Una fortuita coincidenza segna l’uscita di questo libro e ne attualizza il contenuto, altrimenti relegato ad un passato di più di trent'anni fa.
Paola Bellone, vice procuratore onorario a Torino, nel 2011 decide di scriverlo, affascinata dalla figura di Bruno Caccia, già procuratore della Repubblica di Torino, unico magistrato del Nord Italia ad essere stato ucciso nel giugno del 1983 dalla mafia. Per quel delitto è stato condannato nel 1992 all’ergastolo un unico uomo, Domenico Belfiore, capo dell'omonima ‘ndrina operante in Piemonte.
Nel dicembre del 2015, inaspettatamente, la procura di Milano ottiene di sottoporre a misura carceraria per quel delitto anche un altro uomo vicino alla ‘ndrina Belfiore: Rocco Schirripa.
Il procedimento a suo carico è ora in corso. La novità processuale è il frutto di laboriose e sottili indagini, tutte da valutare nella sede propria. Però essa ha certamente il merito di riportare alla ribalta pubblica un delitto che sembrava ormai relegato inesorabilmente nel passato remoto, anche se la famiglia dell’ucciso e i suoi colleghi di Torino e Milano non lo avevano mai archiviato o dimenticato. Chi scrive ha vissuto da magistrato a Torino quell’epoca e conserva memoria del senso di tragedia che assalì l’ambiente giudiziario dopo l’omicidio.
Ma questo sentimento non riguardò tutti i magistrati.
Il libro, già nel suo titolo, si dedica proprio a far emergere le contiguità ambientali fra certi magistrati torinesi e uomini di quei contesti delinquenziali in cui venne decisa l’eliminazione di un magistrato sentito come nemico. E allarga lo sguardo ad accusare l’intera magistratura (nelle sue articolazioni di autogoverno e giurisdizione) per non aver sanzionato adeguatamente le deviazioni interne.
La vicenda si cala in una realtà complessa che vede Bruno Caccia, magistrato conservatore, dirigere con fermezza e intransigenza un ufficio che all’epoca era stato o era impegnato in processi di grande portata. Si va dalle indagini sulle Brigate Rosse e Prima Linea (formazioni sbaragliate e portate a quei processi non eccezionali che esse rifiutavano), a quelle sullo scandalo petroli (corruzione di apparati dello Stato, piegati agli interessi dei petrolieri). Da quelle sulla corruzione politica (con tangenti distribuite fra i vari partiti), a quelle sulla delinquenza organizzata mafiosa di origine catanese e calabrese, contesto (quest’ultimo) da cui emergeranno le prove che porteranno alla condanna di Domenico Belfiore per l’omicidio del procuratore.
L’autrice si fa carico di tale complessità. Per ricostruire lo sfondo del delitto, rivisita tutti questi filoni processuali. Con un’analisi che non si limita al già complesso resoconto delle sentenze finali nelle varie vicende, si spinge alla disamina delle intercettazioni acquisite in quei processi e alla raccolta delle testimonianze di tutti i colleghi di Caccia che di lui e di quelle inchieste possono ancora riportare i dati salienti. Confronta, poi, gli articoli giornalistici dell’epoca per cogliere la differente sensibilità dimostrata dai vari organi di stampa rispetto ad un omicidio eccellente.
Non solo. Paola Bellone ricostruisce anche come quei processi celebrati a Torino, apparentemente distinti, fossero stati in realtà avvinti l’uno agli altri: un pm, che aveva sostenuto a Torino l’accusa in aula contro i capi storici delle Br ed è poi diventato procuratore capo di Ivrea, si rivela tanto contiguo alle cosche mafiose da intrattenere con i suoi esponenti rapporti di frequentazione e collaborazione. Lo stesso procuratore di Ivrea raccoglie atti e registra di nascosto colloqui con colleghi e politici, in una orchestrata opera di dossieraggio, al fine di far sospendere, a favore dei politici coinvolti, il processo per le tangenti. Il medesimo procuratore di Ivrea è, con tutta probabilità, l’autore di una lettera anonima indirizzata al nuovo procuratore della Repubblica succeduto a Bruno Caccia, lettera finalizzata a screditare ed annientare l’opera di quei sostituti che dopo l’omicidio avevano continuato ad operare secondo l’esempio di intransigenza e determinazione del loro vecchio capo e a far, invece, le lodi di un aggiunto più malleabile che aveva tentato di succedere a Caccia.
Solo con quest’opera di certosina ricostruzione dell’ambiente della procura della Repubblica di Torino l’autrice riesce a restituire al lettore il ritratto a tutto tondo del magistrato Bruno Caccia. E a identificare con precisione i suoi nemici che ne vollero la morte.
Già le sentenze per l’omicidio emesse nei confronti di Domenico Belfiore dai giudici di Milano erano state nette nell’individuare il movente alla base dell’omicidio. Caccia doveva essere ucciso in quanto costituiva un ostacolo alla disponibilità che altri magistrati assicuravano alle cosche.
Il libro ricostruisce in dettaglio chi erano questi magistrati, come erano stati avvicinati (anche sfruttando la loro frequentazione di un bar che era stato aperto proprio sotto la procura e l’ufficio istruzione), come erano ricompensati della disponibilità che manifestavano (emblematico il caso del magistrato che aveva subito il furto di preziosi e si era rivolto alla cosca per riaverli, e che, davanti all’impossibilità di recuperarli, si era accontentato di riceverne altri), in quali procedimenti avevano agito infedelmente (a volte bloccati da giudici istruttori).
Caccia ostacolava questa collaborazione, facendo argine rispetto ad accomodamenti processuali e a compromessi altrimenti possibili attraverso la disponibilità offerta da tali magistrati. Viene ricordato a mo’ di esempio l’intervento di Caccia presso il presidente della corte d’appello di Torino per non far assegnare un troncone del processo dei petroli alla sezione presieduta da uno di tali magistrati (proprio quello che aveva dato incarico di recuperare i preziosi che gli erano stati rubati, prendendosene poi altri in sostituzione).
Viene ricordato come l’azione di annientamento dei magistrati scomodi da parte della consorteria ‘ndranghetista di Domenico Belfiore non si fosse limitata a Bruno Caccia. Due altri esponenti di quella stessa cosca furono fermati armati mentre erano in attesa sotto l’ufficio istruzione ove operava un giudice istruttore che, avvicinato da un sostituto procuratore presso la cassazione che era andato a raccomandargli un indagato di quella cosca, non solo non aveva seguito il suo consiglio ma ne aveva fatto oggetto di una relazione.
Ma il movente alla base dell’omicidio Caccia è diventato in questi anni ben più complesso rispetto a quello evidenziato dalle sentenze emesse a carico di Domenico Belfiore.
Il libro dà conto delle altre piste investigative che gli inquirenti avevano seguito, non solo subito dopo l’omicidio ma nel corso di questi 30 anni. Si va dalle false rivendicazioni da parte delle Br, all’analisi di alcuni processi che Caccia aveva seguito (come quello relativo alla gestione delinquenziale del milieu ruotante intorno al casinò di Saint Vincent), all’esame di scie che portano alla mafia, alla massoneria e all’eversione siciliane.
L’interesse dell’autrice in questo senso non è solo storico e fine a se stesso. Stimoli a ricercare anche fuori dall’ambiente ‘ndranghetistico di Domenico Belfiore possibili altri concorrenti nel delitto sono infatti venuti agli inquirenti in tutti questi anni, in particolare dai parenti di Bruno Caccia, comprensibilmente inappagati da una vicenda processuale che aveva individuato un solo autore dell’omicidio, quando esso doveva essere invece, all’evidenza, il frutto di una concertazione allargata. Bellone dà conto nel dettaglio di tali piste alternative o collaterali alla ‘ndrangheta calabrese, valorizzando anche documenti depositati nel processo siciliano in corso sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia.
Lì vengono avvicinati all’omicidio Caccia i nomi di Rosario Cattafi, ex militante di Ordine Nuovo e indagato per associazione eversiva mirata alla secessione della Sicilia, che era stato confidente dei servizi segreti e aveva indicato nel catanese Angelo Epaminonda il mandante dell’omicidio e nel processo sul casinò di Saint Vincent il brodo di coltura del delitto. Bellone fa però notare come si tratti di filone probatorio allo stato privo di sbocco processuale: Cattafi è rimasto silente nel processo e non ha affatto confermato e circostanziato le sue indicazioni.
E ancora. Nell’agenda telefonica del procuratore di Ivrea vicino alle cosche torinesi vi era il nome del catanese Gino Ilardo che, da confidente e prima di morire ucciso, aveva rivelato ai carabinieri i legami fra quel magistrato e ambienti malavitosi eversivi e massonici non calabresi ma con buoni rapporti di collaborazione con la ‘ndrangheta.
Tutta materia, questa, in grado di far ipotizzare una diversa zona grigia in cui il delitto Caccia poteva essere stato concepito.
Il merito del libro sta nel dar preciso resoconto di questi filoni inediti rispetto allo scenario fissato nella sentenza di condanna definitiva di Belfiore del 1992. Lo fa tanto lucidamente da ritenere plausibile che alla base dell’omicidio vi possa essere stata una molteplicità di cause convergenti.
Ma il suo merito maggiore, davvero raro, sta nel non cavalcare ipotesi congetturali, rimanendo ancorato ai dati di fatto incontrovertibili, di cui dà sempre preciso resoconto. Così, davanti alla mancanza attuale di sbocchi processuali di quei diversi filoni, sottolinea che solo diverse prove, provenienti da chi potrebbe sapere la verità, sarebbero in grado di aprire effettivi diversi scenari. Scenari che però indica come convergenti e non alternativi rispetto a quello ricostruito con nettezza dalla giustizia milanese.
Non manca infatti di far notare come anche le nuove acquisizioni delle ultime indagini milanesi del 2015 - focalizzate su Rocco Schirripa - riportano sempre e comunque a decisioni tutte interne alla ‘ndrangheta calabrese. Qualunque sia infatti l’esito del nuovo procedimento in corso a Milano, è un fatto che le intercettazioni captate nel 2015 a Domenico Belfiore confermano la sua colpevolezza e, indicando come i vertici ‘ndranghetistici operanti in Calabria sapessero dell’omicidio del procuratore, mantengono allo stato il perimetro del mandato ad uccidere all’interno della cosca già identificata nelle sentenze irrevocabili.
Pagine del libro vengono infine dedicate all’inspiegabile insensibilità dimostrata da alcuni organi di stampa e addirittura dall'Anm nel dimenticare rapidamente l’omicidio di Bruno Caccia.
Soprattutto esso ricostruisce l’esito inappagante dei tanti procedimenti disciplinari e penali che erano nati intorno a quei magistrati risultati contigui agli ambienti criminali, così tentando una spiegazione psicologica di tale tendenza a dimenticare: sarebbe il senso di colpa per non aver proceduto con la dovuta intransigenza verso colleghi inquinati ad aver spinto la magistratura verso una sorta di rimozione del delitto.
Ma lo stesso libro non dimentica di ricordare i tanti esempi di magistrati torinesi che tennero comportamenti del tutto diversi, coltivando - dal 1983 ad oggi - il ricordo e l’emulazione per le doti professionali di Bruno Caccia con azioni non solo celebrative ma tenaci e determinate ad aggredire i fenomeni di criminalità organizzata e economica che, nella scia tracciata da quell’omicidio, confermano a tutt’oggi la presenza colonizzatrice in Piemonte della ‘ndrangheta calabrese, variamente intrecciata a potentati economici e politici.