Recenti dichiarazioni del ministro degli Interni a proposito della necessità di “chiudere” la Corte europea dei diritti umani, colpevole di minare la legalità nazionale, hanno destato la pronta reazione dell’Unione camere penali [1], alla quale va riconosciuto il merito di avere evidenziato con immediatezza la disarmonia di tali prese di posizione con il quadro di “regole” alle quali il nostro ordinamento ha consapevolmente deciso di aderire parecchi lustri fa.
È poi di pochi giorni fa la notizia dello sgombero di un campo rom disposto dal sindaco della città capitolina malgrado l’adozione, nei confronti di tre ricorrenti alla Corte di Strasburgo, di un provvedimento d’urgenza di sospensione dell’esecuzione della misura. La decisione interna, adottata in palese violazione dell’art. 39 del Regolamento della Corte Edu, ha ancora una volta suscitato la pronta reazione di una parte degli avvocati italiani che hanno deciso di rivolgere una lettera aperta al ministro degli Interni [2].
Per converso, né gli organi associativi della magistratura né, per quel che consta, le articolazioni culturali dei magistrati italiani − le cd. correnti − hanno fin qui ritenuto di esprimere ufficialmente il proprio avviso sulle vicende.
Poche parole è sufficiente spendere per evidenziare che le posizioni assunte a livello nazionale sono radicalmente incompatibili con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia, in tal modo esposta, quanto alla vicenda del campo rom, a subire una condanna per violazione degli obblighi internazionali.
Il fine di questa telegrafica riflessione non è tuttavia quello di approfondire tecnicamente la distanza che corre tra l’immagine del Paese-Italia diffusa ed il quadro delle regole internazionali che esso stesso ha sottoscritto, quanto quello di andare alla ricerca delle cause di questo malessere.
Cause che, a giudizio di chi scrive, rimontano ad un momento storico precedente a quello che stiamo vivendo e, in definitiva, ad un’epoca nella quale non si è fatto e detto ciò che doveva essere fatto e detto a proposito del ruolo centrale dei diritti fondamentali in chiave sovranazionale svolto attraverso la giurisprudenza delle Corti europee di Lussemburgo e di Strasburgo.
I messaggi che, in questi giorni, vengono diffusi e che sembrano trovare ampi consensi nel corpo sociale, non sono che la versione colorita di un radicato ed elegante sentire che ha trovato, nel corso dell’ultimo ventennio, sempre più linfa in settori − professionali, culturali e politici − del nostro Paese, tutto intriso di – dichiarato – patriottismo costituzionale e di marcato sovranismo, di assoluta centralità delle istituzioni democratiche nazionali rispetto a quelle sovranazionali, di capacità totalizzante del modello di protezione dei diritti in chiave interna e, in definitiva, di progressiva chiusura ad una cultura dell’integrazione europea fondata sui diritti delle persone.
Opzione ideologica, quest’ultima, che ha consentito di emarginare – a volte – o di guardare con olimpico distacco, se non con un malcelato fastidio a quanti − studiosi, operatori del diritto, semplici esponenti della società civile − hanno cercato di dare voce e contenuti concreti ad una prospettiva di tutela dei diritti fondamentali anche in chiave sovranazionale, radicandola nel sistema di garanzie voluto dal Costituente e, per questo, capace di rigenerare continuamente il controllo di legalità che costituisce un dato insopprimibile del nostro sistema, innestandosi pienamente nel corpus del sistema di garanzie interne che con esse convivono paritariamente.
In questo contesto, assumono un significato affatto rassicurante i silenzi di oggi della magistratura associata sulle posizioni espresse, in modo più o meno diretto, in ordine al ruolo delle Corti sovranazionali, non prendendo in adeguata considerazione che un attacco al sistema di protezione di quelle giurisdizioni è prim’ancora un’aggressione indiretta al sistema interno di protezione dei diritti, risultando i giudici nazionali giudici comuni del diritto dell’Unione europea e giudici nazionali del diritto convenzionale.
Sarà un caso che l’adozione, nel dicembre del 2015, di un Protocollo di dialogo fra la Cassazione e la Corte europea dei diritti dell’uomo, che rappresenta una delle innovazioni più rilevanti presso il giudice di nomofilachia per i frutti progressivamente prodotti [3], studiato e valorizzato dalla dottrina [4] e seguito a ruota dalla Corte dei conti, dal Consiglio di Stato e dal Csm, sia stata dimenticata nei “programmi” elettorali in occasione delle recenti elezioni per il Csm e mai adeguatamente considerata nelle occasioni di confronto sui temi che riguardano la Corte di cassazione ed il suo ruolo nomofilattico, ancorché in dottrina tale strumento sia stato addirittura proposto come possibile “modello” per risolvere i contrasti fra Corte costituzionale e Corti europee [5].
Silenzi assordanti, che pure fanno il paio con quelli già sottolineati a proposito di esperienze di donne magistrato che hanno segnato nel profondo, anche per la loro apertura alle fonti sovranazionali, la giurisprudenza nazionale [6], ancora una volta e per nulla forieri di buoni presagi.
Che fare, da dove ricominciare, dunque?
Forse, da un profondo esame di coscienza, capace di unire studiosi e pratici del diritto, superando steccati, preconcetti e pregiudizi, con la consapevolezza che in gioco non c’è il successo di un sistema sull’altro, ma i diritti di tutti noi. Ripartire, dunque, attraverso un'opera di sensibilizzazione capace di superare gli steccati fra ordini professionali e correntismi e di operare porta a porta, in maniera capillare, opponendo alla incultura la cultura dei diritti e della dignità, specie degli ultimi, gli indifesi, gli emarginati.
Non sarà facile, ma ne vale la pena.
[1] B. Migliucci e F. Cappelletti, La Cedu è l'estremo baluardo dei diritti, non può chiudere come un ufficio postale, in Il Dubbio, 3 luglio 2018.
[2] La cultura dei diritti umani come antidoto al perseverare nell'errore, Lettera aperta al Ministro degli Interni, Unione delle camere penali, 26 luglio 2018, http://www.camerepenali.it/cat/9359/la_cultura_dei_diritti_umani_come_antidoto_al_perseverare_nellerrore.html
[3] Vds. l’attenzione sul punto prestata da E. Lamarque, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo a uso dei giudici italiani, in Scritti in ricordo di Paolo Cavaleri, Napoli, 2016, p. 510. Più di recente, in modo assai approfondito, A. Di Stasi, Corte di Cassazione e Corti europee, p. 2.2, in I processi civili in Cassazione, a cura di A. Didone e F. De Santis, Milano, in corso di pubblicazione.
[4] P. Ferrua, La prova nel processo penale, vol. I, Torino, 2017, p. 296, nota 61; A. Ruggeri, Il primato del diritto dell’Unione sul diritto nazionale: lo scarto tra il modello e l’esperienza e la ricerca dei modi della loro possibile ricomposizione, in “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti, XX, Studi dell’anno 2016, 23; Id., Primato del diritto sovranazionale versus identità costituzionale? (Alla ricerca dell’araba fenice costituzionale: i “controlimiti”), ibidem, 60, sub nota 30.
[5] A. Ruggeri, Cosa sono i diritti fondamentali e da chi e come se ne può avere il riconoscimento e la tutela, Itinerari, anno 2016, cit., 304.
[6] D. Stasio, “Lunga vita alle correnti”. La lezione di Gabriella Luccioli, Rubrica Controcanto in questa Rivista on-line, 19 luglio 2018, http://questionegiustizia.it/articolo/lunga-vita-alle-correnti-la-lezione-di-gabriella-luccioli_19-07-2018.php.