La nuova prescrizione entrerà in vigore subito (o meglio, 30 giorni dopo la pubblicazione della riforma penale in Gazzetta ufficiale), ma per “apprezzarne” gli effetti sulla repressione della corruzione bisognerà aspettare più o meno una decina d’anni.
Le modifiche appena varate dal Parlamento si applicheranno soltanto ai fatti commessi (non scoperti, ma commessi) dopo l’entrata in vigore della riforma penale in cui sono contenute. Quindi, non anche ai processi in corso: governo e maggioranza hanno escluso espressamente di anticiparne l’operatività, anche soltanto ai procedimenti non ancora giunti alla sentenza di primo grado, come pure era stato ipotizzato. Una scelta radicale, secondo i magistrati discutibile e foriera di incertezze interpretative, ma che comunque rimanda a un futuro medio-lungo la percezione degli effetti (positivi?) delle nuove norme.
È il paradosso di una riforma prendere o lasciare, che di più proprio non si poteva fare in un panorama politico frammentato a livello di governi, coalizioni e persino di partiti; digerita a fatica anche dai tanti che l’hanno votata; considerata un pannicello caldo dai magistrati; combattuta a suon di scioperi dagli avvocati penalisti convinti che allungherà i tempi del processo.
Meglio di niente, si son detti, però, in quel di Parigi, e probabilmente anche a Bruxelles e a Vienna (forse non a Strasburgo), ovvero là dove l’Italia è stata “processata” per anni a causa dell’inadeguatezza delle norme contro la corruzione, a cominciare da quelle sulla prescrizione. Lì il bicchiere lo vedono mezzo pieno e anzi hanno temuto che venisse svuotato del tutto da una coalizione politica che – con poche eccezioni – avrebbe volentieri fatto a meno di questa riforma, rinviandola a un “poi” politico sempre promesso ma mai arrivato.
Ovviamente, del paradosso della nuova prescrizione dovranno tener conto tutti gli organismi internazionali. Come l’Ocse, che dopo anni di sorveglianza speciale sull’Italia proprio per la mancanza di una modifica strutturale della prescrizione ha valutato positivamente la riforma penale. Approvata – e forse non è un caso – sia al Senato (15 marzo) sia alla Camera (14 giugno) il giorno prima che a Parigi si riaccendessero i riflettori sul nostro Paese, per anni destinatario di raccomandazioni per implementare l’armamentario preventivo e repressivo contro la corruzione.
Il varo definitivo della riforma ha spento quei riflettori fino al 2020. L’Italia sembra avere le carte in regola, almeno secondo l’Organizzazione parigina. Per i prossimi due anni e mezzo, quindi, il Governo – anche quello che uscirà dalle urne – non avrà il fiato dell’Ocse sul collo, sebbene non tutte le raccomandazioni siano state attuate, a cominciare da quella sull’aumento delle sanzioni pecuniarie per le persone giuridiche, su cui si concentrerà la prossima verifica.
Tuttavia, la concreta efficacia della riforma penale dipenderà dai tempi e dalle modalità con cui verrà attuata.
Del resto, è sempre l’attuazione di una legge a misurare la reale volontà di cambiamento di chi l’ha approvata. Perciò l’Ocse non abbassa mai del tutto la guardia. E perciò saranno indicativi i prossimi passi del Governo, visto che la riforma contiene ben 6 deleghe da esercitare, molto ampie e su temi sensibili, tecnicamente e politicamente, che vanno dalle intercettazioni alle impugnazioni passando per il carcere.
Tra le norme immediatamente operative c’è invece quelle sulla prescrizione, anche se da qui al 2020 (data della prossima verifica Ocse) è impossibile che le statistiche registrino gli effetti che dovrebbero derivarne. Ovviamente, al netto delle altre misure acceleratorie del processo contenute nella riforma, che secondo governo e maggioranza dovrebbero contribuire anche a scongiurare o limitare le prescrizioni. Norme che hanno suscitato polemiche – come quelle sulla cosiddetta “indagine breve” – ma che sono state mantenute proprio in virtù della loro funzione acceleratoria.
In teoria, quindi, i relativi effetti sul contrasto alla corruzione potrebbero percepirsi in tempi più rapidi rispetto a quelli delle norme sulla prescrizione, che si preannunciano quasi biblici. Altrimenti potrebbe essere un problema. Per esempio, visto da Strasburgo.
Nel frattempo, c’è da augurarsi che finisca il balletto dei numeri sulle prescrizioni – in funzione delle emergenze, vere o presunte, e delle contingenze politiche o giudiziarie – e che dati, statistiche e analisi restituiscano una fotografia reale dell’esistente per poter misurare l’impatto delle nuove norme. Si dice, ma non si fa.
L’ultima foto ufficiale sulle prescrizioni risale alle statistiche ministeriali inviate in Cassazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2017. E conviene fissarle.
Nel 2014 le prescrizioni sono state 132.859; 132.739 nel 2015. Nella relazione del Primo presidente, poi, si trova il dato 2016, pari a 139.488 prescrizioni. Che, però, diventano 145.637 nelle slide illustrate dal ministero a fine maggio, in occasione di un convegno sulla giustizia organizzato dal Movimento 5 Stelle.
Comunque sia, in quelle slide è anche documentato il trend negativo delle prescrizioni, in costante aumento dal 2012 in tutte le fasi del processo. Anche in Cassazione, sebbene i dati si limitino al periodo 2015-2016, nei quali i reati prescritti sono passati da 677 a 767 (è però rimasta invariata l’incidenza sui processi perché la Corte ha prodotto più sentenze).
Quanto al che cosa si prescrive di più al Palazzaccio, in testa ci sono “i reati contro il patrimonio diversi dai furti” (passati da 113 a 173) seguiti da quelli in materia di stupefacenti. Poi vengono i delitti contro la Pa (diminuiti da 86 a 67), senza però specificare quali, all’interno di questa categoria, si sono estinti più degli altri.
Interessante, al riguardo, un “documento riservato” della Direzione generale di statistica del ministero della Giustizia, risalente a un anno fa, sull’incidenza della prescrizione nei reati contro la Pa (pari al 12,5%, che sale al 13,2% per i reati societari: al di sopra della media generale del 9,5%). Tra i delitti prescritti nel periodo 2010-2014 non figura (non è neppure citata) l’induzione indebita, “figlia” dello spacchettamento della concussione introdotto con la legge 190/2012. Eppure, l’induzione è stato l’unico reato per il quale la pena fu clamorosamente ridotta, da 12 a 8 anni, con conseguente riduzione della prescrizione, da 15 a 10 anni (tant’è che solo ora è stata ricalibrata in aumento). Trattandosi di norma più favorevole, si applicava ovviamente ai processi in corso, in molti dei quali la concussione inizialmente contestata è stata riqualificata come induzione. Con inevitabili conseguenze sulla prescrizione: in Cassazione cominciarono quasi subito a contare decine e decine di processi prescritti. E ancora ne contano.
Ma il dato non emerge da nessuna statistica ministeriale. Ed è un altro paradosso della prescrizione, lunga o corta che sia.
La trasparenza e l’affidabilità dei dati, nonché delle analisi, sono condizione essenziale per confezionare buone leggi, che vadano oltre dei buoni titoli. E per costruire politiche – anche sulla corruzione – non sulle sabbie mobili della demagogia ma sulle solide fondamenta di progetti coerenti.
Donatella Stasio