Magistratura democratica
Magistratura e società

Recensione a "Codice rosso. Il contrasto alla violenza di genere: dalle fonti sovranazionali agli strumenti applicativi"

di Elisa Pazè
sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino

La recensione al volume di Paola Di Nicola Travaglini e Francesco Menditto, edito da Giuffré-Francis Lefebvre (2020)

"Codice rosso", cosi viene chiamata abitualmente la legge 19 luglio 2019 n. 69, recentemente venuta a rimpolpare i meccanismi giudiziari di contrasto alla violenza domestica e di genere. E Codice rosso. Il contrasto alla violenza di genere: dalle fonti sovranazionali agli strumenti applicativi (Giuffré-Francis Lefebvre, 2020) è anche il titolo di un ricco e stimolante libro scritto a quattro mani da Paola Di Nicola Travaglini e Francesco Menditto, una giudice e un pubblico ministero, con il dichiarato intento di mettere a confronto il differente approccio all’argomento, in parte legato anche alla loro diversa funzione giurisdizionale. Il volume, che sfiora le 500 pagine, si caratterizza per il taglio sociologico e per la vastità dei temi, per certi versi inevitabile, trattandosi di materia interdisciplinare che coinvolge i settori penale e civile, in ambito sia sostanziale che processuale, con una stratificazione di norme che ha accompagnato l'evolversi del costume e della sensibilità collettiva. E così si spazia dai principi costituzionali e dalle fonti sovranazionali – non solo comunitarie – ai delitti vecchi e nuovi commessi in contesti di carattere familiare, dagli  adempimenti introdotti in sede di indagine alla formazione degli operatori di polizia, dalle misure cautelari a quelle di prevenzione, dal raccordo con il giudice civile alle modalità di esecuzione della pena, dai centri antiviolenza e dalle case-rifugio all’indennizzo delle vittime, con una attenta analisi critica dei reati e degli istituti toccati dalla legge n. 69 del 2019.

Merito di Paola Di Nicola Travaglini e Francesco Menditto è di avere scritto un testo che non è solo di carattere tecnico, ma che sollecita il lettore a riflessioni più ampie: in questa sede è possibile raccoglierne solo alcune.

1. L’assunto iniziale degli autori è che si sia venuta delineando, a partire dalla CEDAW (Convenzione delle Nazioni Unite per l'eliminazione di tutte le forme di discriminazione delle Donne, deliberata nel 1979 e ratificata dall'Italia nel 1985), una vera e propria soggettività giuridica femminile, che comporta la configurazione dei diritti delle donne come diritti specifici abbisognevoli di appositi strumenti di tutela. Non più dunque diritti umani come categoria generale ed amorfa, ma diritti che si innestano sulla realtà di genere, laddove il genere, a differenza del sesso, è inteso come un insieme di ruoli sociali predefiniti (l’accudimento della casa e dei figli, condizioni di inferiorità economica e decisionale). A fronte di questa rivoluzione culturale e giuridica, ad avviso degli Autori, le donne non hanno acquisito piena consapevolezza del loro status, mentre le istituzioni continuano a maneggiare i diritti in modo universale, incapaci di riconoscere le nuove soggettività.

La riflessione, che ricorda il dibattito scaturito dalla introduzione in diversi settori dell’ordinamento delle cosiddette “quote rosa” (poste apparentemente a tutela di entrambi i generi, ma di fatto volte a riequilibrare la sottorappresentanza di quello femminile), si presta a qualche considerazione allargata. Riconoscere, come fanno la Cedaw e le Raccomandazioni generali chiamate a facilitarne l’applicazione, che la violenza fisica e psicologica contro le donne è l’espressione massima di una diseguaglianza economica e sociale fra i sessi radicatasi nel corso dei millenni non comporta infatti automaticamente la fondazione di una autonoma soggettività giuridica femminile. Paradossalmente ma non troppo, si potrebbe altrimenti sostenere che le norme antidiscriminatorie che reprimono il razzismo fondano una autonoma soggettività giuridica delle persone di etnie diverse da quella occidentali.

D’altronde non si capisce quali speciali diritti, diversi da quelli che spettano agli uomini, sarebbero riconosciuti alle donne. Al di là dell’ovvia constatazione che alcune disposizioni sono necessariamente riferite a un genere perché legate alla conformazione fisica – lo stato di gravidanza (per l’aborto) o l’essere un individuo dotato di caratteri sessuali femminili (per le mutilazioni genitali) –, resta il fatto che tutte quelle incriminazioni che si vorrebbero espressamente pensate a tutela del “sesso debole” sono formulate – e non potrebbe essere altrimenti – in termini neutri. Così è per la norma sull’omicidio che, anche se nel lessico corrente si parla di “femminicidio” quando il movente è sentimentale e la vittima è una donna, configura aggravanti senza distinzioni di genere; così è per gli altri due reati-simbolo dei maltrattamenti e degli atti persecutori, per i quali va rilevato che, pur essendo nella maggior parte dei casi vittime delle donne, la pena è più elevata solo se destinatarie della condotta sono donne in stato di gravidanza e, accanto ad esse, minori o disabili, cioè persone più vulnerabili sul piano fisico, senza che sia evincibile una maggiore tutela del genere  femminile.

A ciò si aggiunga che, a fronte della realtà delle coppie omosessuali, che ha trovato riconoscimento giuridico nel 2016 nella forma dell’unione civile, equiparata ai fini penali al rapporto di coniugio (art. 574 ter. c.p., introdotto dal D. L.vo 19 gennaio 2017 n.6), la medesimezza del genere non consente di individuare in astratto la “parte debole” del rapporto. Si pongono anzi profili peculiari perfino con riferimento agli estremi della condotta maltrattante, non essendo stati inseriti fra gli obblighi scaturenti dalla contrazione dell'unione né quello di fedeltà né quello di collaborazione.

 

2. Al di là delle disquisizioni teoretiche, resta che le statistiche sulla violenza di genere restituiscono un quadro impressionante, non tanto perché – dato agevolmente percepibile da chi segue la cronaca giudiziaria – nell’80% dei casi l’autore del reato è un uomo e la persona offesa una donna, ma per altri dati meno conosciuti: la prima causa di morte su scala mondiale delle donne di età compresa fra i 16 e i 44 anni è l'uccisione da parte di persone conosciute; le dimensioni del sommerso sono incommensurabilmente superiori a quelle dell'emerso, perché solo una minoranza delle vittime di sesso femminile (all’incirca il 10%) trova il coraggio di presentare denuncia.

La legge “codice rosso” rappresenta una risposta efficace sul piano repressivo? Paola Di Nicola Travaglini e Francesco Menditto, pur con alcune riserve, ritengono di sì. Il loro giudizio positivo riguarda anzitutto l'introduzione nel codice penale di quattro inedite figure criminose, due delle quali – la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (reato più noto con l’anglicismo revenge porn, vendetta pornografica) e la deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso  (per il quale si era parlato a suo tempo di “omicidio di identità”) – costituiscono la risposta legislativa a nuove forme di aggressioni che sono venute diffondendosi negli ultimi anni in danno delle donne.

Per la verità, la scelta di trasformare in figura di reato autonoma lo sfregio al volto ha eminentemente un valore (apprezzabile) di messaggio ideologico, perché la condotta era già punita a titolo di lesioni gravissime e il risultato di impedire che il bilanciamento con eventuali circostanze attenuanti porti ad un abbassamento eccessivo del trattamento sanzionatorio si sarebbe potuto raggiungere, in modo più lineare, precludendo al giudice la possibilità di ritenere le circostanze attenuanti come prevalenti sulle aggravanti.

Ma, soprattutto, nel catalogo delle lesioni gravissime rientrano altre menomazioni – la perdita di un senso, di un arto o di un organo – che è difficile considerare di impatto minore rispetto alla deformazione permanente del viso e che vengono così ad essere sanzionate meno severamente rispetto a quest’ultima. La privazione della capacità riproduttiva potrebbe essere vissuta da molte donne come più grave della devastazione del volto, così come pare obiettivamente più menomante, anche da un punto di vista psicologico, la perdita della parola o dell’udito o della vista. La visibilità mediatica del fenomeno criminoso ha indotto a una risposta sanzionatoria che non ha tenuto conto dell’assetto complessivo.

Analoghi limiti di coordinamento con la preesistente normativa presenta anche il reato di illecita diffusione di immagini o video sessualmente espliciti. Di Nicola Travaglini e Menditto rilevano come, quando vi sia divulgazione di materiale pedopornografico, stante l’assenza di una clausola di riserva, si pervenga all’esito paradossale di dovere comminare la pena più lieve contemplata dall’art. 600 ter, comma 3 c.p. anziché quella più severa prevista dalla nuova fattispecie di revenge porn, senza che per il giudice, proprio perché si invocherebbe un trattamento deteriore, sia agevole sollevare la questione di costituzionalità.

Poi ci sono i problemi posti dalla incriminazione, che costituisce una autentica novità perché senza di essa la condotta non era punibile, della violazione del divieto di allontanamento dalla casa familiare o del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Essa viene ad intersecarsi con il potere riconosciuto al giudice di disporre l'aggravio della misura cautelare in caso di trasgressione del divieto, con il risultato paradossale che, mentre il giudice chiamato a valutare se disporre una misura più severa esercita la sua discrezionalità considerando entità, motivi e circostanze dell'avvicinamento (altro è l'intenzione di minacciare la compagna, altro è il desiderio di vedere i figli minori), il reato è integrato automaticamente da violazioni anche minime.

 

3. La monografia di Paola Di Nicola Travaglini e Francesco Menditto induce a considerazioni anche su un altro versante, quello del trattamento sanzionatorio. Oltre alla introduzione di nuove fattispecie di reato, la legge “codice rosso” ha parallelamente alzato i limiti edittali, sia minimi che massimi, delle pene già previste per i reati di maltrattamenti, violenza sessuale e atti persecutori, e ridotto i margini discrezionali del giudice per l'omicidio aggravato da movente di genere (per il quale è stata esclusa la possibilità di ritenere prevalenti le attenuanti, salvo poche eccezioni). Questa scelta trova il consenso dei due Autori, che fanno una comparazione con altri delitti, come il furto aggravato, per il quale il trattamento sanzionatorio è più rigoroso, pur trattandosi di reati che ledono il patrimonio e non la persona.

Anche se la riflessione sistemica spinge in questa direzione, l'inasprimento delle pene desta qualche riserva. L'aumento dei limiti edittali si inserisce infatti in un consolidato filone di politica criminale che vede ormai da anni ricorrere in modo salvifico all'accentuazione della sanzione detentiva un po' per tutti gli illeciti, da quelli dei colletti bianchi a quelli di strada (non si ricordano riforme che di recente abbiano riproporzionato le pene verso il basso), sortendo il risultato opposto di depotenziare la risposta penale nel suo complesso. Le carceri, come è noto, non sono sufficienti a contenere in condizioni dignitose tutti quelli che hanno riportato una condanna a pena detentiva, e per non incorrere nei fulmini della Corte europea dei diritti dell’uomo e nel contempo non impegnare risorse pubbliche che non ci sono, gli strumenti indulgenziali si rincorrono.  

Per altro verso i giudici, chiamati ad applicare pene troppo elevate anche nel minimo, saranno inevitabilmente portati a largheggiare, ancor più di quanto già avviene attualmente, nella concessione delle attenuanti, anche quando non ce ne sarebbero i presupposti (le generiche sulla carta non possono più essere motivate con la sola incensuratezza del reo, ma di fatto non si negano a nessuno). E del resto, come Di Nicola Travaglini e Menditto rilevano, a fronte di questi aumenti dei limiti edittali, la previsione (art. 165, comma 5, c.p.) che per i principali delitti connotati da violenza di genere la sospensione condizionale della pena sia subordinata alla partecipazione a specifici percorsi di recupero, da un lato evidenzia la consapevolezza del legislatore che verranno comunque in concreto applicate pene miti, dall'altro spinge i giudici proprio in questa direzione, in un'ottica di prevenzione della recidivanza attraverso la rieducazione.

Va aggiunto che l'aumento delle sanzioni per le ipotesi di maltrattamenti commessi in presenza o in danno di minore, che costituiscono una larga fetta di questa ipotesi di reato, ne ha comportato la devoluzione al tribunale in composizione collegiale, senza che se ne intraveda una reale utilità (trattasi di vicende che presentano per lo più profili in fatto, non in diritto) e con il rischio di rendere meno celere il meccanismo processuale, non di rado inceppato anche dal trasferimento o pensionamento di uno dei tre membri del collegio.

 

4. Altro importante capitolo aperto dalla legge n. 69/2019, e puntualmente analizzato da Paola Di Nicola Travaglini e Francesco Menditto, riguarda i nuovi strumenti introdotti per contrastare la violenza di genere, partendo dalla necessità di velocizzare la prima fase del procedimento, quella delle indagini: la polizia giudiziaria deve riferire subito, anche oralmente, al pubblico ministero la notizia di reato; il pubblico ministero deve sentire entro tre giorni la persona offesa; la polizia giudiziaria successivamente deve svolgere senza ritardo le indagini delegatele dal pubblico ministero.

Andando oltre all’invito degli Autori, di modulare le previsioni legislative adattandole ai casi concreti, è bene ricordare che sono stati messi in un unico calderone, prevedendo l’ascolto immediato della persona offesa, delitti assai variegati. Il legislatore nell'introdurre quest’obbligo così calzante (peraltro privo di sanzione processuale) aveva in testa la donna vittima di gravi brutalità, e ha trascurato che nell'ambito di molti reati, in particolare nei maltrattamenti, rientrano pure le ipotesi di marginalizzazione e vessazioni in ambito lavorativo, per le quali non si pone analoga urgenza.

Ma anche per le violenze in ambito famigliare, sarebbe stato bene distinguere (pur non essendo semplice tracciare la linea di confine) fra casi di emergenza e situazioni di fatto superate, come quelle delle donne in fase di separazione, che hanno cessato la convivenza e che vengono spinte dal proprio difensore a denunciare. Anzi, perfino per i casi che apparentemente richiedono una immediata trattazione, come sono quelli in cui intervengono le forze dell’ordine e in cui spesso si giunge ad un arresto in flagranza, non si vede perché costringere il pubblico ministero a risentire la vittima quando questa abbia già reso dichiarazioni dettagliate ed esaustive puntualmente raccolte dalla polizia giudiziaria. Insomma, in Pronto Soccorso si assegna il codice rosso, prioritario, a chi è in immediato pericolo di vita, ma nei reati connotati da violenza di genere assegnare codici è meno semplice e rendere tutto urgente rischia di fare sì che nessun caso sia poi davvero trattato come tale.  

Però l'ascolto immediato e attento della persona offesa, nei casi in cui è necessario, resta ovviamente fondamentale. Il volume Codice rosso non a caso si apre con una bella frase della drammaturga statunitense Eve Ensler: «Ti rifiuti di credere a una persona. Questa diventa estrema per dimostrare la sua tesi. Le esagerazioni e affermazioni ingigantite minano la sua credibilità e alla fine, col tempo, anche lei comincerà a dubitare di sé stessa come tutti quelli che assistono a questa continua messa in scena». E proprio questa esigenza di ascoltare senza preconcetti la donna che ha subito violenza, la cui parola spesso non è suffragata da testimonianze e si staglia solitaria negli atti giudiziari, costituisce una delle parti più interessanti del volume di Di Nicola Travaglini e Menditto. Acutamente si passano in rassegna i più ricorrenti pregiudizi di genere che per i maltrattamenti si incontrano nelle aule giudiziarie: che una moglie vessata per decenni senza avere mai denunciato nulla né essersi mai fatta refertare le lesioni subite non sia credibile; che le ritrattazioni della persona offesa o comunque il ridimensionamento delle denunce originarie (che come è noto sono pane quotidiano per chi tratta questo genere di reati e si spiegano con la debolezza economica della vittima, le promesse di cambiamento dell’indagato, le pressioni ambientali e in certi casi anche con le minacce ricevute) minino irrimediabilmente la prova; che vada addebitato alle madri il rifiuto da parte dei figli minori di vedere il padre (dimenticando i gravi danni psicologici da violenza assistita da loro subiti, al punto che per i maltrattamenti la legge n. 69/2019 prevede che sia comunque loro riconosciuta la veste di persone offese).

Poi ci sono le violenze sessuali, dove – ad onta delle convenzioni internazionali – persistono orientamenti fondati su altri stereotipi: che una donna scollata o scosciata in una certa misura provochi l'uomo e sia corresponsabile del reato; che viceversa una donna “mascolina” sia una preda poco appetibile e quindi non credibile; che la vittima di uno stupro che non abbia opposto resistenza all'aggressore gli abbia voluto lanciare segnali di consenso (trascurando la paralisi indotta dal terrore e che nessuno si sognerebbe mai di chiedere ad una persona rapinata perché non ha reagito); che il ritardo nel presentare la denuncia sia dovuto a intenti strumentali. Acutamente si rileva come, nel novello reato di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, denominato anche “stupro virtuale”, per la prima volta ad integrare un reato non occorre il dissenso ma basta il mancato consenso della persona rappresentata.  

 

5. Il tema del consenso, questa volta dell’indagato / imputato, riemerge in relazione ad un incisivo strumento introdotto dalla legge “codice rosso”: il braccialetto elettronico abbinato alla misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, per monitorare continuativamente il rispetto della misura. E se il sottoposto non ci sta? Paola Di Nicola Travaglini e Francesco Menditto, a tutela della incolumità personale della vittima del reato, aderiscono alla tesi dottrinale più rigorosa: il braccialetto va applicato comunque, anche con la forza, e se l’interessato si oppone risponderà del reato di resistenza a pubblico ufficiale; in ogni caso, anche a volere ritenere necessario il consenso, se questo non viene prestato l’alternativa è il carcere.

E qui si arriva a discutere della reale possibilità di evitare almeno qualche fatto di sangue ed abbassare la curva delle tristi statistiche sulle aggressioni maschili ai danni delle donne. Il braccialetto si rivela strumento zoppo, perché il nuovo delitto di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa non consente l’arresto in flagranza, stanti i limiti edittali della pena e non essendo stato inserito nell’elenco delle fattispecie per le quali si può arrestare comunque. E quindi, mentre chi evade dagli arresti domiciliari può essere arrestato, chi viola il divieto di avvicinamento alla vittima no: l’unica strada è quella di chiedere un aggravamento della misura, con tutti i tempi che questo comporta.

A monte c’è dunque la necessità, che riecheggia più volte nel lavoro di Di Nicola Travaglini e Menditto, di non considerare la violenza di genere come un problema a sé stante ma come l’aspetto più eclatante ed odioso della diseguaglianza fra uomini e donne. Che è una diseguaglianza economica (spesso le donne vittime di maltrattamenti appartengono a gruppi sociali svantaggiati e non possono permettersi di lasciare il loro aguzzino perché non avrebbero di che vivere), culturale (per i modelli maschili e femminili stereotipati che continuano ad essere proposti dai mezzi di informazione e nella pubblicità dei prodotti) e in parte ancora formale, come ha ricordato la Corte costituzionale nella sentenza 16 febbraio 2006 n. 61, riconoscendo che il sistema di attribuzione del cognome ai figli affonda le sue radici in una concezione patriarcale della famiglia e urta contro l’eguaglianza fra i sessi, invitando il legislatore a intervenire, senza che a distanza di quindici anni si siano fatti grossi passi in avanti. Ecco, il libro Codice rosso aiuta a tenere intrecciati tutti questi fili e a vedere l’intero caleidoscopio delle tematiche di genere.

20/02/2021
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