Il 15 dicembre 2016 la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata sul caso Khlaifia e a. c. Italia, condannando il nostro Paese per la violazione degli artt. 5 § 1, 5 § 2, 5 § 4 CEDU e 13 CEDU in relazione all’art. 3 CEDU.
I fatti oggetto del caso si sono svolti all’epoca della grande ondata di sbarchi di migranti avvenuta sull’isola di Lampedusa nel 2011, ma le questioni sollevate dai ricorrenti, così come i principi affermati dalla Grande Camera, sono più che mai rilevanti per l'attuale gestione “dell’emergenza migratoria” che le istituzioni dell'Unione europea e gli Stati membri sono chiamati ad affrontare anche oggi. In particolare, la pronuncia che ci si appresta ad esaminare chiama in causa il c.d. approccio Hotspot, adottato dall’Italia nel quadro delle azioni immediate previste dall’Agenda europea per le migrazioni (Circ. Min. Interno 06.10.15) e le procedure di espulsione negoziate dagli accordi tra Italia e gli Stati extra–europei.
1. I fatti
I ricorrenti sono tre cittadini tunisini giunti in Italia con un’imbarcazione di fortuna nel 2011, all’indomani delle cosiddette “Primavere arabe”, che hanno interessato alcuni Paesi nord–africani[1]. I ricorrenti, intercettati in mare dalla guardia costiera italiana, erano stati condotti presso il Centro di Soccorso e Prima Accoglienza (CSPA) dell'isola di Lampedusa dove erano stati trattenuti per qualche giorno in condizione di privazione della libertà personale. A seguito di un incendio che aveva parzialmente danneggiato il Centro, i tre migranti erano stati trasferiti a bordo di navi ormeggiate nel porto di Palermo, dove erano stati confinati per ulteriori giorni, insieme a centinaia di altri migranti, prima di essere condotti all'aeroporto della stessa città, da dove, alla presenza del console tunisino, erano stati rimpatriati in Tunisia.
2. Le violazioni lamentate e il giudizio della Camera
I ricorrenti hanno lamentato numerose violazioni davanti alla Corte EDU. In primo luogo, la violazione dell'art. 5 CEDU, per essere stati privati della propria libertà personale in assenza dei presupposti legali (art. 5 § 1), per non aver ricevuto alcuna comunicazione circa le ragioni del loro trattenimento (art. 5, § 2) e per non aver avuto la possibilità di contestare la legittimità di tale privazione di libertà (art. 5 § 4). In secondo luogo, hanno lamentato la violazione dell'art. 3 CEDU, per essere stati trattenuti in condizioni inumane e degradanti sia nel CSPA di Lampedusa che a bordo delle navi ormeggiate nel porto di Palermo. In terzo luogo, hanno lamentato la violazione dell'art. 4, prot. 4, CEDU, per essere stati vittime di un'espulsione collettiva perché, conformemente all’accordo bilaterale tra Italia e Tunisia, il loro rimpatrio è avvenuto sulla sola base della nazionalità senza che fosse valutata la loro situazione personale. Infine, hanno sollevato la violazione dell'art. 13 CEDU con riferimento a tutti i precedenti profili di censura, per non aver potuto beneficiare di un efficace rimedio giurisdizionale interno contro tali violazioni convenzionali. La Grande Camera ha esaminato il caso a seguito della richiesta di rinvio presentata dal Governo italiano avverso la sentenza resa dalla Camera (Seconda sezione) il primo settembre 2015. In quell’occasione i giudici avevano riconosciuto le violazioni dell’art. 5, §§ 1, 2 e 4, CEDU. Inoltre, avevano accolto in parte le doglianze relative all’art. 3 CEDU e integralmente quelle relative all’art. 4, prot. 4, CEDU.
3. La sentenza della Grande Camera. I profili di violazione del diritto alla libertà personale dei ricorrenti (§§ 55–108, §§ 109–122, §§ 123–135 della sentenza)
Come la Seconda sezione, la Grande Camera ha riconosciuto all’unanimità la violazione dell’art. 5 §1, §2 e §4 CEDU sia per quanto concerne il periodo trascorso dai ricorrenti nel CSPA di Lampedusa che per quello trascorso sulle navi attraccate nel porto di Palermo. La Corte ha rilevato, in primo luogo, l’assenza di idonea base legale per il trattenimento dei ricorrenti, constatando che nessuna norma di diritto interno consentiva la privazione di libertà nei Centri di prima accoglienza come quello ove erano stati detenuti i ricorrenti. In particolare, secondo la legge italiana sull'immigrazione, la detenzione degli stranieri è possibile solo all'interno dei CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) in costanza di ipotesi tassative (quali le ipotesi in cui un provvedimento di respingimento o di espulsione non possono essere attuati immediatamente, perché è necessario fornire assistenza allo straniero, o effettuare ulteriori controlli sull’identità, oppure occorre aspettare i documenti di viaggio o la disponibilità di un vettore). Inoltre, la Corte ha precisato che neppure l'accordo bilaterale di riammissione degli stranieri, firmato tra l'Italia e la Tunisia nell’aprile 2011, poteva fornire una base giuridica adeguata per la detenzione dei ricorrenti, poiché esso non conteneva alcun riferimento alla privazione di libertà e comunque il suo testo integrale non era stata reso pubblico ed era quindi non accessibile alle ricorrenti (§ 102 –103).
La Corte ha ricordato che, al fine di determinare se una persona è stata privata della libertà, il punto di partenza deve essere la situazione concreta, e si deve tener conto di tutta una serie di criteri quali il tipo, la durata, gli effetti e le modalità di attuazione della misura in questione (§ 64). Per quanto riguarda il caso di specie, la Corte ha rilevato che sia le parti, sia i rapporti ufficiali redatti dall'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa e dalla Commissione Speciale per i Diritti umani del Senato italiano avevano confermato che il Centro di accoglienza era sotto sorveglianza e che ai migranti non era concesso di allontanarvisi (§ 65). Lo stesso ragionamento vale per il trattenimento che i ricorrenti hanno subito sulle navi, che il Governo considerava «una naturale estensione del Centro di accoglienza» (§ 66–69). In secondo luogo, la Corte ha rilevato che la privazione della libertà non ha avuto un’insignificante durata: infatti, sommando il periodo trascorso all'interno del CSPA di Lampedusa e quello a bordo delle navi, il confinamento è durato per circa dodici giorni nel caso del primo ricorrente e circa nove giorni nel caso del secondo e del terzo ricorrente (§ 70). Infine, i giudici hanno sottolineato che né la classificazione che il diritto interno attribuisce a una misura privativa della libertà né il dichiarato scopo delle autorità di intervenire per la protezione del migrante o per la tutela della sua sicurezza, possono alterare la valutazione sulla natura costrittiva delle misure imposte (§ 71).
Per quanto riguarda art. 5 § 2, avendo riscontrato che la detenzione dei ricorrenti non aveva alcuna base giuridica chiara e accessibile nel diritto italiano, la Corte non ha ritenuto possibile che le autorità avessero informato i ricorrenti sulle ragioni giuridiche che fondavano il loro trattenimento o gli avessero fornito informazioni sufficienti per consentire di contestare i motivi della misura privativa della libertà davanti a un giudice (§ 117). Nonostante fosse plausibile che i tre ricorrenti fossero a conoscenza del loro status di migranti irregolari, non vi era alcuna prova che gli stessi avessero ricevuto alcuna specifica informazione in ordine ai presupposti ed alla durata del trattenimento.
Dalla violazione dell’obbligo informativo è discesa, secondo la Corte, la conseguente violazione del diritto a un ricorso effettivo (art. 5 § 4 CEDU): la GC ha affermato che, poiché i migranti non erano stati informati sulle ragioni poste alla base della loro detenzione, il diritto di ricorrere contro tale misura era comunque privo di ogni contenuto effettivo (§ 132). Pertanto, ad avviso della Corte, la decisione in punto di art. 5 § 2 CEDU costituisce motivo sufficiente per concludere che il sistema giuridico italiano non ha fornito ai ricorrenti un rimedio efficace per contestare la legittimità della privazione della libertà (§ 133). Va tuttavia messo in luce che, nella parte della sentenza dedicata alla violazione dell'art. 5 § 1, la Corte aveva già rilevato l’inesistenza di rimedi interni efficaci, sostenendo che, dal momento che il CSPA di Lampedusa e le navi erano formalmente considerate strutture di accoglienza, i ricorrenti non avevano potuto godere delle garanzie di habeas corpus applicabili al trattenimento amministrativo che a norma di legge si svolge nei CIE, vale a dire della convalida giurisdizionale prevista dal nostro ordinamento (§ 105).
4. I profili di violazione dell’art. 3 CEDU: il divieto di trattamenti inumani e degradanti (§§ 136–211 della sentenza)
Rispetto alla violazione dell’art. 3 CEDU, la Grande Camera ha ritenuto che sia nel corso della detenzione che si era svolta nel CSPA di Lampedusa, che nel corso di quella che si era svolta sulle navi attraccate nel porto di Palermo, i ricorrenti non avevano sofferto un trattamento inumano e degradante ai sensi della Convenzione. Tale situazione ha dunque ribaltato parzialmente il giudizio di primo grado, nel quale la Camera aveva riconosciuto la violazione dell’art. 3 CEDU con riferimento alla privazione di libertà dei ricorrenti nel Centro lampedusano.
In via generale, pur ribadendo il carattere assoluto dell'articolo 3 CEDU, la Grande Camera ha al contempo valorizzato l’eccezionalità della situazione generale che si era determinata con gli sbarchi del 2011 (§ 185). Secondo i giudici le innegabili difficoltà e i disagi patiti dai ricorrenti erano derivati in misura significativa dalla situazione di estrema difficoltà che le autorità italiane si erano trovate a fronteggiare (§ 185).
In particolare, per quanto riguarda il trattenimento nel CSPA, la GC ha ritenuto che il trattamento subito dai ricorrenti non aveva superato il livello di gravità necessario al riconoscimento della violazione convenzionale (§§ 190–198). La Corte è pervenuta a tale conclusione valorizzando i seguenti elementi: il report della sotto–commissione dell’Assemblea generale del Consiglio d’Europa che dà conto di una situazione “decent although very basic” del Centro lampedusano all’epoca della visita effettuata; il dato relativo al sovraffollamento del Centro nel periodo di riferimento, stimato approssimativamente in una percentuale del 75%, che tuttavia era associato ad una seppur minima libertà di movimento all’interno del CSPA; la soggettiva condizione di non speciale vulnerabilità dei ricorrenti, i quali pur essendo migranti (e come tali soggetti riconosciuti vulnerabili dalla Corte) non erano né richiedenti–asilo, né anziani, né minori; la breve durata del trattenimento (tre o quattro giorni); l’assenza di violenze e maltrattamenti direttamente subite dai tre ricorrenti.
Per quanto riguarda il trattenimento a bordo delle navi ormeggiate a Palermo, come la Camera, la GC ha concentrato la propria valutazione sulpiano prettamente processuale. I giudici non hanno considerato sufficienti le prove portate dai ricorrenti e, d’altro canto, non hanno ritenuto che l’onere probatorio spettasse al Governo (§ 206). Come noto, la giurisprudenza di Strasburgo in materia di art. 3 CEDU prevede a carico dei ricorrenti il rigoroso onere della prova delle violazioni lamentate, salvo le ipotesi nelle quali il soggetto sia stato preso in custodia dall’Autorità in buone condizioni di salute e ne sia uscito in condizioni deteriori, incombendo, in quel caso, sullo Stato l’onere di fornire convincenti spiegazioni rispetto a quanto accaduto nel periodo di custodia. Nel caso di specie, la Corte ha attribuito peso determinante ad un provvedimento di archiviazione del GIP di Palermo che, contraddicendo nella sostanza quanto affermato dai ricorrenti, si basava sulla dichiarazione che un parlamentare italiano aveva rilasciato alla stampa all’esito della sua visita sulle navi, nella quale egli affermava che i migranti fossero in buone condizioni.
5. La violazione dell’art. 4, prot. 4, CEDU: il divieto di espulsioni collettive (§§ 212–255 della sentenza)
La Grande Camera, riformando il giudizio espresso dalla Camera, non ha ritenuto sussistente la violazione della dell’art. 4 del protocollo 4 della Convenzione.
La Corte ha ricordato anzitutto che, secondo la propria giurisprudenza, il significato del termine espulsione collettiva è da intendersi come qualsiasi misura di rimpatrio che riguardi un gruppo di stranieri, che non sia basata su un ragionevole e obiettivo esame dei casi individuali (§237). Lo scopo di questa disposizione è quello di evitare che gli Stati membri possano rimpatriare gli stranieri arbitrariamente senza esaminare la loro situazione personale e quindi senza consentire loro di far valere le proprie ragioni avverso i provvedimenti di rimpatrio adottati dalle autorità competenti (§ 238).
Il fatto che nel caso di specie i provvedimenti di respingimento fossero redatti in termini del tutto omogenei, con la sola diversificazione di dati personali del migrante destinatario, e che un gran numero di persone della stessa provenienza geografica fosse stato espulso contestualmente, non porta a ritenere automaticamente integrata la violazione dell’art. 4 prot. 4 CEDU (§§ 239 e 251). La Corte ha infatti rilevato che i ricorrenti erano stati sottoposti in due occasioni a identificazione: la prima, avvenuta subito dopo il loro arrivo nel Centro di accoglienza, operata delle autorità italiane; la seconda, all’aeroporto, operata dal console tunisino prima che i tre migranti fossero imbarcati sul volo per Tunisi.
Rispetto alla prima identificazione, i ricorrenti hanno dedotto che le autorità italiane avevano semplicemente registrato le loro identità e le impronte digitali, senza prendere in considerazione la loro situazione personale; il Governo invece ha sostenuto che l'identificazione era consistita in un vero e proprio colloquio individuale, effettuato in presenza di un interprete o di mediatore culturale, a seguito del quale era stato compilato un “foglio informativo” contenente i dati personali e le circostanze che riguardavano la situazione individuale di ciascun migrante. Anche se il Governo italiano non è stato in grado di produrre tali fogli informativi relativi ai ricorrenti (né analoga documentazione relativa ad altri migranti), la Corte ha ritenuto attendibile la sua versione dei fatti, considerando in particolare plausibile che tali documenti fossero stati distrutti dal fuoco divampato nel Centro di accoglienza (§ 246).
Inoltre, la Corte ha sottolineato che, prima di salire sugli aerei per Tunisi, i ricorrenti erano stati ricevuti dal Console tunisino e che tale circostanza aveva concesso loro un'ulteriore possibilità di sollevare argomenti contro l’espulsione (§ 250).
Particolarmente significativo risulta il passaggio motivazionale in cui la GC ha affermato, a livello generale, che l'articolo 4, prot. 4, CEDU non garantisce il diritto a un colloquio individuale in tutte le circostanze: le prescrizioni di tale disposizione, infatti, possono comunque essere soddisfatte ogni qualvolta il migrante abbia la possibilità reale ed effettiva di presentare le proprie argomentazioni avverso il provvedimento d’espulsione, e qualora tali argomenti siano esaminati in modo adeguato da parte delle autorità dello Stato membro (§ 248).
Con riferimento al caso di specie, la Corte ha inoltre messo in discussione l'utilità di un colloquio individuale, osservando che non sussistevano secondo il diritto internazionale o nazionale ragioni che avrebbero potuto giustificare la permanenza dei tre ricorrenti sul territorio italiano (§ 253).
6. Il diritto ad un ricorso effettivo: la violazione dell’art. 13 CEDU con riferimento agli artt. 3 CEDU e 4, prot. 4, CEDU (§§ 256–281).
Confermando il giudizio espresso della Camera, la Grande Camera ha riconosciuto la violazione dell'art. 13 CEDU in combinato disposto con l'art. 3 CEDU.
Nonostante la GC abbia negato la violazione sostanziale dell’art. 3 CEDU, ha tuttavia osservato come le doglianze sollevate dai ricorrenti rispetto a tale violazione non fossero manifestamente inammissibili e, partire da tale premessa, ha rilevato l’assoluta mancanza di una autorità cui i migranti avrebbero potuto indirizzare un ricorso efficace relativo alle condizioni del trattenimento svoltosi a Lampedusa e sulle navi (§ 270).
La Grande Camera ha inoltre riformato la sentenza della Camera, escludendo la violazione dell’art. 13 CEDU con riferimento all’art. 4, prot. 4, CEDU, poiché – secondo i giudici – esisteva nell’ordinamento italiano un rimedio potenzialmente effettivo per censurare la legittimità del provvedimento di rimpatrio. La Corte ha ritenuto che la necessità di prevedere un ricorso dotato di effetto sospensivo non debba considerarsi assoluta (§§ 274–281). Basandosi sulla giurisprudenza De Souza Ribeiro c. Francia, Čonka c. Belgio e Hirsi Jamaa e altri c. l'Italia, la GC ha infatti ricordato che l'obbligo per gli Stati di prevedere un ricorso dotato di efficacia sospensiva è strettamente connesso al rischio di subire trattamenti incompatibili con gli artt. 2 e 3 CEDU in caso di espulsione. Nel caso di specie, i ricorrenti non avevano paventato alcun rischio per la vita o l’integrità fisica nel caso in cui fossero stati rimpatriati in Tunisia e dunque il rimedio non doveva necessariamente essere dotato di efficacia sospensiva.
Per quanto concerne la violazione dell’art. 13 CEDU in rapporto all’art. 5 CEDU, la Grande Camera, come la Seconda sezione, ha ricordato che l’art. 5, § 4, CEDU è lex specialis rispetto all’art. 13 CEDU, norma che pertanto non rileva nel caso di specie.
7. Le opinioni concorrenti e dissenzienti.
Alla pronuncia della Grande Camera si affiancano l’opinione concorrente del Giudice Raimondi e le due opinioni dissenzienti dei Giudici Dedov e Serghides. Le opinioni dei Giudici Raimondi e Serghides meritano senz'altro una menzione.
Nella sua opinion il Presidente Raimondi – che era parte della maggioranza che nel giudizio della Camera aveva condannato l’Italia anche per quelle violazioni convenzionali poi non riconosciute Grande Camera – ha esposto le ragioni che lo hanno indotto a mutare avviso da un grado all’altro del giudizio. In particolare, il Giudice ha valorizzato la considerazione attribuita dalla Grande Camera alla situazione di emergenza conseguente all’ondata migratoria del 2011 al fine di escludere la violazione dell’art. 3 CEDU. Rispetto alla violazione all’art. 4, prot. 4, CEDU, il Giudice ha negato la necessità di un colloquio individuale prima del rimpatrio, quando lo straniero abbia comunque avuto la possibilità di far valere le peculiarità del proprio caso. Allo stesso modo, quanto al rispetto dell’art. 13 CEDU in rapporto all’art. 4, prot. 4, CEDU, il Giudice si è allineato alla statuizione della Grande Camera per la quale il ricorso deve avere carattere sospensivo solo nei casi in cui l’espulsione esponga il migrante al rischio di violazioni particolarmente gravi.
Particolarmente articolata e significativa è l’opinione parzialmente dissenziente del Giudice Serghides, dedicata alla violazione dell’Art. 4, prot. 4, CEDU, e dell’art. 13 CEDU in relazione all’Art. 4, prot. 4.
Il Giudice dissenziente ha riconosciuto violazione dell’Art. 4, prot. 4, CEDU, abbracciando un’interpretazione certamente più garantista del divieto di espulsioni collettive. Secondo Serghides, nel caso dei ricorrenti, lo Stato italiano aveva applicato una procedura semplificata derivante dall’accordo bilaterale con la Tunisia, finalizzata proprio ad evitare l’esame individuale dello straniero e basata sulla mera appartenenza nazionale. L’omissione dell’esame individuale deve essere sempre essere considerata una violazione dell’art. 4, prot. 4, CEDU. Tale esame è infatti indispensabile per non rimettere alla sola discrezionalità delle autorità di polizia la conduzione di un vaglio più o meno approfondito. Il giudice ha dunque riconosciuto la natura di obbligo procedurale dell’Art. 4, prot. 4 CEDU, sostenendo che il suo rispetto non può essere subordinato al rischio di violazioni sostanziali degli artt. 2 e 3 CEDU, né tantomeno alla natura legale o illegale dell’ingresso del migrante, a nulla rilevando che i tre ricorrenti fossero “migranti economici”.
Con riferimento al caso di specie, il Giudice Serghides ha affermato che non è stata portata alcuna prova dell’effettiva conduzione di esami individuali nei confronti dei ricorrenti. Il Giudice ha, inoltre, collegato la prova della violazione dell’art. 5, § 2, CEDU, e quella dell’art. 4, prot. 4, CEDU: è infatti poco verosimile che le autorità che non avevano informato i migranti delle ragioni della loro detenzione si fossero invece attivate per informarli sul diritto di far valere le ragioni che si opponevano al loro rimpatrio.
Infine, per quanto concerne il rispetto dell’art. 13 CEDU letto in combinazione con l’art. 4, prot. 4, CEDU, il Giudice dissenziente ha affermato che l’effetto sospensivo del mezzo di ricorso non può essere subordinato alla gravità dei rischi a cui lo straniero andrebbe incontro se espulso in pendenza dell’impugnazione, perché ciò comporterebbe la devoluzione alle autorità amministrative della discrezionalità sulla ragionevolezza delle doglianze proposte dal singolo migrante.
8. Considerazioni critiche
Per la rilevanza delle molteplici questioni affrontate la sentenza Khlaifia meriterà riflessioni più estese di quelle che seguono. In questa sede si ritiene tuttavia opportuno segnalare gli aspetti positivi (pochi) e alcuni nodi controversi (molti) che emergono dalla sua lettura. Il punto di forza della sentenza è rappresentato dalle statuizioni relative all’articolo 5 CEDU, che hanno segnato un evidente progresso rispetto alla tutela della libertà personale dei migranti. Tale pronuncia rappresenta un punto fermo per valutare le prassi di frontiera a cui, ancora oggi, sono sottoposti i migranti che varcano i confini dell’Europa sprovvisti di validi documenti di ingresso. Basti a tale proposito ricordare che nella relazione del 15.12.15, Progress Report on the Implementation of the hotspots in Italy, la Commissione europea ha chiesto espressamente all’Italia di fornire un più solido quadro giuridico delle attività svolte all’interno degli hotspot, in particolare in tema di uso della forza finalizzato al prelievo delle impronte digitali e di ricorso alla detenzione nei confronti di coloro che si rifiutano di rilasciarle. Inoltre, nell’ottobre 2016, Amnesty International ha pubblicato un rapporto in cui ha denunciato, tra l’altro, le pratiche di arbitrary detention realizzate all’interno dei nuovi Hotspot collocati ai confini d’Europa (cfr. Amnesty International, Hotspot Italy. How EU’s flagship approach leads to violations of refugee and migrant rights,p. 26–29).
Il precedente Khlaifia, quanto meno imporrà agli Stati Membri che nelle fasi di pre–admittance fanno ricorso alla privazione della libertà personale come strumento di gestione dei flussi migratori irregolari di adottare (e rispettare) leggi che ne disciplinino in maniera chiara e precisa i presupposti sostanziali e le garanzie procedurali necessarie, con particolare riferimento al diritto all’habeas corpus. La Corte Europea ha infatti stabilito che nessuna detenzione de facto, sottratta a controllo giurisdizionale, è compatibile con lo scopo dell’articolo 5 CEDU, precisando espressamente che ciò vale «even in the context of a migration crisis» (§ 106). Ancora una volta, inoltre, l’approccio sostanzialistico della Corte EDU ha permesso di andare oltre alle etichette – in questo caso oltre al nomen del Centro (Centro di soccorso e prima accoglienza) in cui si svolgeva la detenzione extra ordinem dei migranti – valutando in concreto la condizione di privazione della libertà.
Decisamente meno convincente la parte della pronuncia che la GC ha dedicato alla violazione dell’articolo 3 CEDU, con particolare riferimento al passaggio motivazionale in cui i giudici hanno sottolineato, al fine di valutare il rispetto della Convenzione, la necessità di tenere in considerazione la situazione di emergenza che si era venuta a creare nel 2011 a causa dell’aumento dei flussi migratori all’indomani delle cosiddette “Primavere arabe”. Tale affermazione pare attentare alla natura inderogabile dell’articolo 3 CEDU, oltre che segnare un passo indietro rispetto ai principi affermati nei precedenti M.S.S. v. Belgium and Greece (§ 223) ed Hirsi Jamaa and Others v. Italy (§§ 122,176). Non pare neppure convincente l’argomento secondo cui lo Stato italiano non aveva deliberatamente violato il divieto di trattamenti inumani e degradanti, bensì si era trovato dinanzi all’oggettiva impossibilità di fornire condizioni di accoglienza migliori: proprio le politiche del Governo basate sulle pratiche d’illegittima privazione della libertà personale sanzionate dalla stessa Grande Camera avevano infatti contribuito ad aggravare significativamente le conseguenze dell’emergenza umanitaria in termini di sovraffollamento e cattive condizioni igienico–sanitarie del CSPA di Lampedusa.
Ugualmente problematica risulta la sentenza rispetto alla violazione del divieto di espulsioni collettive di cui all’articolo 4, prot. 4, CEDU ed alla relativa violazione dell’articolo 13 CEDU. Nell’ambito del suo iter motivazionale la Corte ha affermato che il Governo non aveva l’obbligo di condurre interviste individuali, non essendo emerso alcun rischio per la vita o l’integrità fisica dei ricorrenti ai sensi degli articoli 2 e 3 della Convenzione. Tale interpretazione rappresenta, a ben vedere, una interpretatio abrogans della previsione di cui all’articolo 4, prot. 4, CEDU relegato a inutile replica del divieto di refoulement già discendente dagli articoli 2 e 3 CEDU (in base alla giurisprudenza sviluppatasi a partire dal noto caso Soering v. United Kingdom).
I giudici hanno aggiunto che, poiché i ricorrenti sono rimasti tra i nove e dodici giorni in Italia, hanno avuto la possibilità di attirare l'attenzione delle autorità nazionali rispetto al loro diritto di restare (§ 249). Neppure tale argomentazione risulta convincente. A ben vedere, la GC ha di fatto spostato sui migranti la responsabilità di far emergere le peculiarità del proprio caso innanzi alle medesime autorità che li stavano illegittimamente trattenendo, senza adeguatamente valorizzare il fatto che, se i ricorrenti non avevano alcuna possibilità di conoscere le ragioni della propria detenzione e di contestare la legittimità di tale misura innanzi a un organo imparziale, difficilmente avrebbero potuto avanzare argomenti contro la propria espulsione.
Non pare condivisibile neppure l’interpretazione dell’art. 13 in rapporto all’art. 4, prot. 4.
L’interpretazione più convincente dell’art. 4 prot. 4 CEDU sembra invece quella – proposta dai ricorrenti, avallata dalle third parties intervenute nel giudizio innanzi alla Grande Camera (cfr. in particolare §§ 234–236), ed accolta nella dissenting opinion del Giudice Serghides – secondo cui tale disposizione offre una garanzia di tipo procedurale, che come tale prescinde dalla situazione concreta del singolo ricorrente. Pertanto, l’unico rimedio interno efficace ai sensi dell’art. 13 CEDU per contrastare la violazione di tale garanzia procedurale è necessariamente quello che prevede un effetto sospensivo dell’espulsione, a prescindere da ogni prognosi in merito al contenuto delle dichiarazioni che egli avrebbe potuto rendere alle autorità, nonché da ogni valutazione in merito alla natura di “safe country” del paese di destinazione.
Tale interpretazione, oltre che essere coerente con la lettera e la sistematica della Convenzione, è l’unica in grado di mettere al riparo i migranti senza validi documenti da possibili abusi e decisioni arbitrarie da parte delle autorità di frontiera: in quest’ottica, dunque, sembra che la Corte di Strasburgo abbia perso un’importante occasione per imporre un elevato livello di tutela dei diritti fondamentali nell’ambito dell’attuale crisi migratoria che caratterizza il contesto europeo.
[1] L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha calcolato che nei primi nove mesi del 2011 le persone arrivate via mare a Lampedusa sono state più di 55.000, per metà di nazionalità tunisina, per metà provenienti dalla Libia