1. Considerate il magistrato.
Un magistrato qualunque: giudicante, requirente; ordinario, militare, amministrativo; giovane, anziano; dirigente, subordinato; di legittimità, di merito.
Considerate il suo lavoro: interpretare leggi.
Se anche ritenete eccessivo supporlo mediamente intelligente, fategli il credito di ammetterlo dotato di un passabile istinto di conservazione, fatalmente alimentato da quello che sa fare meglio e che è abituato a fare più spesso: interpretare leggi.
Considerate la Costituzione italiana.
Anche il magistrato la considera. Dopotutto, è una legge anche quella.
La Repubblica è fondata sul lavoro. Lo tutela in tutte le sue forme e applicazioni. E’ suo compito rimuovere gli ostacoli che impediscono la partecipazione dei lavoratori all'organizzazione del Paese. I lavoratori, a loro volta, hanno diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del loro lavoro e, per di più, sufficiente ad assicurare a loro e alle loro famiglie un'esistenza libera e dignitosa. La legge determina (non è che possa determinare: determina) i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica sia indirizzata a fini sociali. Il diritto di sciopero è riconosciuto, così come il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende.
Anche se non arrivate a ritenerlo mediamente intelligente, sappiate che il magistrato sa. Sa che quella Costituzione, nei suoi principi fondamentali, e in una maniera che è difficile immaginare più esplicita, ha affermato che la Repubblica è sorta, esiste ed è legittimata a sopravvivere solo in quanto realizzi il principio per il quale il lavoratore, chi ha solo sangue, nervi, braccia, muscoli e mente per sopravvivere, deve essere posto nella condizione di sfuggire al bisogno per quel tanto che gli consenta d’interagire con la società, di dedicarsi alla cosa pubblica, di uscire dal circolo vizioso della dipendenza, del debito, dell’alternanza ininterrotta di sonno e lavoro, della precarietà esistenziale che genera solo paura, risentimento, servilismo, rinuncia.
Nei decenni che hanno seguito l’entrata in vigore della Costituzione taluni hanno liquidato questi principi come il frutto malriuscito di un compromesso; altri ne hanno tratto orgoglio e speranza; altri ancora si sono battuti perché venissero smentiti dai e nei fatti, quanto più fosse possibile. Nessuno (in questo senso il piduista piano di rinascita democratica è paradigmatico) ha però mai dubitato che il dato di realtà con il quale confrontarsi fosse questo: per la Costituzione, l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, l’Italia è lavoro, ed è dei lavoratori.
Dopo una transizione che oggi possiamo affermare definitivamente compiuta (ma quanto è durata: dieci, quindici, venti anni?) il dato di realtà si è ribaltato.
L’Italia (e non solo l’Italia) si è data (e si è lasciata dare), di fatto ma incontrovertibilmente, un ordinamento del quale il principio supremo è quello della negazione radicale della titolarità di diritti in capo al lavoratore; un ordinamento nel quale il lavoro non può definirsi una merce solo perché la merce riceve uno statuto decisamente migliore. Nel nome di una pseudo-ideologia settaria, fondata su taluni pretesi, indimostrati dogmi macroeconomici, e sulla funzionalizzazione della dignità umana alla conservazione di posizioni monopolistiche, la libertà dalla paura, dal debito e dal bisogno dei lavoratori (lavoratori tra i quali devono includersi funzionari, quadri, dirigenti, ricercatori, personale laureato) diviene mera variabile dipendente di ciò che veramente conta: lo scioglimento da ogni vincolo nell’impiego dei capitali, la protezione della ricchezza dalla domanda di solidarietà sociale e dall’alea del mercato.
I principi fondamentali della Costituzione devono venire letti, se si vuole stare al passo coi tempi, in un senso esattamente opposto a quello che qualunque persona sensata attribuirebbe al suo testo.
2. E considerate ancora la Costituzione.
La sovranità appartiene al popolo. La Repubblica consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni. La sua bandiera è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni.
Anche se non arrivate a ritenerlo mediamente intelligente, sappiate che il magistrato sa. Sa che la sovranità si trova in uno stato di caotico flusso, un gas sfuggito a qualunque contenitore. Non appartiene più all’Italia, e non appartiene ancora all’Unione europea. Nei luoghi pubblici, e senza che la Costituzione venisse modificata, esibiamo una nuova bandiera, accanto alla prima, a rimarcare con la potenza dei simboli questa transizione in divenire, quasi impossibile ma quasi ineluttabile, sommamente complessa e sommamente necessaria.
Che lo scioglimento della Repubblica Italiana nella statualità europea dell’avvenire venga bramata o temuta, che la sua prospettiva sia fonte di esaltazione o di raccapriccio, che lo stato federale europeo appaia un dolce sogno o un incubo, questo è il dato di realtà: siamo troppo lontani dalla sponda dalla quale siamo salpati, e non vediamo, né sappiamo dove si trovi e quale aspetto abbia davvero, quella verso la quale siamo diretti. I tempi, i modi, l’esito e il costo della transizione ci sono sconosciuti, e senz’altro non dipendono più solamente, e forse neppure in misura significativa, dal volere del popolo italiano sovrano, espresso nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Sappiate che il magistrato lo sa. Sa che ha giurato sulla Costituzione italiana, ma sa anche che tra dieci, venti anni, l’accredito del suo stipendio potrebbe arrivare da quello che oggi chiamiamo ancora estero, "sovranazione", "eurounità", ad oggi un confuso ed ineguale multilivello di diritti e doveri che lega inquietantemente la sovranità effettiva e i diritti, anche quelli fondamentali, alla conformità ad un paradigma finanziario-economico-industriale che si è rivelato, peraltro, irrimediabilmente perdente nella sua aspirazione a sostituire il principio di efficacia a quello di democraticità.
Considerate un’altra volta la Costituzione.
E’ antiautoritaria, proscrive il partito fascista, è profondamente, essenzialmente democratica. Il suo disegno istituzionale si risolve in un’accurata, fitta rete di protezione dalla concentrazione del potere, dalla violazione delle libertà fondamentali. E’ la promessa che la voce di tutti (e dei lavoratori, senza i quali quei tutti divengono irrimediabilmente un nulla) potrà essere articolata senza limiti irragionevoli e potrà farsi potere, in una trama ordinamentale che aborre lo stra-potere, il pre-potere, il super-potere.
Anche se non arrivate a ritenerlo mediamente intelligente, sappiate che il magistrato sa. Sa che questa Costituzione sta svanendo, insieme alle prime due.
La cancellazione della voce libera dei lavoratori - che sono, anche numericamente, la grande maggioranza degli italiani - priva le garanzie fondamentali del sostrato che solo può conferirgli effettività, sostanza viva e giustificazione storica. Lo smarrimento della sovranità svuota le garanzie formali, e in sua assenza il sostanzialismo ideologicamente imperante diviene sopraffazione, mentre l’ossessione effettivista si converte in cinismo dei vincitori, incarognimento dei rapporti sociali, abbruttimento dei vinti.
L’Europa nella quale viviamo oggi non solo ha promosso, nei fatti, il principio della inesauribile comprimibilità dei diritti del lavoro (con ciò smentendo il carattere effettivamente costituzionale e supremo del principio dell’art. 1 della Costituzione), ma continua a tollerare nel suo seno degli autoritarismi sempre meno nascosti con una pacatezza che, a fronte dell’insensato furore punitivo scatenato a suo tempo contro la democratica Grecia, rea di avere denunciato l’ideologismo economicista, rende avvertiti del fatto che i baluardi a tutela del carattere liberale e democratico dei nostri regimi stanno venendo meno, proprio quando ve ne sarebbe il maggior bisogno, almeno dalla fine del secondo conflitto mondiale.
Considerate una nazione nella quale le leggi elettorali mutano quasi ad ogni elezione.
Considerate una nazione nella quale, venuto meno dopo sessant’anni un bipolarismo tutto sommato assai prevedibile, la galassia politica, priva dell’ancoraggio ad una sovranità effettiva e partecipata, deturpata dal globalismo a-democratico, si scompone e ricompone incessantemente in un plasma indecifrabile, dove attori politici vecchi e nuovi vedono le loro fortune mutare in tempi rapidissimi, senza apparente spiegazione, in un teatro la cui drammaticità è temperata solo dall’irrilevanza alla quale l’espropriazione di sovranità relega lo svolgimento delle trame.
3. E considerate di nuovo il magistrato. Un magistrato qualunque.
Anche se non arrivate a ritenerlo mediamente intelligente, sappiate che il magistrato sa. Sa, alla luce di queste considerazioni - ovvie, se solo ci si pensa un poco -, di non potere fare assegnamento sulla stabilità del regime costituzionale vigente. Ritiene che le fortune dei partiti dominanti, di maggioranza come di opposizione, la direzione della dinamica effettiva delle forze sociali, il carattere democratico o meno del regime nel quale opererà, e persino il soggetto al quale farà capo la sovranità effettiva ed ultima, siano incognite che l’attuale stato di rovinosa, vorticosa, spietata transizione istituzionale e costituzionale sottraggono alla vista di chiunque non sia un allucinato, un folle, un temerario o un opportunista privo di scrupoli.
Schierarsi, prendere partito, impegnare la propria parola nell’arena pubblica, anche nei limitati e composti modi che gli sono propri, sarebbe oggi per il magistrato il colmo dell’autolesionismo. Egli non ha nulla da guadagnare, e tutto da perdere. Il suo calcolo esistenziale, l’economia del ciclo di vita che gli è propria, il suo habitus, lo portano a cercare di tutelare il proprio capitale reputazionale in una prospettiva pluridecennale.
Anche se non arrivate a ritenerlo mediamente intelligente, sappiate che il magistrato sa che l’attuale momento storico dell’Italia assomiglia, fortunatamente senza le sue centinaia di migliaia di morti e con un assai minore peggioramento delle condizioni morali e materiali della popolazione, all’interregno tra la caduta del fascismo e le prime elezioni repubblicane, nel quale tutto e tutti, nel loro destino e finanche nella loro sicurezza esistenziale, erano ridotti a poste di una partita dal finale imprevedibile.
Un’avvedutezza anche assai dozzinale, propria anche di chi non arriva ad essere mediamente intelligente, dovrebbe insomma spingere oggi il magistrato, con l’irresistibile forza propria dell’ovvia convenienza personale, al disimpegno, all’ostentazione la più sfrontata possibile di un’assoluta neutralità valoriale, dell’indifferenza, della tecnicità intransigente e incorrotta del suo lavoro. Inutile, dannoso, folle, sciocco, costoso e sterile schierarsi adesso, mentre partigiani, alleati, nazisti e repubblichini si scambiano ancora colpi di mitraglia, distintamente udibili dall’interno del palazzo di giustizia, e nessuno può prevedere chi di loro, alla fine, resterà in città ad occupare il municipio e la caserma, e solo il cielo sa quale bandiera, quale ritratto si dovranno sistemare nelle aule d’udienza, nei luoghi di rappresentanza.
Insomma, da qualche anno, e chissà per quanti altri anni ancora, ritenere che il magistrato politicizzato possa rappresentare un pericolo apprezzabile ha più o meno la stessa sensatezza del chiedere alla prima persona che s’incontra per strada se abbia per caso visto dei soldati cartaginesi in giro per la città.
Lo illustra, tra le altre cose, l’esito del recente referendum che, in un’indifferenza irridente e quasi vertiginosa verso quell’arca dell’alleanza di ogni sentimento antimagistratuale che avrebbe dovuto essere, e da sempre si pretende che sia, la separazione delle carriere (attuata comunque pochi giorni dopo, a immediato e plateale dispetto del risultato referendario), ha gridato lo sfinimento di qualsiasi pubblico, di qualsiasi tendenza, verso la questione.
Il magistrato che, in buona o in mala fede, intenda fare politica attraverso la propria funzione, il magistrato politicizzato, insomma, è un anacronismo e, più ancora, una sciocchezza, in quanto le condizioni che ho cercato di tratteggiare rendono pressoché impraticabile, prima ancora che un’attività politica magistratuale - qualsiasi cosa si voglia intendere con questa espressione -, l’attività politica nell’accezione più ampia e generale dell’espressione. Imbrigliato dalla camicia di forza delle centurie pan-economiciste; diluito nella scomoda navette, mai uguale a se stessa, tra livelli di governo nazionale e sopranazionale; tetanizzato dallo scontro sotterraneo con l’internazionale neo-autoritaria; insidiato da una criminalità organizzata interna ed internazionale che in questo vuoto di potere trova alimento; il circuito virtuoso tra tempo sottratto ai bisogni essenziali, crescita di una coscienza sociale, partecipazione, voto, dialogo istituzionale, sovranità costituzionale, scelta valoriale e indirizzamento condiviso delle attività d’interesse pubblico è bloccato e improduttivo. Parteciparvi è futile e, prima ancora, non conviene. Metterci la propria faccia, nell’unica prospettiva che possa interessare al magistrato in quanto tale, quella che si snoda nella continuità di una vita ‘istituzionale’, è una scommessa quasi sicuramente persa in partenza, a meno che non si sia così incoscienti da ritenersi in grado di anticipare l’imprevedibile, o così disperati da imbarcarsi insieme ad avventuristi improvvisati, dediti alla scorribanda estemporanea.
4. Quanto precede, però, nulla toglie alla duplice constatazione per la quale i rapporti istituzionali tra poteri elettivi e magistratura (e altre istituzioni di garanzia, relativamente distanziate dal circuito della rappresentanza) stanno virando verso frizioni assai pericolose, e a queste frizioni non è estranea una perdita di autorevolezza - volendo essere più specifici: di capacità di resistenza all’entropia istituzionale generalizzata - della magistratura che, se non è determinata dal fenomeno della politicizzazione, deve in ogni caso trovare una spiegazione ulteriore rispetto a quanto fin qui illustrato.
Chiamerò questo fattore esplicativo ulteriore "politicazione".
La politicazione della magistratura quasi nulla ha a che vedere con la politicizzazione.
In considerazione della polisemia del termine politicizzazione devo chiarire che con esso, ai fini di questo scritto, intendo due fenomeni distinti, seppure in qualche modo affini:
I. l’intenzione, l’illusione o la necessità (diversi commentatori, anche autorevoli, su questo non riescono a trovarsi in accordo) di promuovere determinate posizioni ricostruttive dell’ordinamento attraverso l’inevitabile discrezionalità insita nell’interpretare il dato normativo in sede giurisdizionale, rispettando i vincoli imposti dal principio di separazione dei poteri, dal sistema gerarchico delle fonti, dal diritto internazionale, dal diritto eurounitario e dalla Costituzione, e in conformità con i requisiti essenziali dell’onestà intellettuale e professionale nel campo del diritto;
II. L’intenzione, l’illusione o l’opportunità (non la necessità) di promuovere determinate posizioni ricostruttive dell’ordinamento attraverso l’inevitabile discrezionalità insita nell’interpretare il dato normativo in sede giurisdizionale onde promuoverne una particolare lettura, anche forzando, se ritenuto necessario, il principio della separazione dei poteri, il sistema gerarchico delle fonti, i parametri che definiscono l’onestà intellettuale e professionale nel campo del diritto (le restanti possibili trasgressioni sono votate ad un quasi inevitabile e rapido fallimento).
Il primo fenomeno è essenziale all’esercizio dell’attività giurisdizionale nel nostro ordinamento, sebbene vi sia chi ritiene che nell’attività interpretativa possa farsi completa astrazione del proprio vissuto, della propria formazione culturale, delle proprie opzioni giuridiche (si tratta di una posizione che riflette un nobile idealismo, o una spudorata ipocrisia: laddove rifletta un atteggiamento sinceramente idealistico mi riferirò ad essa come al "neutralismo").
Il secondo fenomeno, la politicizzazione "in senso stretto", è evidentemente incompatibile con i doveri deontologici del magistrato. Se, come pure talvolta accade, non è espressione di una tendenza espressa dai vertici della magistratura (si pensi alla prima "inattuazione" della Costituzione negli anni 1948-1956) vi si ovvia facilmente attraverso le impugnazioni, la nomofilachia e, nei casi più gravi, la sanzione disciplinare e l’intervento del legislatore.
Entrambe le manifestazioni della politicizzazione del magistrato presuppongono che egli coltivi delle opzioni culturali, dogmatiche, ideali, politiche, sociali, e che per qualche motivo, anche solo per scrupolo di coerenza, sia interessato ad emettere provvedimenti giurisdizionali conformi a queste opzioni.
La definizione che si è data della politicizzazione (nei sensi I e II) è indifferente, lo si sarà notato, nei riguardi dell’attività più propriamente politica del magistrato, quella relativa all’autogoverno della magistratura, al diritto di critica del diritto positivo (sostanziale, processuale e ordinamentale), all’associazionismo giudiziario. Che un magistrato politicizzato nei due sensi che si sono indicati sia interessato anche a tali questioni è generalmente vero, e sovente prenderà posizione in merito ad esse in consonanza con le opzioni che adotta in ambito interpretativo. La questione, d’altronde, non è problematica, in quanto la liceità di quest’ultimo genere di politicizzazione non viene (ancora) negata (in maniera troppo esplicita) da alcuno (ma si ricordi la triste ed imbarazzante vicenda delle critiche levate contro taluni pareri del CSM su disegni di legge).
La politicazione nega il presupposto, che come si è visto è consustanziale alla politicizzazione, per come definita sopra, della coerenza, almeno tendenziale, del magistrato con determinate opzioni interpretative, culturali, ideali.
Il magistrato politicato nega, al pari del magistrato neutralista, la necessità, l’utilità o la stessa possibilità di mantenersi coerente ad un proprio sostrato ideale e culturale che costituisca precondizione di un esercizio della giurisdizione dotato di senso. Tuttavia, a differenza del magistrato neutralista, che rinviene integralmente quel senso in fattori a lui esterni, il magistrato politicato adotta questa posizione perché ritiene che l’attività giurisdizionale non abbia altro fine se non quello di posizionarlo nella condizione volta per volta ritenuta più favorevole alla propria promozione presso quei poteri, formali o informali, che possano contribuire a quella che Nietzsche avrebbe indicato come un’espansione indefinita della propria vita e potenza.
L’incondizionata adesione (sebbene spesso non apertamente dichiarata) del magistrato politicato al principio della sopravvivenza del più forte e della necessità di una rapida soppressione dell’inadatto, lo spinge alla piena identificazione dell’attività giurisdizionale con quella politica in senso stretto, a condizione che per tale si intenda solamente la ricerca del potere quale fine assolutamente esclusivo. Il che, appunto, esclude in radice la necessità, l’utilità e la desiderabilità di qualsiasi coerenza nell’azione svolta, sia nell’esercizio dell’attività giurisdizionale che di quell’attività che si è indicata come politicamente non problematica (autogoverno, critica, associazionismo).
[Alla domanda, che a questo punto è lecito porsi, se la politicizzazione, nei sensi I e II di cui sopra, possa coincidere con, o affiancarsi a un’attività schiettamente politica, la risposta appare essere: in linea di principio no, in quanto l’attività politica è attività libera nel fine e, per quanto qui maggiormente importa, libera nel porsi lo scopo di mutare, anche radicalmente, le fondamenta costituzionali e valoriali, anche sub-costituzionali, dell’ordinamento, ciò che è inammissibile da parte del magistrato; anche limitandosi alla seconda definizione di politicizzazione, la sua praticabilità nell’attuale assetto ordinamentale presupporrebbe comunque la sussistenza di stabili schieramenti politici, idonei a fornire sufficienti garanzie di continuità valoriale in un orizzonte pluridecennale, circostanza sulla cui plausibilità ci si è già espressi].
Il magistrato politicizzato nel primo senso che si è indicato (potremmo definirlo ‘costituzionalmente politicizzato’) ricerca - e contribuisce ad inverare - lo spirito delle leggi nell’ordinamento; il magistrato politicizzato nel secondo senso forza senza onestà il proprio spirito nell’attività interpretativa; il magistrato politicato ritiene che il proprio compito consista, risibile il riferimento allo spirito, nel convertire l’agire giudiziario in un esercizio di ruffianeria e di accumulazione di poste da fare valere in una continua, fluida, amorfa, amorale contrattazione con altri poteri, almeno fino a quando il commercio con questi si palesi conveniente.
5. La lotta condotta negli ultimi trent’anni da una variegata schiera di esponenti delle istituzioni, dell’accademia, delle professioni e della stessa magistratura contro la politicizzazione di quest’ultima non è stata animata, se non nel candore di una assai ristretta minoranza di autentici neutralisti, dall’intento di pervenire ad una (immaginata) a-politicità della magistratura stessa.
Il risultato avuto di mira era, ed è, la politicazione del giudiziario.
Il magistrato politicizzato nel primo senso indicato agisce in piena compatibilità col proprio ruolo costituzionale, in quanto il suo fine non può non coincidere con la promozione di un’interpretazione costituzionalmente orientata, tecnicamente corretta e intellettualmente onesta della normativa che applica, in quegli ambiti nei quali la sua responsabilità implica una misura, legislativamente determinata, e sempre (ulteriormente) limitabile da parte del legislatore (e solo del legislatore) di discrezionalità. In questo senso la politicizzazione costituzionale del magistrato costruisce e costituisce la razionalità del sistema. Laddove la politicizzazione costituzionale, come è naturale che avvenga, discendendo essa da un’attività parzialmente discrezionale, si manifesti in forme diversificate, sotto l’imperio di una misura sufficiente di lealtà costituzionale e di onestà intellettuale confluirà verso un medesimo risultato, non potendo il dialogo - orizzontale, oltre che verticale - tra le corti venire dirottato verso esiti aberranti rispetto ai fondamenti del sistema giuridico.
La politicazione opera attraverso la corruzione, in pratica, e la negazione, in linea teoretica, della lealtà costituzionale e dell’onestà intellettuale del magistrato. E’ politicato il magistrato che sia stato finalmente convinto che il neutralismo e la politicizzazione costituzionale siano puerili indici d’ingenua debolezza, e che la politicizzazione, intesa nel secondo senso indicato, lo imbrigli in una coerenza che, da nichilista radicale, non può che ritenere sciocca e inutile.
La politicazione del magistrato, ormai piuttosto diffusa, è stata conseguita attraverso uno sforzo plurale e pluridecennale, tra l’altro disarticolando quella parte di opinione pubblica in grado di comprendere l’utilità istituzionale di un potere neutro (per quanto ‘costituzionalmente politicizzato’); costruendo un consenso parlamentare intorno alla futilità e alla scarsa convenienza della conservazione di un autentico potere di controllo; ignorando la distinzione tra politica costituzionale e politica infra-costituzionale; sostituendo la fortuna al principio di responsabilità, la comunicazione (nuovo nome della propaganda) all’argomentazione, la sopraffazione al diritto.
Il magistrato, svanito il legame tra la propria lealtà costituzionale, la propria onestà intellettuale, la propria professionalità e le proprie prospettive di riconoscimento sociale, tende a sfuggire all’anomia e ad un senso di frustrata vertigine cognitiva (che discende dal dovere d’impersonare il custode dei valori normativamente consacrati in un universo nel quale le élites tendono ad imporre alle masse il proprio disperato cinismo) ricercando un succedaneo di tale riconoscimento nel favore para-clientelare che l’uniformazione al paradigma della politicazione può temporaneamente e saltuariamente procurargli.
Una volta che il circolo della politicazione abbia raggiunto un grado sufficiente di strutturazione la spirale autodistruttiva accelera progressivamente e, come in una malsana variante del dilemma del prigioniero, sempre più magistrati, sempre più in fretta, avvertiti i segni della politicazione di dirigenti e capicorrente, si convincono dell’inanità e della dannosità del perseverare nella conservazione di un paradigma culturale e valoriale, seppure minimo e, per sfinimento o per meschina prudenza, prendono a politicarsi.
Il magistrato politicato non (ri)conosce onestà intellettuale, perde il rispetto di sé e ripudia, nel suo intimo, il giuramento costituzionale. Egli non ha opzioni; attende che il potere gliele suggerisca, giorno per giorno, questione per questione, decisione per decisione, favore per favore, scambio per scambio. Cessa di rendere un servizio e diviene un servo senza dignità.
La vita associativa e l’autogoverno, nel caso che ci occupa, vengono politicati anch’essi, non appena un numero sufficiente di magistrati politicati aggredisca, attraverso una partecipazione interessata e venale, gli organi della rappresentanza e dell’autogoverno.
Ho creduto di proporre il concetto di politicazione perché, così definito, e definito per contrasto con la molto più celebre politicizzazione, ritengo offra una chiave di lettura della riforma dell’ordinamento giudiziario da poco approvata, che penso non possa venire compiutamente interpretata come una manifestazione delle tensioni tra neutralismo, da una parte, e politicizzazione, dall’altra, bensì dovrebbe riguardarsi come un episodio del perdurante scontro tra neutralismo e politicizzazione costituzionale, da un lato, e politicazione, dall’altro.
Ci si augura che il concetto possa contribuire a meglio interpretare i futuri rapporti tra poteri elettivi e poteri neutri. In questo senso, atteso il sempre maggiore disorientamento e indebolimento dei primi, per le ragioni già illustrate, collegate allo stato di vorticoso flusso costituzionale, dovrebbe attendersi un parossismo del loro tentativo - di cui, appunto, la riforma dell’ordinamento giudiziario è un esempio - di politicare le istituzioni di garanzia, onde assicurarsi una stabilità che, però, appartiene ad un’epoca trascorsa e ad una ancora di là da venire, tentativo nei confronti del quale gli esponenti dei poteri neutri provano difficoltà ad opporre resistenza, e non già perché il progetto della politicazione seduca (si tratta, come illustrato, di un tentativo disperato di ottenere ciò che attualmente non è conseguibile, di un avventurismo anomico), bensì perché la caduta del quoziente di politicizzazione (intesa come capacità progettuale a medio termine, in contrasto con il dadaismo incoerente della politicazione) della politica elettiva e rappresentativa apre la strada a chi intende reprimere e punire sia gli autentici neutralisti che i fautori della costituzionalizzazione dell’azione pubblica.
La politicazione continuerà ad inquinare i rapporti associativi e di autogoverno, almeno fino a quando i magistrati sinceramente neutralisti e quelli costituzionalmente politicizzati non individueranno nei politicati il loro irriducibile avversario ordinamentale, eversore del disegno costituzionale di divisione dei poteri.
Considerate, infine, gli intelligentissimi magistrati che hanno potuto leggere nella costituzione americana la legittimazione delle mammane: la politicizzazione (seppure anti-costituzionale) può spiegare un tale disprezzo del diritto delle donne alla pari dignità umana, all’integrità fisica, all’autodeterminazione, o è utile fare appello alla politicazione?