L’onere della toga, scritto da Lionello Mancini (noto giornalista de “Il Sole 24 ore”) e pubblicato nel mese di giugno per i tipi della BUR, racconta frammenti della vita professionale di cinque magistrati sconosciuti ai più, lontani dalle luci della ribalta, poco attraenti per la stampa, spesso interessata soltanto a chi abbia trattato casi considerati eccellenti.
Resta nell’ombra l’operato di tanti magistrati che impegnano la loro quotidianità ad affrontare e risolvere una miriade di casi giudiziari, densi di riflessi sulla vita di molti cittadini.
Non casualmente parto da questa considerazione: penso infatti (e Mancini lo sottolinea nella introduzione al libro) sia essenziale trovare un equilibrio tra diritto di informare (e di essere informati), e, dall’altro, garantire il corretto spazio allo svolgimento della funzione giudiziaria.
Va tenuto conto, in tale valutazione, che per tramite della stampa la collettività forma la propria opinione (anche) circa i fatti di rilevanza giudiziaria ed è quindi di intuitiva importanza la cernita di una notizia, veicolata attraverso la macchina informativa.
Questo tema è molto delicato, richiede cura, attenta riflessione ed è indubbiamente stimolante il parallelo che propone Mancini.
Egli, da profondo conoscitore del mondo giudiziario, individua una chiara analogia tra giornalista e pubblico ministero, in quanto, allo stesso modo in cui, ricevuta una notizia di reato, compete all’organo d’accusa verificarne la fondatezza, analogamente al giornalista è fatto obbligo di effettuare ogni controllo in merito alla notizia ricevuta, prima di provvedere alla sua pubblicazione.
Gli interessi in gioco sono di pari rango ed entrambi si attuano attraverso poteri caratterizzati dalla loro diffusività.
Mancini incentra la propria attenzione sulla figura e la funzione del pubblico ministero, con la quale spesso viene erroneamente identificata la stessa giurisdizione: di fatto, il pubblico ministero è indiscusso protagonista dell’agone mediatico.
Molteplici ragioni possono essere individuate alla base di questa tendenza: l’Autore, tra le molte, ritiene che l’(eccessiva) esposizione mediatica del ruolo dell’Accusa Pubblica, in Italia, derivi da una sorta di patologica delega (Mancini utilizza l’espressione, molto efficace, di iper-delega) che, da tempo, viene indirettamente affidata da altri poteri dello Stato alla giurisdizione.
Quasi a segnare la volontà di invertire questa tendenza, egli si occupa di pubblici ministeri normali, laboriosi, riflessivi, impegnati in processi di ordinaria criminalità, nella difficoltà di tradurre l’astratto dettato di una norma, in un processo che, possibilmente, individui i responsabili ma accettando il rischio che il colpevole non venga trovato.
Individuare un responsabile, se ed ove il magistrato abbia a propria disposizione le prove della colpevolezza: è un punto nodale, all’apparenza banale, soprattutto per chi abbia pratica delle aule di giustizia ma sul quale non bisogna stancarsi di insistere e Mancini, che nella propria carriera giornalistica ha avuto modo di entrare in stretto contatto con la realtà giudiziaria, sa perfettamente non essere scontato.
La riflessione cade proprio su questo tema, quando racconta la storia di Lucia Musti, il pubblico ministero che si occupò del rapimento, purtroppo seguito dalla morte, di un bambino in tenera età.
Ad un certo punto, si pone questo interrogativo: “..Può un magistrato mettere qualcuno in cella per agire sull’inevitabile disorientamento o farlo schiattare di paura per poi torchiarlo venti ore filate? Può, tutto questo, avvenire sulla base di congetture – per quanto plausibili – e di un indizio che potrebbe significare dieci cose diverse? No, questo non può e non deve accadere se il magistrato è esperto e non si fa prendere dall’ansia. Se riesce a non farsi forzare la mano dalla Polizia giudiziaria”.
La risposta è chiara: quanto ipotizzato, non può e non deve accadere.
Ancora, con forza e determinazione, Mancini lo ripete, quando racconta della storia di Marco Ghezzi: “Ci vogliano coraggio e forza d’animo per non dare in pasto alla folla indignata o spaventata le condanne esemplari che reclama; per negare le incarcerazioni invocate dal popolino ..”.
Certamente si tratta di professionalità, di rispetto delle regole, sostanziali e processuali ma, sottolinea l’Autore, è pure questione di sensibilità ed equilibrio, nella necessità di fare prevalere, anche nei complicati rapporti con i propri collaboratori, la visione d’insieme del magistrato il quale viene messo in guardia dall’imboccare invitanti scorciatoie che, talvolta in perfetta buona fede, talaltra in modo non proprio trasparente, gli vengono proposte.
Affiora, nell’impianto del libro, una concezione della magistratura in perfetta linea con l’assetto costituzionale, ove giudici e pubblici ministeri debbono farsi carico, lontani da spinte e motivazioni che competono e debbono competere esclusivamente ad altri organi dello Stato, soltanto della corretta applicazione della legge vigente, attenti a non cedere alle lusinghe del consenso, provenga esso dall’esterno del mondo giudiziario, ma anche, più insidiosamente, immanente alla macchina della giustizia.
Pubblici ministeri che vivono con semplicità, con entusiasmo, con difficoltà, ma sempre con normalità l’impegno cui attendono, nella volontà, sembra suggerire Mancini, di costruire un Paese finalmente ordinario dove a nessuno siano richieste imprese eccezionali, dove sia venuta finalmente meno la necessità di eroi, e dove, invece, ciascuno con il proprio bagaglio di esperienze, di cultura, professionalità, nell’esclusivo interesse dello Stato, sia chiamato a lavorare per la legalità.
Legalità che – la vicenda di Fabio Di Vizio che si trova ad indagare sui rapporti opachi tra banche italiane e sanmarinesi è emblematica – spesso difetta in ambiti insospettabili, al cui interno è difficile entrare e dove i meccanismi di auto-protezione (illecita) si frappongono a chiunque abbia il dovere di accedere.
Meccanismi striscianti, sofisticati che richiedono all’investigatore la capacità di organizzare efficacemente la propria attività e di individuare collaboratori esterni capaci ed affidabili, alla cui attività professionale spesso si connettono le sorti di una indagine.
Selezionare periti e consulenti non è lavoro di poco conto cui non sempre, tuttavia, viene prestata la dovuta attenzione da parte dei magistrati.
Mancini, saggiamente, evidenzia anche questo profilo, quando si occupa dell’indagine svolta da Di Vizio sulle banche di S. Marino, sottolineando pure l’importanza di lavorare con una polizia giudiziaria capace e, soprattutto, coesa nelle sue articolazioni o, ancora, potere contare sulla leale collaborazione di altre istituzioni dello Stato (nella specie, la Banca d’Italia).
E questa sinergia, sottolinea Mancini, è tanto più necessaria, quanto le indagini attingano fenomeni criminali complessi, evoluti e raffinati, come insegna l’esperienza di Alessandra Dolci alla Procura della Repubblica di Milano, dove non avrebbe mai pensato di doversi occupare di ‘ndragheta, e nel cui ambito, grazie al lungimirante coordinamento da parte di due magistrati, a capo dell’antimafia dei distretti milanese e reggino (Ilda Boccassini e Giuseppe Pignatone), è stato possibile sciogliere intricate matasse criminali.
La collaborazione tra autorità giudiziarie, l’organizzazione che si impone, in un lavoro sempre più spesso d’ équipe, trova spazio nell’ultimo capitolo ma, per il vero, attraversa tutta la sua narrazione.
Cuno Tarfusser la cui esperienza, a capo della Procura della Repubblica di Bolzano, diventa motore di un vero e proprio fenomeno palingenetico all’interno della magistratura, è protagonista del capitolo conclusivo, significativamente dedicato al tema organizzativo.
A proposito di magistrati e magistratura normale, Mancini si occupa di chi ha cercato di rimediare, con la forza della normalità, a lacune, storture, inefficienze della macchina giudiziaria italiana ed ha tentato, riuscendovi – come dimostra pure il riconoscimento internazionale ottenuto, ISO 9001 – di migliorare l’assetto gestionale dell’ufficio dove lavorava come dirigente.
Tarfusser, i magistrati e tutto il personale della Procura della Repubblica di Bolzano hanno avuto il merito storico, secondo Mancini, di dimostrare che il rinnovamento è possibile: l’ottimismo della volontà ha dato i propri frutti.
Il merito è consistito soprattutto nell’avere segnato una via, che, raccolta dal Ministero di Giustizia con il progetto Best Practices – Fondo Sociale Europeo – ha offerto una chance di cambiamento a tutti gli uffici giudiziari selezionati attraverso una apposita procedura.
L’esperienza di Bolzano ha tradotto in realtà il saggio adagio secondo cui, una volta diffuse, le idee diventano patrimonio comune, appartengono, possono e debbono essere realizzate da tutti coloro che le condividono e possono costituire davvero la spinta verso il cambiamento che molti si auspicano.
La narrazione si chiude con questa nota di ottimismo, e, pur non facendo mistero delle difficoltà di cui la via del cambiamento è lastricata, apre squarci di sereno di cui tutti, credo, abbiano disperato bisogno.