In Italia, come in altre democrazie, è in atto l’espansione del controllo penale degli individui e della società, evidenziato dal crescente sovraffollamento in carcere. Ciò inevitabilmente pone la questione del rispetto dei diritti umani. Un teorico del diritto penale minimo, Alessandro Baratta, già una trentina di anni fa scriveva che il funzionamento della giustizia penale è altamente selettivo sia per quanto riguarda la protezione accordata a beni e interessi che per quanto riguarda il processo di criminalizzazione e il reclutamento della “clientela” del sistema. Oggi come mai esso è diretto quasi esclusivamente contro le classi popolari e in particolare contro i ceti emarginati, come dimostra la composizione della popolazione carceraria. Una composizione che si va caratterizzando anche per il sovraffollamento, da tutti denunciato come una sofferenza ulteriore rispetto alla pena, per questo incivile e intollerabile, in realtà accettato dalle forze di governo come conseguenza (almeno fino a oggi) inevitabile di un certo tipo di sviluppo e di governo della società nel mercato neoliberista.
Il fatto è che oggi la politica criminale, anziché ispirarsi alla prospettiva del diritto penale minimo, con la deflazione dei reati e con l'individuazione per quanto riguarda la pena di sanzioni diverse dal carcere, è dettata dalla logica di un intervento non solo repressivo ma anche escludente continuamente crescente, pur in assenza di particolari esplosioni di criminalità. La tendenza non è nata oggi, ma è andata accentuandosi nel corso della seconda repubblica. Se nel corso degli anni novanta il numero dei detenuti era inferiore ai 50.000, nel 1999 è salito a 51.000, e nel 2000 a 53.000, significative avvisaglie di quel che stava per arrivare. Poi la crescita è stata costante.
Tale prospettiva dà il senso di un cambiamento radicale, in particolare nel corso degli ultimi venti anni, nella concezione stessa della pena in Italia. Sembrano passare in secondo piano finalità quali contenere la criminalità che offende valori essenziali degli individui e della società e risocializzare il condannato. Quasi a voler dire: nella società neoliberista per ogni tipo di devianza marginale, comunque determinata, la risposta è una sola, il carcere, cioè l’esclusione. "Ovunque il sovraffollamento è prodotto dalle scelte della stessa classe politica che costruisce nuove carceri in nome della lotta al sovraffollamento. Il filo che lega i due fenomeni non è la lotta alla criminalità, come affermano i vari ministri, visto che non esiste alcuna correlazione tra i tassi di criminalità e quelli di carcerazione; è invece l'opzione a favore di politiche neoliberiste in campo sociale e, conseguentemente di politiche della sicurezza in campo penale" (Christian De Vito, Edilizia penitenziaria, serve una moratoria, in il Manifesto, 5 febbraio 2010). Il ceto politico dirigente non si preoccupa di contrastare paure, sentimenti e risentimenti che maturano in una società sempre più impoverita, ma ha anzi scelto di assecondarli. Si dice, lo si è sentito anche nella recente campagna elettorale per dire di no all’ipotesi di un provvedimento ormai indispensabile di amnistia e indulto: chi sbaglia deve pagare. La verità è che l'abbandono del welfare state impone di governare in altro modo, più semplice, la criticità sociale. Di qui la criminalizzazione e la carcerazione crescenti, che presentano tra gli altri il vantaggio di trovare larghi consensi elettorali.
Non a caso si è parlato di un passaggio dallo stato sociale allo stato penale. Ciò è vero in Italia e, come s’è accennato, in altre democrazie. Che presentano questa caratteristica. Che spesso è la giurisdizione, nella misura in cui è indipendente, a farsi carico, ovviamente nei limiti dell’intervento di un giudice, della tutela di diritti fondamentali da altri trascurati.
Ad esempio negli Stati Uniti. “Le Corti federali non intervengono a cuor leggero negli affari dello Stato. I principi del federalismo e della separazione dei poteri impongono alle Corti federali di trattenersi dall’affrontare materie statali se non nelle più pressanti delle circostanze. Sfortunatamente, durante i 19 anni della causa Coleman le autorità politiche della California cui competeva di affrontare la crisi del sistema penitenziario hanno mancato di far ciò. Al contrario, i diritti dei detenuti sono stati ripetutamente violati. Laddove il processo politico ha del tutto mancato di proteggere i diritti costituzionali di una minoranza, le Corti possono, e devono, tutelare questi diritti”. Così è scritto nella sentenza 8 aprile 2009 della Three Judges Court della California che ha imposto a quello Stato di presentare alla stessa Corte, entro 45 giorni, un piano di drastica riduzione (di circa 40.000 persone), nel giro di due anni, della popolazione carceraria. “Un egregio esempio di usurpazione dei poteri da parte della giurisdizione”, ha commentato a caldo un senatore americano. Forse no, forse quel senatore non ha capito. Forse la giurisdizione ha davvero il dovere di intervenire quando il processo politico manca del tutto di tutelare i diritti fondamentali della persona. Forse la democrazia, anche quella che è stata definita “senza qualità”, è riuscita a conservare questo spazio di riconoscimento dei diritti. Comunque si voglia giudicare quella sentenza, rimane il fatto che è stato un giudice, nell’inattività prolungata di governi e assemblee parlamentari, a preoccuparsi della tutela di quei diritti.
Qualcosa del genere è capitata di recente anche in Italia. Altra situazione, altri giudici. Ma anche in Italia ormai da anni si lamenta la violazione della dignità e dei diritti più elementari delle persone in carcere in conseguenza del sovraffollamento crescente. E alla fine un giudice è stato chiamato a intervenire. Un detenuto che sta scontando una pena a 2 anni e 8 mesi nella casa circondariale di Padova per furto, resistenza, falsa attestazione di identità e altro, avendo avuto a disposizione per qualche mese poco più di due metri quadrati ed essendo attualmente ristretto in una spazio individuale di 2,85 metri quadrati, ha sostenuto nel suo ricorso di trovarsi in una situazione identica a quella che in altra analoga vicenda ha già portato alla condanna dell’Italia da parte della Corte europea di Strasburgo (sentenza Torreggiani). E così il tribunale di sorveglianza di Venezia il 13 febbraio scorso ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 147 del codice penale nella parte in cui non prevede il rinvio dell’esecuzione della pena quando quest’ultima debba avvenire in condizioni contrarie al principio di umanità come sancito da vari articoli della Costituzione (2, 3, 27 co.3 ), e dall’art. 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, richiamato dalla Costituzione italiana, che pone il divieto di trattamenti disumani e degradanti. In sostanza si è chiesto alla Corte Costituzionale una pronuncia additiva: anche nel caso di assenza di un adeguato “posto letto” il differimento della pena deve essere possibile, non potendo oggi il giudice giungere a tale soluzione in via interpretativa.
Sembra un po’ strano dover fare riferimento ai metri quadrati di una cella per potere valutare la natura del trattamento riservato a un detenuto e il rispetto dei principi costituzionali, ma nel nostro paese siamo ridotti così.Ora non resta che attendere la pronuncia del giudice delle leggi. Di fatto, quale che sia la decisione, è stato rilanciato il tema del “numero chiuso” in carcere, che viene oggi dibattuto al di là della ristretta cerchia dei giuristi. Di recente l’associazione Antigone ha presentato tre disegni di legge di iniziativa popolare (la raccolta delle firme è già cominciata), uno dei quali, per la legalità nelle carceri, contempla, oltre all’abrogazione delle norme sulla recidiva approvate nel corso del 2005 e altre misure, anche il numero chiuso (“… fermo restando il principio di territorializzazione della pena, nessuno può essere detenuto per esecuzione di una sentenza in un istituto che non abbia un posto letto regolare disponibile ... “). Il numero chiuso dunque, il principio di umanità elementare che alcuni chiedono da anni sembra profilarsi all’ordine del giorno. Alcuni preferiscono parlare di differimento dell’esecuzione della pena. Si può anche accettare questa puntualizzazione lessicale. Purché sia chiaro che in questo caso la parola differimento non significa semplicemente rinvio, come dice il vocabolario della lingua italiana, ma anche che il tempo che il condannato trascorre a casa in attesa che un posto letto regolare si liberi, vale come tempo di esecuzione della pena. Certo, in un’ottica riformatrice bisognerebbe pensare a una nuova definizione dell’intero ventaglio delle pene, oltre che alla depenalizzazione delle ipotesi di detenzione di stupefacenti e all’abrogazione del reato di clandestinità. Ma la stagione politica che si prospetta difficilmente adotterà una simile ottica.
La speranza è che l’iniziativa di Antigone si intrecci con una sentenza coraggiosa della Corte Costituzionale. La questione carcere rimarrà così aperta, con un punto fermo, di non ritorno, cioè il numero chiuso.