediamenti monoetnici li rende illegittimi indipendentemente dalle condizioni igieniche, sanitarie, geografiche e abitative, e anche indipendentemente o contro la volontà degli interessati, facendo rientrare la questione delle soluzioni abitative per i rom nell’ambito più generale delle norme di tutela del diritto all’abitazione (salvo che per la previsione del finanziamento da parte del fondo sociale europeo).
***
6) Le questioni relative alla cittadinanza.
Un ultimo accenno a uno dei principali fattori di discriminazione indiretta delle popolazioni RSC in Italia, che discende da questioni irrisolte riguardo alla cittadinanza.
Il problema è particolarmente complesso, sia per via dell’eterogeneità delle situazioni (con un’ampia gamma che va dalle persone in possesso della cittadinanza italiana agli extracomunitari), sia per le difficoltà probatorie che, spesso, diventano ostative all’acquisizione della cittadinanza o dello stato di apolide da parte di persone che avrebbero i requisiti sostanziali per ottenerle.
In sintesi, il quadro può essere così riepilogato:
-
cittadini italiani: si tratta ovviamente del caso meno problematico, anche se è discusso se debbano essere riconosciuti come minoranza transnazionale, con il conseguente diritto di risiedere in qualsiasi stato, oppure se – essendo a pieno diritto cittadini italiani – si applichino, in caso di emigrazione, le norme che regolano il soggiorno degli stranieri.
-
cittadini di paesi comunitari (per la maggior parte provenienti dalla Romania): si applica il principio della libera circolazione, soggiorno e stabilimento nel territorio della UE, e qualora cerchino un alloggio o un lavoro trova applicazione il D. lgs. 30/2007, attuativo della Direttiva CE 2004/38/81.
In base a tale decreto, come modificato dal D. lgs. 32/2008, l’allontanamento dal territorio nazionale può essere disposto solo per motivi imperativi di pubblica sicurezza, che “sussistono solo quando la persona da allontanare abbia tenuto comportamenti che costituiscono una minaccia concreta, effettiva e grave ai diritti fondamentali della persona ovvero all’incolumità pubblica, rendendo urgente l’allontanamento, perché la sua ulteriore presenza sul territorio è incompatibile con la civile convivenza”.
-
cittadini extracomunitari: in linea generale rientrano nelle norme previste dal testo unico sull’immigrazione (D. lgs. 286/1998); a determinate condizioni possono ottenere lo stato di rifugiati o permessi per motivi umanitari.
-
persone prive di qualsiasi cittadinanza, come in particolare i minori nati nei campi, o apolidi di fatto, in quanto – come accade per la maggior parte dei Rom provenienti dall’area balcanica in seguito alla dissoluzione dell’ex Jugoslavia – privi di documenti e non in grado di documentare la propria identità e/o i requisiti per ottenere il riconoscimento dello stato di apolidia o l’acquisto della cittadinanza.
I problemi riguardano, essenzialmente, le ultime due situazioni indicate, e sono particolarmente complessi da risolvere e pregiudizievoli per gli interessati.
Infatti, sebbene la giurisprudenza costituzionale e di legittimità abbia riconosciuto da tempo che i diritti fondamentali della persona sono riconosciuti indipendentemente dalla cittadinanza, in quanto spettanti alla persona umana, di fatto il riconoscimento pratico dei diritti umani incontra ostacoli burocratici non semplici da superare, soprattutto per persone che non hanno una specifica preparazione giuridica.
____________________
1 Su questi temi cfr. ad es. S.T. Fiske, Stereotyping, Prejudice and Discrimination at the seam between the centuries: evolution, culture, mind and brain, in European Journal of Social Psychology, 2000.
2 Cfr. ad es. D. Martin, Stertotyping is an Inescapable Facet of Being Human, http://ideas.aeon.co/viewpoints/doug-martin-on-is-it-wrong-to-stereotype-people-if-so-why
3 K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, 1945.
4 Corte EDU, 24 giugno 2003, Garaudy c/ Francia; v. anche la sentenza 11 ottobre 1979, Glimmerveen e Hagenbeek c/ Paesi Bassi, nella quale la Corte – in relazione al ricorso di alcune persone escluse dalle elezioni perché trovate in possesso di volantini che istigavano alla discriminazione razziale – dichiarò irricevibile il ricorso con la motivazione che “i ricorrenti cercavano di usare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo per dedicarsi ad attività ad essa contrarie” vale a dire “diffondere idee discriminatorie dal punto di vista della razza”.
5 V. sull’evoluzione della tutela antidiscriminatoria in ambito UE L. Tria, Il divieto di discriminazione tra Corte di Strasburgo e Corti interne, 2014.
6 V. su questi temi il Manuale di diritto europeo della non discriminazione, a cura dell’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione Europea, https://fra.europa.eu/sites/default/files/fra_uploads/1510-FRA-CASE-LAW-HANDBOOK_IT.pdf
7 Cass., sez. un., 15 febbraio 2011, n. 3670; Cass., sez. un., 30 marzo 2011, n. 7186.
8 Cfr. relazione dell’UNAR al Presidente del Consiglio dei ministri, anno 2014, p. 38.
9 Sentenze 13 novembre 2007 (Grande camera), D.H. c/ Repubblica Ceca; 5 giugno 2008, Sampanis c/ Grecia; 16 marzo 2010, Orsus c/ Croazia; 11 dicembre 2012, Sampani c/ Grecia; 29 gennaio 2013, Horvath c/ Ungheria.
10 Corte EDU 8 dicembre 2009, Muñoz Diaz c/ Spagna.
11 Corte EDU, Grande Camera, 22 dicembre 2009, Seidic e Finci c/ Bosnia Erzegovina.
12 Cfr. ad es. le Osservazioni conclusive e raccomandazioni all’Italia del Comitato ONU sull’eliminazione delle discriminazioni razziali (CERD).