Dopo tanti anni, mi sono felicemente ritrovata a fare la fila al cinema per vedere C’è ancora Domani interpretato e diretto da Paola Cortellesi, con Valerio Mastandrea, Giorgio Colangeli, Vinicio Marchioni, Romana Maggiora e Emanuela Fanelli.
Delia è una donna ordinaria che tiene la sua casa –un sottoscala- pulita e in ordine, prepara i pasti al marito Ivano e ai tre figli (due ragazzi e una figlia adolescente), accudisce il suocero, Sor Ottorino, allettato, e tutti i giorni cerca di guadagnare qualche soldo in più per aiutare economicamente la sua famiglia, rammendando biancheria femminile, aggiustando ombrelli, lavando lenzuola e facendo punture a domicilio, ricevendo un compenso inferiore a quello che le verrebbe dato se fosse un uomo.
Il suocero la considera una brava nuora, anche se ha il difetto di rispondere, in una epoca in cui le donne devono stare zitte a qualunque estrazione sociale appartengano.
Un contesto familiare in cui Ivano trova normale umiliarla e riempirla di botte per quelle che ritiene essere sue mancanze e incapacità, e viene invitato dal padre a non “menarla” di continuo, perché i lamenti giornalieri della donna sono fastidiosi, ma a riempirla di botte una volta al mese in modo forte, così da educarla come lui ha fatto con la madre («Non glie poi menà sempre, sennò s’abitua! Una, ma forte!»).
La delicatezza della regista emerge appieno nella scelta di non far vedere direttamente le violenze fisiche subite che si intuiscono negli occhi dei figli e vengono trasformate in scene quasi da musical. Come racconta la stessa Cortellesi «Mi sembrava più efficace usare le canzoni e la danza per sottolinearle».
Le violenze e le umiliazioni sono quotidiane e poste in essere davanti ai figli, tanto che la stessa maggiore Marcella ritiene responsabile la madre di non opporsi e ribellarsi a tale insostenibile degradante situazione. La ragazza, nel susseguirsi della storia, si fidanza con il figlio del proprietario del bar del paese, e tale legame è considerato positivo perché consente alla ragazza di migliorare il suo status, allontanandosi dal degrado culturale ed economico in cui vive. Una prospettiva che costituisce un riscatto per la stessa Delia che mette via i pochi risparmi guadagnati per poter comprare, all’insaputa del marito, un abito nuziale alla figlia.
Unici momenti di spensieratezza di Delia sono l’amica Marisa, che ha un banco al mercato, con cui ogni tanto riesce a bere un caffè, con tanto zucchero, e fumare una sigaretta, il meccanico Nino che le vuole bene, ed è stato il suo amore dell’adolescenza, un soldato americano che la vuole aiutare.
La lettera che la donna riceve -l’unica indirizzata proprio a lei come sottolinea chi gliela consegna- e il cui contenuto (certificato elettorale) resto celato quasi fino alle ultime scene del film- e la scoperta che il fidanzato della figlia mette in atto gli stessi comportamenti («Non ce devi annà più a lavorà… Tu sei mia») che Delia subisce da anni ad opera di Ivano, in fondo anch’esso vittima di quella cultura patriarcale che dominava il dopoguerra, sono i due eventi che scatenano la sua reazione e la sua voglia di rivincita e le danno quel coraggio, fino ad allora non trovato, di agire per cambiare il corso della sua vita.
La crescita di consapevolezza della propria condizione di vita è costruita con grande cura ed efficacia. Delia, sempre dimessa, per la prima volta si compra una stoffa per farsi una nuova camicia, la indossa, mette il rossetto sulle labbra e si reca a votare, non prima di lasciare alla figlia una busta con i soldi, racimolati con la cresta che effettua quotidianamente sui compensi che lei stessa guadagna, per poter studiare.
La scoperta del diritto al voto, all’istruzione e alla libertà, il rispetto verso se stessa e l’amore per la figlia sono i momenti salienti del riscatto sociale e culturale che Delia matura lentamente nel corso del film, e in ciò rappresenta non solo le tante donne, di qualunque estrazione sociale, che nel dopoguerra venivano discriminate e sottomesse; ma riesce a veicolare un messaggio netto in favore delle donne che ancora oggi sono discriminate e maltrattate: cercare, a partire da se stesse, la forza di reagire e di cambiare il proprio destino per far sì che l’emancipazione coinvolga tutte.
Il pensiero corre a quanto accade oggi alle donne in Iran, con il nuovo recente arresto dell’avvocata Nasrin Sotoudeh per aver partecipato, senza velo, al funerale di Armita Garavand, massacrata dalla polizia morale del regime iraniano sempre per non aver indossato il velo; in Afghanistan, dove le donne non hanno più accesso all’istruzione e sono limitate nell’esercizio dei loro diritti fondamentali; e nel nostro stesso Paese, dove nell’anno in corso si sono già verificati 96 femminicidi.
Ecco i tanti messaggi che il film ha veicolato a una sala piena, di tante donne (amiche, madri e figlie) ma anche di uomini, seppure in percentuale numericamente limitata.
Due ore trascorse nel silenzio delle grandi emozioni, conclusesi con un forte e spontaneo applauso liberatorio sullo scorrere dei titoli di coda.
Uscendo ho ascoltato commenti di grande coinvolgimento, era palpabile che il messaggio era arrivato forte e chiaro. O forse sarebbe meglio dire i plurimi messaggi che il film è riuscito a trasmettere in una cornice serena, a tratti allegra, nonostante la drammaticità delle situazioni descritte, in un bianco e nero che ha consentito di meglio definire i ruoli dei personaggi, le loro vite, i contesti esterni; un abbandono del colore, che in nessun momento è apparso come un cullarsi nel passato ma che ribadisce come i diritti non devono mai essere dati per acquisiti.
I diritti, come purtroppo l’attualità ci insegna, non sono mai accompagnati dalle parole “per sempre”.
Il diritto al voto, all’autodeterminazione, al lavoro, al salario dignitoso, al rispetto della dignità psichica e fisica della donna sono conquiste da tutelare e preservare.
La scena finale, non prevedibile, dell’incontro delle donne dell’Italia del dopoguerra per esercitare, per la prima volta nel 1946 il loro diritto al voto, e in mezzo ad esse la presenza di Delia, rappresenta una conclusione che parla al cuore di tutte e tutti e supera ogni possibile diversa conclusione, come quella più scontata che la protagonista potesse aver trovato la forza, e non sarebbe comunque stata poca cosa, di rifarsi una nuova vita accanto all’amore della sua adolescenza.
La nuova vita per Delia, donna semplice capace di gesti importanti, è rappresentata da un gesto collettivo, dall’esercizio del voto che costituisce la sua emancipazione e il suo riscatto, il suo parlare e non stare zitta, e rappresenta il domani possibile per lei, per la figlia Marcella, che finalmente è orgogliosa della madre, e per tutte le donne, qualunque sia la loro condizione economica e culturale.
«Se nasci donna fai già parte di un movimento. Un film per non dimenticare i nostri diritti» ha dichiarato Paola Cortellesi.
Questo è il messaggio che è arrivato al mio cuore e che non ne esclude altri, tutti quelli che ogni persona ha percepito da questa meravigliosa e coinvolgente visione.
I film che parlano di amore, di diritti, di emancipazione hanno sempre sfaccettature plurali tutte importanti e tutte di eguale intensità.
Gli occhi di chi guarda scelgono quella maggiormente vicina al proprio sentire, e in questo intreccio collettivo di sentimenti si schiude la capacità del film di raggiungere un pubblico sempre più vasto.