L’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati Politici (UNHCR), nel 2012, ha proposto delle linee guida per l’interpretazione giuridica e le modalità di valutazione delle domande di riconoscimento dello status di rifugiato da parte di organi amministrativi e/o giurisdizionali, qualora tali istanze riguardino protezione a causa di orientamento sessuale.
Qui, tra l’altro, si legge: “A seconda della situazione nel paese d’origine, la presenza di leggi che sanzionano penalmente le relazioni tra persone dello stesso sesso è solitamente indice del fatto che non viene garantita protezione alle persone LGBTI. Laddove il paese d’origine mantenga leggi di questo tipo, è irragionevole aspettarsi che il richiedente cerchi la protezione statale contro ciò che, secondo quanto stabilisce la legge, rappresenta un reato. In queste situazioni, in assenza di prove che indichino il contrario, si dovrebbe ritenere che il paese in questione non possa o non voglia proteggere il richiedente”.
La Corte di Appello di Bari, nella pronuncia n. 299/13 che si allega (Pres. dott. V. Scalera, Rel. dott. V. Gaeta) ha fatto un uso corretto ed attento, non solo dei principi fondamentali che la legislazione comunitaria e nazionale disegna intorno alla credibilità dei richiedenti protezione internazionale, ma, anche, delle prassi che in materia dovrebbero accompagnare la attività di organi ed istituzioni pubbliche, dal momento dell’arrivo sino al successivo momento dell’integrazione dell’asilante, ivi comprese le fasi della sua personale audizione.
Conseguentemente ha riconosciuto lo status di rifugiato politico ad un cittadino del Gambia dichiaratosi omosessuale sulla base di una serie di circostanze presuntive della soggettiva credibilità dell’istante e di analisi di elementi oggettivi quali, innanzitutto, la legislazione penale del citato Paese (che, all’art. 144 del codice penale, considera “contro l’ordine della natura” le relazioni omosessuali, prevedendo una pena sino a 14 anni di reclusione per chi le pratica).
Non è questa la sede per affrontare le problematiche che circondano il richiedente protezione e relative alla mancanza di idonei servizi sociali di presa in carico di una persona comunque fragile; neanche è il caso, ora, di sottolineare i dispositivi di controllo e di potere che circondano il richiedente protezione e quanto questi influiscano sulla sua capacità di confrontare il proprio vissuto, intimo prima che doloroso, con soggetti (Questure, commissioni, traduttori, ma anche avvocati e giudici) che, per quanto preparati, sono e saranno quasi sempre degli estranei con i quali la tempistica voluta dalla legge non consente di instaurare un reale rapporto conoscitivo ed umano.
Dovrebbe essere evidente, tuttavia, che non è semplice trovare la strada per raccontarsi innanzi a tali dispositivi, per liberarsi da angosce spesso pluriennali, quando non da torture e sfruttamenti.
Anche per questo a livello normativo la cd. direttiva qualifiche approvata dall’UE nel 2004 e modificata nel 2011 (l’atto di refusione è la Direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13.12.2011, http://www.meltingpot.org/IMG/pdf/Direttiva_ue_95_2011_qualifiche.pdf), dispone che “qualora taluni aspetti delle dichiarazioni del richiedente non siano suffragati da prove documentali o di altro tipo, la loro conferma non è comunque necessaria” se il richiedente dimostri di avere compiuto “sinceri sforzi per circostanziare la domanda”, di avere forniti tutti gli elementi a sua disposizione per verificarne la credibilità, di avere rilasciato dichiarazioni “coerenti e plausibili” (cfr. art. 4, par. 5. Si veda, anche, art. 3, co. 4, D.Lgs 251/07 di recepimento).
Difatti, solo così si può bilanciare adeguatamente con la realtà il principio giuridico dell’onere della prova in capo a chi, normalmente, afferma l’esistenza di un diritto come il richiedente asilo.
Solo in tale modo si comprende che tale onere, concretamente, grava anche e forse innanzitutto sull'Autorità amministrativa, prima, e sull'Autorità giudiziaria, poi, organi che devono ricercare gli elementi di verosimiglianza delle dichiarazioni rese dai richiedenti protezione internazionale (cfr. Corte Cass., Sezioni Unite civili, sentenza n. 27310/08).
E’ ovvio, infatti, che chi fugge da una persecuzione o da un timore di danno grave non cerca, nella fuga, di precostituirsi prova del suo timore o della sua persecuzione, quanto, solitamente, di sopravvivere!
In questo sentire la lettura della Corte merita un plauso, in quanto si è concretamente calata nella difficoltà in cui si trova il richiedente asilo.
Si comprende, dunque, come mai la Corte si sia trovata a dovere ribaltare integralmente il giudizio tanto della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Bari (competente in via amministrativa all’esame della domanda), quanto del Tribunale di Bari in composizione monocratica, poi.
Essi, difatti, avevano negato qualsivoglia protezione al richiedente, ordinandone il rientro in patria. A loro vedere il ricorrente sarebbe stato vittima di un conflitto interno alla propria famiglia di origine, un fatto squisitamente privato, non avendo subito concrete persecuzioni da parte di organi statuali e non risultando il reato effettivamente punito nella prassi gambiana.
Tanto hanno affermato nonostante il Gambia, come su ricordato, punisca penalmente un atto di libertà individuale, punisca chi agisce comportamenti ritenuti “contro natura”.
La vicenda costituisce, dunque, un interessante spunto di riflessioni in merito ad alcune dirimenti questioni che ci si trova ad affrontare studiando questa materia.
Questioni che, va detto, la Corte territoriale ha ben tenuto presente: la valutazione in ordine alla credibilità del richiedente protezione, desunta anche in base a riferimenti esterni alla fase processuale; la oggettività del pericolo di persecuzione cui lo stesso sarebbe andato incontro in caso di rientro nel proprio paese.
E’ evidente, poi, che, nel caso non vengano riconosciute come parte del tessuto sociale vivo di un Paese le principali pratiche di relazione tra individui, la credibilità della persona costituisce presupposto dell’accertamento dell’identità e della scelta sessuale, difficilmente potendo sussistere elementi probatori certi di una scelta individuale che non necessariamente si tende a manifestare in contesti ostili.
Quasi sempre la testimonianza del richiedente omosessuale costituisce l’unica fonte di prova certa e diretta dei fatti, non differentemente da quanto avviene per chi ha subito torture di tipo psicologico o fisiche non cicatrizzate.
D’altronde imporre (o anche solo suggerire) lo svolgimento di test medici di qualsivoglia natura al fine di accertare pratiche e/o comportamenti sessuali può senz’altro definirsi comportamento discriminatorio e contraria al rispetto dei diritti umani e della dignità individuale.
Quanto alla credibilità del richiedente, allora, il Collegio di merito sottolinea gli aspetti determinanti di un giudizio presuntivo al fine di poterla valutare serenamente.
Nel fare questo la Corte, espunge dalla propria analisi ogni riferimento a dati non immediatamente percepibili dalla vittima in quanto ricadenti nella sfera di volontà di terzi (persone e/o istituzioni che siano).
Circa la oggettività del pericolo la Corte sottolinea come la mera esistenza di una norma punitiva di pratiche omosessuali in quanto “innaturali”, anche indipendentemente dalla concreta persecuzione subita dal singolo, costituisce grave motivo di compromissione della libertà personale.
Peraltro, in un contesto omofobico come quello sviluppato dai discorsi del Presidente del Gambia, tale lesione può straripare immediatamente in grave pericolo individuale.
La particolarità della decisione che si allega è nell’avere correttamente individuato i termini del problema vissuto dalle persone LGBTI anche nel caso in cui esse siano perseguitate non direttamente da soggetti statuali, bensì da gruppi familiari e/o sociali in un certo contesto istituzionale.
Si afferma, in tali casi, che l’eventuale richiesta di protezione agli organi statali avrebbe potuto (anche solo in ipotesi) eliminare il pericolo.
Non farlo sarebbe, ancora, elemento dal quale evincere la strumentalità della richiesta si protezione internazionale.
Ma all’interno di un ambito sociale e culturale che perseguita, esclude, non da ingresso ad un individuo o un gruppo sociale a causa dell’orientamento sessuale (o, al limite, per altre ragioni), lo Stato e le sue istituzioni dovrebbero potere dare piena copertura alla libertà personale, incoraggiandola e, comunque, tutelandola.
Nel caso in cui, invece, in un determinato Paese una certa pratica e/o idea attinente la libertà personale ed un diritto fondamentale siano oggetto di penale e formale repressione, si attesta la impossibilità di un effettivo accesso alla giustizia e, per converso, si testimonia la contiguità dello Stato con una discriminazione per ragioni attinenti la sfera sessuale che, tanto più oggi, non può certo tollerarsi.
La sentenza barese è importante.
Parla del merito di una questione, delinea un metodo di analisi, tracima gli argini della specificità portata all’esame della giustizia e va portata ad esempio dell’attenzione che meritano le istanze di protezione internazionale allorquando al cittadino straniero “sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”.
Perché, in tale caso, egli “ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica”.