Per ottenere informazioni capaci di descrivere una realtà complessa, esiste in ogni campo una soglia minima di accettabilità dei metodi: dunque, nessun individuo dotato di buon senso si sottoporrebbe ad un prelievo ematico per accertamenti clinici, dopo aver consumato un’abbondante colazione; allo stesso modo un tecnico ambientale pone attenzione a non contaminare un elemento da sottoporre ad analisi chimiche; o ancora, sarebbe impensabile muoversi sulla scena di un delitto alterandola irrimediabilmente, o raccogliere un reperto a mani nude mettendolo nella tasca dei pantaloni.
Si tratta, siamo d’accordo, di osservazioni oggi di un’ovvietà disarmante. Ma altrettanto disarmante è ciò che talora avviene all’interno delle aule dei tribunali, quando la scienza giuridica si avvale della scienza psicologica per comprendere e spiegare un fatto o un accadimento, altrimenti indecifrabile o di difficile comprensione con i soli strumenti giuridici in possesso dei magistrati, come nel caso del delicatissimo ambito della testimonianza di un minore. Ciò che infatti appare scontato e banale discorrendo di procedure mediche o investigative, diviene di difficile accettazione – e spesso di difficile comprensione – quando si affronta il complesso tema dell’ascolto di un minore presunta vittima di presunto abuso, denunciando la ancora scarsa consapevolezza dell’importanza di una corretta modalità di raccolta delle testimonianze, che il più delle volte costituiscono il maggiore o, in alcuni casi, l’unico, elemento a carico dell’indagato o di prova della colpevolezza dell’imputato.
È verità universalmente riconosciuta, grazie a decenni di ricerca sperimentale, che la suggestionabilità di un minore è inversamente proporzionale alla sua età: bambini in età scolare e prescolare sono quindi sensibilmente suggestionabili. È ampiamente dimostrata la facilità con cui si possono creare falsi ricordi o distorsioni del ricordo attraverso interviste suggestive e la trasmissione, seppur involontaria, di aspettative e credenze dell’interlocutore. È quindi comprensibile, stante la consapevolezza dell’incidenza epidemiologica dei casi di falsi positivi, la motivazione che ha indotto specialisti del settore a redigere protocolli per l’ascolto di minori e linee guida per la valutazione delle loro competenze testimoniali, al fine di fornire ai magistrati informazioni utili al raggiungimento del loro convincimento; la tutela dei diritti e del benessere dei testimoni, il rispetto dei principi del giusto processo e la garanzia del contraddittorio delle parti, fanno da cornice di rilievo a buone prassi, linee guida e protocolli.
Il primo e più importante documento che fornisce agli operatori di settore le indicazioni che dovrebbero seguire nel lavoro psicoforense in tema di sospetto abuso sessuale ai danni di persone minorenni, è la Carta di Noto, che nasce dalla collaborazione interdisciplinare di magistrati, avvocati, psicologi, psichiatri, criminologi e medici legali, a seguito del convegno tenutosi a Noto il 9 giugno 1996 dal titolo: Abuso sessuale sui minori e processo penale.
Nel corso degli anni, i contenuti del documento sono stati costantemente aggiornati sulla base dell’evoluzione delle conoscenze in materia di psicologia della testimonianza, e quindi in base agli aggiornamenti scientifici in tema di processi cognitivi, percettivi e mnestici, e in materia di psicologia dell’età evolutiva, relazionale e di psicopatologia dello sviluppo.
Parallelamente, le Linee Guida SINPIA (Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza) e le Linee guida nazionali per l’ascolto del minore testimone (frutto del lavoro interdisciplinare di sei società scientifiche [1]), coerentemente con i principi della Carta di Noto, riprendono e puntualizzano le buone prassi alle quali gli esperti dovrebbero attenersi nell’affrontare casi di sospetto abuso e pregiudizio ai danni di minori; nasce il Protocollo di Venezia per guidare gli accertamenti tecnici nei casi di sospetto abuso sessuale collettivo su minori.
Nonostante tali premesse, permangono alcuni interrogativi: per quale motivo le aule dei tribunali e gli uffici di procura si dimostrano molto spesso impermeabili alle argomentazioni di protocolli e linee guida psicoforensi? Perché non si pretende la loro rigorosa e puntuale applicazione quali strumenti obbligati e indispensabili per una corretta e attendibile indagine psicoforense al fine di evitare una raccolta di elementi probatori scientificamente infondati e dunque opinabili, inattendibili e fuorvianti?
Un’affermazione apparentemente ironica di un famoso psicologo dell’età evolutiva, Jean Piaget, ci può forse fornire un utile spunto di riflessione: «Sfortunatamente per la psicologia, tutti pensano di essere psicologi»; concetto a suo tempo espresso anche da Sigmund Freud: «Non tutti si azzardano ad esprimere un giudizio su temi di fisica, e tutti invece – il filosofo come l’uomo della strada – hanno un loro parere da esternare su temi di psicologia, e si comportano come se fossero quantomeno psicologi dilettanti».
La grande battaglia della psicologia si gioca da decenni proprio nel tentativo di superare la cosiddetta psicologia di senso comune, o psicologia ingenua, per affermarsi a scienza, anche mediante la creazione di protocolli e linee guida che trovano fondamento nei risultati della ricerca. Tutti gli esseri umani si costruiscono rappresentazioni del mondo e di sé in relazione al mondo, attraverso la propria esperienza relazionale, fin dai primissimi legami di attaccamento, attraverso i propri vissuti e attribuzioni di significato. Gli esseri umani, quindi, attraverso un processo definito costruttivismo, non entrano in rapporto diretto con la realtà ma attraverso il loro punto di vista su di essa. La psicologia di senso comune riguarda dunque tutte le credenze e le convinzioni soggettive circa i legami di causa-effetto che regolano il comportamento umano.
Tali credenze e convinzioni, proprio perché caratterizzate dalla soggettività dell’esperienza del singolo, sono spesso in contraddizione con credenze e convinzioni altrui. Il metodo scientifico, invece, pone l’accento sul controllo delle condizioni in cui si compiono gli eventi e studia le reciproche influenze di tutte le variabili coinvolte in un dato fenomeno, rendendo eventi e variabili confrontabili, verificabili e ripetibili. La psicologia – e nello specifico la psicologia forense e della testimonianza – attraverso un approccio epidemiologico orientato all’applicazione del metodo scientifico, pur fondando le proprie teorie su quanto è riuscita a dimostrare, nella sua quotidiana applicazione è tutt’oggi fortemente e pericolosamente minacciata da credenze di senso comune che si concretizzano in discutibili argomentazioni tecniche e cliniche e in metodologie di indagine di scarsa competenza e idoneità.
La frequente realtà di periti e consulenti tecnici che mostrano avversione o non conoscenza delle linee guida di settore, oltre ad amplificare il rischio di vittimizzazione secondaria della presunta vittima, genera importanti e clamorosi errori; ma accade sovente anche la situazione opposta: argomentazioni valide, competenti e scientificamente fondate dei consulenti, non vengono recepite dai destinatari, poiché lontane dalle loro credenze soggettive e di senso comune.
La convinzione che un bambino non possa riferire di un abuso sessuale o di violenze fisiche se non li ha realmente subiti, unitamente all’idea che la masturbazione infantile sia sintomatica di abuso sessuale, sono forse tra le credenze ingenue più radicate; parallelamente all’idea che sia sufficiente essere psicologo per avere competenza in materia di psicologia forense e della testimonianza.
La corretta applicazione delle linee guida non è però sempre sufficiente per garantire un lavoro di qualità, se non è accompagnata da un’appropriata competenza clinica. Se il protocollo del chirurgo gli impone di lavarsi le mani prima di un intervento, è altrettanto vero che il chirurgo che si lava le mani prima di operare non è automaticamente un bravo specialista, se non può vantare un’idonea competenza. Anche lo psicologo, quando lavora in ambito psicoforense, non può quindi mancare di adeguata abilità clinica. Una diagnosi corretta, accompagnata da una chiara conoscenza delle implicazioni comportamentali, relazionali e sintomatologiche del soggetto, consente di determinare “cosa genera cosa” nel processo di falsificazione delle ipotesi che lo psicologo forense dovrebbe applicare. La modesta competenza clinica di alcuni periti e consulenti determina, ad esempio, il proliferare di errate diagnosi di Disturbo post-traumatico da stress (PTSD); o pone l’accento su comportamenti sessualizzati (sintomatologia aspecifica) [2] quali indici suggestivi di esperienze sessuali subite, spesso oggetto di un ragionamento circolare ed errato che trasforma ciò che andrebbe provato in un criterio di inferenza: come chiaramente affermato anche nella giurisprudenza di legittimità: «Più in generale, costituisce un ragionamento circolare e non corretto ritenere che i sintomi siano prova dell’abuso e che l’abuso sia la spiegazione dei sintomi» (Cass. pen., sez. III, n. 852, 18 settembre 2007).
Verranno di seguito sinteticamente descritti tre casi giudiziari reali emblematici di realtà tutt’altro che infrequenti, in cui sono state violate le indicazioni delle linee guida di settore.
I casi selezionati, volutamente eterogenei, sono rappresentativi dell’ampiezza dell’oggetto d’attenzione: parlare di testimonianza in età evolutiva e valutazione delle competenze testimoniali, con relativi protocolli e linee guida, non significa riferirsi esclusivamente a bambini in età pre-scolare e scolare, presunte vittime di abuso sessuale, ma ad un ambito ben più ampio di situazioni, che includono la violenza fisica e psicologica, e che sono trasversali a diverse fasce di età (fino ad includere persone maggiorenni affette da ritardo mentale che le rende soggetti sensibilmente suggestionabili e influenzabili).
CASO 1
I genitori di “Giovanni”, un bambino di quattro anni frequentante il secondo anno della scuola dell’infanzia, dichiarano di aver notato dei segnali, a loro dire preoccupanti, nel comportamento del figlio, quali disturbo del sonno, enuresi notturna e pianti al momento di doversi recare a scuola; manifestazioni, in realtà, tutt’altro che infrequenti in bambini in età prescolare e riconducibili a più cause.
La mamma di Giovanni organizza la festa di compleanno del figlio con l’intento di confrontarsi con altri genitori in merito alle sue preoccupazioni. Da questo confronto emerge che la maestra “Rossella” avrebbe dato a Giovanni delle sberle sulla nuca facendogli sbattere la fronte sul banco. Successivamente i genitori di altri tre bambini dichiareranno che (anche) i loro figli avrebbero riferito di essere vittime del medesimo gesto, oltre che vittime di insulti e punizioni umilianti.
La mamma di Giovanni, comprensibilmente allarmata, ne parla con il marito e, la sera stessa, interroga il bambino, mimando la scena della sberla sulla nuca, chiedendogli “se era quello che gli faceva la maestra Rossella” e facendogli domande sull’accaduto. Il minore conferma la versione dei fatti a lui proposta.
A questo punto i genitori di Giovanni, preoccupati per il figlio, si rivolgono a una psicologa che prende in carico il minore per un percorso psicoterapeutico della durata di circa dieci mesi con sedute a cadenza settimanale.
La psicologa redige una relazione nella quale descrive il comportamento del bambino riferitole dai genitori: «Il mio bambino è terrorizzato. Si sveglia e la prima cosa che dice è “non vado all’asilo”, attribuendolo a “comportamenti della maestra Rossella”».
La relazione viene quindi inviata ai carabinieri della stazione di competenza territoriale, che trasmettono notizia di reato alla procura della Repubblica; la maestra Rossella viene iscritta nel registro degli indagati per i reati ipotizzati di cui agli artt. 571 e/o 572 cp.
Successivamente, il pubblico ministero incaricato chiede alla terapeuta del bambino se il suo paziente sarebbe in grado di sostenere un ascolto in incidente probatorio.
La terapeuta, per rispondere al quesito, sottopone il minore ad audizione protetta presso l’ufficio di presidenza dell’istituto comprensivo frequentato dal bambino, alla presenza anche della mamma.
A distanza di circa due mesi, la psicologa effettuerà un secondo ascolto con le stesse caratteristiche del primo. Il pubblico ministero dispone la trascrizione delle due audizioni che compaiono agli atti con il titolo: Trascrizione integrale del colloquio avvenuto in sede di audizione protetta del minore “Giovanni”. Le due trascrizioni, per opposizione del difensore dell’imputata, non verranno ammesse nel fascicolo dibattimentale.
Di tali audizioni parlerà però la terapeuta di Giovanni ascoltata in dibattimento in qualità di testimone del pubblico ministero, fornendo una deposizione nella quale non è possibile delineare i confini tra ruolo terapeutico e ruolo di consulente tecnico. La terapeuta spiegherà in udienza che avrebbe espresso parere negativo al quesito del pubblico ministero poiché un ascolto sui fatti oggetti di indagine «sarebbe stato per il minore una riattivazione traumatica forte». Nessuno dei quattro bambini presunte vittime di maltrattamento fisico perpetrato nei loro confronti dalla maestra Rossella è stato sentito in incidente probatorio. Non sono stati ascoltati altri alunni, tutti potenzialmente testimoni di quanto accadeva in classe. Le intercettazioni ambientali, a suo tempo effettuate all’interno della scuola dell’infanzia, non hanno fornito alcun elemento utile alla tesi accusatoria.
I consulenti della difesa hanno quindi messo in evidenza le violazioni delle linee guida [3]:
- il minore sarebbe stato sottoposto a diverse interviste suggestive, dal momento della prima rivelazione, quando i genitori mimano l’atto della sberla sulla nuca, al successivo intervento della sua terapeuta, con la quale avrebbe parlato dei fatti oggetto del procedimento penale durante la terapia e durante le due audizioni protette condotte dalla stessa terapeuta, audizioni che si configurano come fortemente suggestive. Vengono quindi violati gli standard richiesti dai protocolli per l’ascolto del minore per la raccolta di una narrazione genuina. Il contenuto delle due audizioni, non ammesse nel fascicolo del dibattimento, è stato portato all’attenzione del giudice dalla stessa terapeuta durante la sua deposizione in aula;
- la terapeuta, assumendo impropriamente le vesti del consulente tecnico, parla scorrettamente di indicatori di abuso e si esprime in merito all’attendibilità del racconto del minore.
La maestra Rossella verrà condannata in primo grado per il delitto di cui all’art 572 cp.
La terapeuta di Giovanni, come si evince dalle motivazioni della sentenza di condanna, ha avuto un ruolo significativo nel determinare il convincimento del giudice: «Le dichiarazioni delle madri dei quattro piccoli, e in particolare quelle della signora X (madre di Giovanni), trovano sicuro riscontro nelle osservazioni della terapeuta del figlio, la dottoressa Z, psicologa (...). Al dibattimento si è lungamente discusso circa la correttezza delle modalità da questa seguite nel corso degli incontri e dei colloqui con il minore Giovanni, criticate dalla consulente della difesa (...) perché si sarebbero svolti in un contesto suggestivo (...)». La sentenza risponde alle osservazioni della difesa, replicando che «la dottoressa Z non è stata sentita come consulente del pm (...) ma semplicemente come testimone, trattandosi della psicologa che aveva avuto in cura Giovanni (...)».
Si potrebbe condividere questo passaggio della motivazione se la psicologa si fosse limitata a svolgere il ruolo terapeutico all’interno del proprio studio; dovendosi interfacciare con il mondo giuridico sull’ascolto di un minore, lo psicologo dovrebbe rappresentare al giudice che un ascolto suggestivo, a prescindere dalla veste di chi lo abbia condotto, e la narrazione in ambito terapeutico dei temi oggetto del procedimento, minano fortemente la competenza a rendere testimonianza di un minore.
La psicologa in questione, come già segnalato, confonde il ruolo terapeutico con quello del consulente tecnico e interviene impropriamente nella formazione della prova, portando al giudice argomentazioni che sono, per di più, puramente soggettive e che non trovano fondamento nella realtà clinica e psicoforense: «Dei vari disegni uno, in particolare, l’aveva particolarmente colpita, perché utilizzando un solo colore, il rosso (a detta della teste significativo di uno stato di ansia, di angoscia) aveva raffigurato un bambino, lui stesso, con la maestra dietro (...)».
È ormai noto che narrativa psicoterapeutica e narrativa probatoria sono incompatibili, riferendosi la prima alla realtà del paziente e la seconda alla realtà fattuale. Le Linee guida SINPIA, al punto 8.7 raccomandano che: «Qualora si renda necessaria una psicoterapia, occorre egualmente che i ruoli del consulente e dello psicoterapeuta rimangano incompatibili, onde evitare la possibilità di rivelazioni indotte da un contesto non sufficientemente neutrale». La Carta di Noto sottolinea ampiamente questo aspetto all’art. 10: «La funzione dell’esperto incaricato di effettuare una valutazione sul minore a fini giudiziari deve restare distinta da quella finalizzata al sostegno e trattamento e va pertanto affidata a soggetti diversi. (...) in ogni caso i dati ottenuti nel corso delle attività di sostegno e di terapia del minore non sono influenti, per loro natura, ai fini dell’accertamento dei fatti che è riservato esclusivamente all’autorità giudiziaria»; e all’art. 11: «L’assistenza psicologica al minore va affidata ad un operatore specializzato che manterrà l’incarico in ogni stato e grado del procedimento penale. Tale persona dovrà essere diversa dall’esperto e non potrà comunque interferire nelle attività di indagine e di formazione della prova».
CASO 2
“Andrea” è un ragazzo di 19 anni affetto da un significativo ritardo mentale (Quoziente Intellettivo, QI, di 43, collocabile nella fascia di un ritardo medio-grave), inserito in una struttura comunitaria nel dicembre 2008. Pur trattandosi di un giovane già maggiorenne, come si legge nella sentenza «(...) la peculiarità della testimonianza resa da un minore o, comunque, da una persona equiparabile ad un minore (a fronte del grave deficit cognitivo di cui Andrea è affetto), richiede una particolare serie di cautele cui il Giudice di merito non può sottrarsi (...)».
Il 20 giugno 2009 “Raffaele”, educatore che conosce Andrea e che successivamente sarà imputato nel procedimento penale in esame, termina il rapporto di lavoro con la comunità frequentata dal ragazzo e viene assunto in altra sede.
Nel luglio dello stesso anno i genitori di Andrea notano lividi sulle gambe e sul fianco sinistro del figlio. Secondo le loro dichiarazioni, queste lesioni, erano state riferite dal figlio stesso come esiti di percosse. Per questo motivo presentano una segnalazione ai servizi sociali del comune territorialmente competente.
Nel mese di agosto, la struttura che ospita Andrea organizza una vacanza al mare cui il ragazzo partecipa. Al ritorno da questa vacanza terapeutica, i genitori osservano nel figlio un comportamento definito anomalo con disturbi del sonno, incubi e crisi di pianto durante le quali Andrea, sempre a dire della mamma, manifesterebbe il desiderio di non tornare in comunità.
All’incirca alla metà del mese di settembre 2009, Andrea riferisce alla mamma che succedevano «cose brutte all’interno della struttura». In questa occasione i genitori lo interrogano per meglio comprendere il «significato delle frasi» e deducono che il figlio abbia subito violenze sessuali. Durante i vari interrogatori domestici Andrea conferma i loro sospetti, dicendo di essere stato vittima di abusi sessuali durante i mesi estivi e identificando, in un secondo momento, l’educatore Raffaele quale presunto autore del reato. La situazione viene quindi portata all’attenzione dell’assistente sociale del comune di residenza, che si attiva affinché Andrea venga sottoposto ad una visita medica specialistica, che avverrà il 14 dicembre 2009, oltre tre mesi dopo i presunti fatti, e che verrà eseguita da una ginecologa con una visita anale ad Andrea; lo stesso medico, durante un’assunzione di s.i.t. del 9 febbraio 2009 presso gli uffici della Questura, traccerà un profilo psicologico della condizione del paziente traendone una considerazione non supportata da evidenze cliniche: «L’imbarazzo e la fatica con cui (Andrea) ha riferito i fatti accaduti il più delle volte è indice più veritiero di un abuso sessuale».
Il 4 gennaio 2010 verrà sporta denuncia nei confronti dell’educatore Raffaele.
Il 17 maggio 2010 Andrea verrà sottoposto ad audizione protetta con successiva disposizione di una perizia.
Il perito incaricato elude le indicazioni delle linee guida di legittimità, citando indicatori clinici compatibili con esperienze di abuso sessuale e sottoponendo il periziando a intervista suggestiva sui fatti oggetto di indagine. Commette anche un grave errore clinico, asserendo che persone affette da ritardo mentale medio-grave sarebbero maggiormente ancorate al reale e al concreto, e di conseguenza non avrebbero, secondo lui, capacità fantasticatrici e confabulatorie, arrivando per questo al paradosso, facendo credere che persone con ritardo mentale siano testimoni migliori di persone con capacità intellettuali nella norma.
Le argomentazioni della difesa, supportate dall’intervento di una specialista di fama mondiale in materia di testimonianza, sono state recepite dai giudici: «Andrea è stato chiamato a ripetere le proprie dichiarazioni accusatorie per ben cinque volte e l’analisi di quelle dichiarazioni ha fatto emergere come le stesse si siano modificate in maniera significativa nel tempo (...). Il consulente della difesa (...) ha ricordato che le persone affette da ritardo mentale come Andrea devono essere ritenute in generale come altamente suggestionabili e il deficit cognitivo clinicamente accertato mina fortemente l’attendibilità del ragazzo. Dal punto di vista metodologico la consulente della difesa ha evidenziato come nelle occasioni documentate (in particolare la consulenza XY e l’incidente probatorio) si è subito arrivati a “domande chiuse” che presupponevano in maniera assoluta e ineludibile il fatto che Andrea avesse subito qualcosa di spiacevole (...). Con significative argomentazioni scientifiche, la consulente della difesa dell’imputato ha evidenziato come un deficit intellettivo così importante non determini (come ingenuamente si potrebbe supporre) l’incapacità di inventare ma, piuttosto, incida sulla capacità di ricordare correttamente».
In questo quadro, connotato da “aspetti di criticità” rispetto all’ascolto della vittima, come sottolinea il Tribunale, l’incidente probatorio successivamente svoltosi non fornisce prova certa della responsabilità dell’imputato: una conduzione della precedente fase non fondata su protocolli validi induce il Tribunale a ritenere che Andrea «possa essere realmente stato oggetto di una qualche situazione critica» senza che tuttavia alcun comportamento illecito sia univocamente riconducibile all’imputato: il quale viene assolto dal delitto di cui agli artt. 81, 110, 609-bis, 609-quater, comma 4, n. 2, 61 n. 11 cp per non aver commesso il fatto, ai sensi dell’art. 530, secondo comma, cpp.
CASO 3
In un caso analogo al secondo, avvenuto qualche anno prima, viene sostenuta la medesima tesi clinica: secondo il perito, le dichiarazioni di un minore di quattordici anni, affetto da ritardo mentale, che accusa il parroco del paese di gravi abusi sessuali nei suoi confronti, si riferirebbero a esperienze realmente esperite poiché il ragazzo avrebbe un funzionamento cognitivo basato su un pensiero operatorio-concreto, e quindi “ancorato” alla realtà e pertanto credibile. La valutazione della competenza testimoniale del minore è tuttavia priva di un completo approfondimento delle dinamiche psicologiche, cognitive, affettive e relazionali (imprescindibile in un processo di tale natura), che avrebbe permesso un contraddittorio tecnico-scientifico in merito a dette competenze; è invece ricca di inferenze soggettive che non trovano alcun riscontro scientifico.
La presenza del deficit cognitivo aumenta l’importanza di modalità di ascolto particolarmente attente. Analizzando i numerosi interrogatori a cui il ragazzo è stato sottoposto, sia in sede di assunzione delle sommarie informazioni testimoniali (intervista affidata ai compagni di classe, audioregistrata e presente agli atti; l’ascolto telefonico prima, e di persona poi, operato da un prete amico di famiglia, intervista videoregistrata da intercettazioni ambientali e presente agli atti; i plurimi ascolti operati dalla polizia giudiziaria), sia in sede di incidente probatorio, emergono invece carenze ed errori metodologici, che pongono forti dubbi circa la qualità del materiale testimoniale raccolto.
La considerazione vale per la sequenza stessa delle “interviste” cui il minore affetto da ritardo mentale è stato sottoposto (lo si legge sin dalle prime pagine della motivazione della sentenza di primo grado): prima della denuncia una serie di conversazioni con alcuni coetanei; una conversazione con un sacerdote; due esami condotti da una psicoterapeuta e una psichiatra infantile su richiesta della famiglia; prima dell’incidente probatorio un’ulteriore conversazione con il sacerdote, assunzione di s.i.t. da parte della polizia giudiziaria; all’«incidente probatorio psicodiagnostico» seguono esami da parte dei pubblici ministeri e infine l’esame dibattimentale.
L’imputato viene condannato alla pena di otto anni di reclusione, confermata in appello; a circa nove anni di distanza dai fatti la sentenza diviene definitiva a seguito della dichiarazione di inammissibilità del ricorso in Cassazione.
Conclusioni
Quando si affronta il delicato tema della testimonianza di un minore presunta vittima di abuso e/o violenza, ci si rende immediatamente conto che la raccolta delle sue dichiarazioni e la valutazione della sua competenza a rendere testimonianza, sono compito tutt’altro che semplice e che non si può improvvisare.
Periti e consulenti chiamati ad adempiere a tale incarico, dovrebbero quindi vantare esperienza e formazione psicoforense specifica. La delicatezza della materia, e le importanti ripercussioni che le rivelazioni di un minore possono avere sulla vita di tutti gli attori coinvolti − presunta vittima, indagato/imputato, familiari − impongono ai magistrati una scelta attenta e oculata degli specialisti. Anche su questo punto la Carta di Noto non omette di fornire importanti indicazioni: «È diritto delle parti processuali, in occasione del conferimento di ogni incarico peritale, interloquire sull’effettiva competenza dell’esperto e sul contenuto dei quesiti» (art. 2); «In tema di idoneità a testimoniare del minore le parti e gli esperti si assicurano che i quesiti siano formulati in modo da non implicare giudizi, definizioni o altri profili di competenza del giudice» (art. 3).
Si deve osservare che mentre sulla seconda questione l’art. 226 cpp ammette un’interlocuzione delle parti, sulla questione dell’«effettiva competenza» del perito (e del consulente) non sono previsti strumenti processuali tipici di contestazione o invalidità degli atti compiuti con manifesta incapacità, rimanendo la questione rimessa alla valutazione finale del magistrato.
Fondare la scelta di esercizio dell’azione penale o un giudizio di responsabilità penale sulla sola testimonianza di un minore o di un soggetto sensibilmente suggestionabile, quando tale prova è stata definitivamente defraudata del suo potere probatorio attraverso ascolti suggestivi, è un’illusione che andrebbe abbandonata, percorrendo la via dell’umiltà e del riconoscimento dei limiti dell’indagine psicoforense, che non sempre ha gli strumenti e le conoscenze per fornire ai magistrati le risposte attese, o per colmare l’eventuale assenza di ulteriori e necessari elementi probatori.
Sarebbe quindi auspicabile che anche i quesiti dei magistrati fossero in linea con le reali possibilità e i concreti limiti di periti e consulenti, limitando la loro domanda alla valutazione delle capacità generiche e specifiche di rendere testimonianza della presunta vittima, abbandonando richieste improprie circa l’attendibilità, la credibilità clinica e la presenza di inesistenti [4] «vissuti compatibili con possibili abusi a sfondo sessuale».
[1] Società italiana di criminologia; Società italiana di medicina Legale; Società italiana di neuropsichiatria infantile; Società italiana di neuropsicologia; Società italiana di psichiatria; Società di psicologia giuridica.
[2] Carta di Noto, giugno 2011
- Art. 13: «I sintomi di disagio che il minore manifesta non possono essere considerati come “indicatori” specifici di abuso sessuale, potendo derivare da conflittualità familiare o da altre cause, mentre la loro assenza non esclude l’abuso».
- Art. 16: «Quando sia formulato un quesito o prospettata una questione relativa alla compatibilità tra quadro psicologico del minore e ipotesi di reato che abbiano visto lo stesso vittima di violenza anche sessuale, è necessario che l’esperto rappresenti, a chi gli conferisce l’incarico, che le attuali conoscenze in materia non consentono di individuare dei nessi di compatibilità od incompatibilità tra sintomi di disagio e supposti eventi traumatici. L’esperto non deve esprimere, sul punto della compatibilità, pareri né formulare conclusioni».
Linee guida in tema di abusi sui minori messe a punto dalla Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (SINPIA)
«Non esiste una sindrome clinica “caratteristica” ed identificabile legata specificamente all’abuso sessuale. I disturbi psichici ad esso legati, che compaiono peraltro incostantemente ed in funzione dei fattori di rischio presenti e delle modalità (durata, intensità) con cui l’abuso è stato compiuto, possono corrispondere ad un ampio repertorio di risposte comportamentali comune anche ad altre condizioni cliniche (principio di equifinalità) (Fergusson e Mullen, 1999). Non esistono indici comportamentali ed emotivi patognomonici di abuso sessuale; in un'elevata percentuale di casi non si manifestano condotte problematiche. L’impatto di un abuso sessuale può variare qualitativamente e quantitativamente in funzione di variabili particolari (vedi 1.2). La letteratura segnala che gli effetti a lungo termine dell’abuso sessuale restano ancora indefiniti e non chiariti da sufficienti ricerche longitudinali (Finkelhor e Berliner, 1995; Ramchandani e Jones, 2003). Inoltre, in letteratura non esistono pareri concordi e studi che dimostrino l'esclusività di una o più condotte come criterio diagnostico. Questi indici possono essere riscontrati anche in minori che hanno subito traumi o stress familiari/ambientali di natura non sessuale. È quindi necessaria una particolare cautela prima di identificare un comportamento come possibile “indicatore” di una condizione di abuso».
[3] Carta di Noto
- Art. 10: «La funzione dell’esperto incaricato di effettuare una valutazione sul minore a fini giudiziari deve restare distinta da quella finalizzata al sostegno e trattamento e va pertanto affidata a soggetti diversi. (...) in ogni caso i dati ottenuti nel corso delle attività di sostegno e di terapia del minore non sono influenti, per loro natura, ai fini dell’accertamento dei fatti che è riservato esclusivamente all’autorità giudiziaria”.
- Art. 11: «L’assistenza psicologica al minore va affidata ad un operatore specializzato che manterrà l’incarico in ogni stato e grado del procedimento penale. Tale persona dovrà essere diversa dall’esperto e non potrà comunque interferire nelle attività di indagine e di formazione della prova».
- Art. 13: «I sintomi di disagio che il minore manifesta non possono essere considerati come “indicatori” specifici di abuso sessuale, potendo derivare da conflittualità familiare o da altre cause, mentre la loro assenza non esclude l’abuso».
- Art. 16: «Quando sia formulato un quesito o prospettata una questione relativa alla compatibilità tra quadro psicologico del minore e ipotesi di reato che abbiano visto lo stesso vittima di violenza anche sessuale, è necessario che l’esperto rappresenti, a chi gli conferisce l’incarico, che le attuali conoscenze in materia non consentono di individuare dei nessi di compatibilità od incompatibilità tra sintomi di disagio e supposti eventi traumatici. L’esperto non deve esprimere, sul punto della compatibilità, pareri né formulare conclusioni».
Linee Guida Nazionali
- Art. 3.1: «Il ruolo dell’esperto riguarda, in primo luogo, la valutazione della capacità di testimoniare del bambino. Per questo motivo non vanno utilizzate dall’esperto espressioni come “attendibilità” e “credibilità” perché potenzialmente fuorvianti».
- Art. 3.2: «All’esperto non può essere demandato il compito – non delegabile perché di esclusiva competenza del Giudice – di accertare la veridicità di quanto raccontato dal bambino. Non possono essere egualmente formulati pareri per “validare” scientificamente contenuti della testimonianza (o parti di essa). Non esistono, difatti, “indicatori” psicologici, testologici o comportamentali in tal senso».
- Art. 4.3: «Le evidenze scientifiche non consentono di identificare quadri clinici riconducibili a specifica esperienza di vittimizzazione, né ritenere alcun sintomo prova di un’esperienza di vittimizzazione o “indicatore” di specifico traumatismo. In definitiva non è scientificamente corretto inferire della esistenza di sintomi psichici e/o comportamentali, pur rigorosamente accertati, la sussistenza di uno specifico evento traumatico».
Linee guida SINPIA
Non esiste una sindrome clinica “caratteristica” ed identificabile legata specificamente all’abuso sessuale.I disturbi psichici ad esso legati, che compaiono peraltro incostantemente ed in funzione dei fattori di rischio presenti e delle modalità (durata, intensità) con cui l’abuso è stato compiuto, possono corrispondere ad un ampio repertorio di risposte comportamentali comune anche ad altre condizioni cliniche (principio di equifinalità) (Fergusson e Mullen, 1999). Non esistono indici comportamentali ed emotivi patognomonici di abuso sessuale; in un'elevata percentuale di casi non si manifestano condotte problematiche. L’impatto di un abuso sessuale può variare qualitativamente e quantitativamente in funzione di variabili particolari (vedi 1.2). La letteratura segnala che gli effetti a lungo termine dell’abuso sessuale restano ancora indefiniti e non chiariti da sufficienti ricerche longitudinali (Finkelhor e Berliner, 1995; Ramchandani e Jones, 2003). Inoltre, in letteratura non esistono pareri concordi e studi che dimostrino l'esclusività di una o più condotte come criterio diagnostico. Questi indici possono essere riscontrati anche in minori che hanno subito traumi o stress familiari/ambientali di natura non sessuale. È quindi necessaria una particolare cautela prima di identificare un comportamento come possibile “indicatore” di una condizione di abuso.
Protocollo di Venezia
Il punto 8, recita «fatta eccezione per le situazioni di rilevante gravità psicopatologica dei minori, è consigliato l’avvio di un percorso terapeutico solo dopo l’acquisizione della testimonianza in sede di incidente probatorio. In ogni caso, l’attività clinica, nelle fasi precedenti l’acquisizione della prova testimoniale, deve esulare dalla raccolta delle dichiarazioni dei minori relative al presunto abuso sessuale».
Punto 9: «Gli esperti che svolgono il ruolo di periti, consulenti tecnici di tutte le parti processuali, ausiliari di polizia giudiziaria e i professionisti che, comunque, intervengano sul caso, non possono esprimersi sull’accertamento di nessi causali, di correlazioni e/o della cosiddetta compatibilità fra condizioni psicologiche dei minori e accadimento dei presunti abusi. In nessun caso, comunque, devono pronunciarsi in merito all’accertamento dei fatti oggetto di denuncia».
[4] Linee guida di settore e letteratura internazionale in materia di abuso sessuale all’infanzia si esprimono chiaramente circa l’inesistenza di una sintomatologia psicologica e comportamentale riconducibile ad una esperienza di abuso sessuale subito.