1. Questo ricordo di Salvatore Senese è destinato soprattutto ai giovani che non l’hanno conosciuto e a quanti dell’associazionismo giudiziario si sono formati la negativa valutazione derivante dagli avvenimenti gravi e sconfortanti emersi in occasione dell’assegnazione di taluni incarichi direttivi in importanti uffici giudiziari. La vita professionale e associativa di Senese è precisamente l’antitesi delle trame, dei condizionamenti, delle manovre volte a influenzare le procedure istituzionali a scopi di potere. La conoscenza del suo percorso professionale e civile può costituire uno stimolo a rilanciare l’associazionismo democratico dei magistrati e a potenziare la perdurante attualità e necessità, per la magistratura e per le componenti più sensibili e democratiche della società, del gruppo di Magistratura democratica, di cui Senese è stato – come scrisse Giovanni Palombarini nel messaggio al convegno organizzato dalla Fondazione Basso nella Biblioteca del Senato il 23 ottobre 2019 – «un grande dirigente, forse il più grande. Più di ogni altro ha impersonato lo spirito di Md».
Entrato in magistratura nel 1960, non aderì subito a Md fondata il 4 luglio 1964 (Bologna – collegio Irnerio), ma rimase nel gruppo di Terzo Potere, che abbandonò dopo la morte di Salvatore Giallombardo e la conseguente deriva moderata e corporativa di quel raggruppamento. Aderì a Md nel marzo del 1970[1] (dopo la scissione che intervenne in Md a seguito della strage di piazza Fontana del 2 dicembre 1969, anche se il pretesto fu l’approvazione del documento critico[2] per l’arresto di Francesco Tolin, direttore responsabile della rivista Potere Operaio), divenendone subito esponente di punta, nonché collaboratore assiduo della rivista Qualegiustizia.
A riprova della formidabile spinta, anche teorica, che recò al gruppo, va ricordata la relazione Per una Magistratura Democratica (nota come “libretto giallo”, dal colore della copertina)[3] da Senese redatta con Luigi Ferrajoli e Vincenzo Accattatis per il seminario ideologico (Pisa 24-26 aprile 1971) in preparazione della prima assemblea nazionale di Md (Roma 4-5 decembre 1971), che nominò Luigi De Marco presidente, Marco Ramat vicepresidente, Generoso Petrella segretario, Salvatore Senese e Domenico Pulitanò vicesegretari.
La sua attività giudiziaria, subito caratterizzata da altissima qualità per impegno e approfondimento, dopo l’iniziale incarico di pretore a Pontasserchio, proseguì nella pretura del lavoro di Pisa, poi nel Consiglio superiore della magistratura (1981-1986), nel quale – ne sono stato diretto testimone – ebbe un ruolo di autentico leader per competenza tecnica, autorevolezza culturale e impulso istituzionale; dal 1986 operò in Corte di cassazione (sezione lavoro). Fu in Parlamento dal 1992 al 2001 (prima alla Camera e successivamente al Senato, eletto come indipendente nelle liste del PDS). Della sua esperienza parlamentare va qui ricordata almeno la relazione al Senato (1998) sull’abolizione dell’ergastolo, vero monumento di sapienza giuridica e politica. Ritornò in Cassazione dove ha esercitato, fino al 2010, come presidente di sezione.
In ogni nuova esperienza istituzionale Salvatore aveva la capacità di coniugare l’esercizio pratico dell’attività svolta con una profonda analisi teorica sul senso della funzione che in quell’istituzione si esercitava. E la sua riflessione, condivisa collettivamente e resa pubblica, disvelava tutte le valenze – magari ancora soltanto potenziali perché non ancora compiutamente esplorate – di innovazione e di vitalità democratica dell’istituzione in cui di volta in volta si trovava ad operare, cercando una coerenza tra teoria e pratica capace di inverarne il senso profondo e l’autentica ragione d’essere per l’ordinamento giuridico democratico e per il sistema istituzionale.
Su questi suoi passaggi da una funzione all’altra, dall’esercizio della giurisdizione alla politica e viceversa, Senese – come scrisse Beniamino Deidda per il gruppo toscano di Md – «dava l’impressione di svolgere sempre lo stesso mestiere: che stesse in un’aula di giustizia o in un’aula del Parlamento la sua enorme cultura giuridica (che non esibiva mai), gli consentiva di individuare l’interesse pubblico come unica guida di ogni suo intervento. Che facesse il giudice o il senatore della Repubblica gli obiettivi non cambiavano: l’attuazione ferma dei principi costituzionali, la realizzazione del principio di eguaglianza tra i cittadini, l’indipendenza della magistratura da ogni potere. … Quando, finita l’avventura politica, ritornò a fare il giudice, sembrò che fino ad allora non avesse fatto altro. A nessuno venne in mente che la lunga milizia politica potesse incrinare la sua imparzialità, il suo distacco dai partiti e dalle fazioni».
2. E’ stato, per molti, non solo della mia, ma anche della sua generazione, un maestro, una guida, un punto di riferimento sicuro. Per me è stato molto di più; la sua scomparsa ha costituito una perdita anche personale, come di un fratello maggiore (non solo per età) a cui mi sono accompagnato per decenni di intensa collaborazione: in magistratura, nel CSM, in Corte di cassazione; nella Fondazione Basso, di cui è stato tra gli esponenti più attivi, sin dai tempi del sodalizio con Lelio Basso, soprattutto sui temi internazionali, a cominciare dai viaggi nel Cile di Salvator Allende all’inizio degli anni ‘70; nel Tribunale Permanente dei Popoli, del quale è stato autorevole presidente per un decennio, portando l’esperienza maturata anche e soprattutto come relatore nel Tribunale Russell II sulle dittature dell’America Latina.
Ogni suo scritto (e sono innumerevoli) e ogni sua attività (e sono state molteplici) rivela l’impegno etico, la coerenza intellettuale, il rigore metodologico, l’immensa cultura giuridica, storica e politica che davano spessore alla sua riflessione e al suo agire nelle istituzioni e nella società civile, interna e internazionale, attorno ai temi del diritto e della politica. Sono stati questi i suoi campi principali di riflessione e di impegno democratico, i due poli di tensione permanente, di cui egli evidenziava soprattutto la natura fisiologica, e spesso feconda, nello Stato costituzionale di diritto, nel quale nessun potere è assoluto e sovraordinato rispetto all’altro. E contro l’italico provincialismo della diffusa lagnanza invitava a guardare anche fuori dal panorama nazionale, per cogliere le comuni tendenze di fondo nonostante le contingenti, strumentali e interminabili polemiche nostrane che finiscono inevitabilmente per scaricarsi sulla giurisdizione, da lui considerata e vissuta “istituzione di frontiera” tra società e Stato.
Come essenza della sua esperienza culturale, professionale, associativa e politica, va sottolineato che, più d’ogni altro, egli ha impersonato lo spirito e il senso di Magistratura Democratica, di cui è stato segretario negli anni terribili del terrorismo (1977-1981). Nell’ANM (di cui fu segretario generale in collaborazione paritaria con il presidente Adolfo Beria d’Argentine), nell’interlocuzioni con il Governo, dinanzi alle forze politiche e alla più vasta opinione pubblica, finanche in una affollatissima assemblea di metalmeccanici alla V^ Lega Mirafiori, dove, ben consapevole della presenza di talune simpatie per le BR, non esitò a gridare «il terrorismo ci è nemico»; ovunque difese con fermezza e autorevolezza l’essenziale centralità della giurisdizione nello Stato costituzionale di diritto e le garanzie del corretto processo, quali garanzie di verità oltre che di difesa contro la legislazione di emergenza continuamente invocata e in parte attuata.
Senese ha contribuito a rinnovare la cultura giuridica e giudiziaria del nostro Paese come pochi hanno saputo fare e soprattutto ha interpretato il miglior associazionismo giudiziario, innovativo e fortemente radicale, ma rivolto a tutti i magistrati, senza pregiudiziali cristallizzazioni di posizioni; un associazionismo fatto di principi da tenere fermi ma anche di paziente lavoro di confronto, di persuasione e di costruzione.
La sua relazione al congresso di Urbino del 1979 costituisce una lezione anche di metodo, essenziale nel lavoro giuridico e politico: «Costruire una linea significa discutere, misurarsi con le obiezioni che vengono mosse, con le perplessità che suscita, con le resistenze che incontra; [significa] uscire dall’ottica assembleare ove alla fine i nodi si tagliano a colpi di maggioranza; … tentare un continuo sforzo di comprensione e discussione all’interno del gruppo; avere l’umiltà di riverificare continuamente nel concreto le scelte fondamentali con chi non le ha condivise e insieme l’ambizione di dimostrare che quelle scelte sono le più aderenti al patrimonio comune[4]».
Quel metodo praticava non solo dalla scrivania, ma ricercando il confronto diretto per far crescere anche gli interlocutori più riottosi, politici o magistrati che fossero. A tutti ricordava che «dalla nostra collocazione istituzionale nasce anche il nostro associarci ed il nostro presentarci all’esterno quale articolazione della società civile» e rivendicava e radicava l’autonomia di Md: «Un’associazione che fa riferimento ad un retroterra politico, certo, e che tuttavia non identifica tale retroterra in specifiche posizioni di partito o di schieramenti politici ma piuttosto in un insieme di acquisizioni in materia di democrazia politica, garanzie di libertà, difesa di alcuni valori storico-culturali»[5].
In ANM non occultava o sminuiva le rilevanti differenze di posizioni, ma ribadiva con fermezza e con pazienza l’identità propria di Md, nata dal vivo e ribollente fermento sociale a metà degli anni ’60 in sintonia con i valori della democratica costituzionale. Al XV congresso dell’ANM (Torino 1975) che aveva per tema Giustizia e informazione, il suo intervento toccò uno dei temi più discriminanti, la critica dei provvedimenti giudiziari da parte dei magistrati[6].
In quel congresso organizzato da una dirigenza associativa tutt’altro che progressista, in gran parte animata da furenti polemiche contro Md e le sue “interferenze di gruppo”, così definite dalle componenti più corporative (come la presa di posizione dell’esecutivo di Md sul processo Pinelli e il documento critico sul processo Valpreda redatto dell’esecutivo milanese dell’ANM[7]), Senese sostenne, senza iattanza provocatoria ma con la forza di nitide argomentazioni, che la critica pubblica di provvedimenti giudiziari da parte di magistrati «svolge nel contesto sociale la preziosa funzione di incentivatore del controllo e del dibattito pubblico sulla giustizia». E che «anche all’interno dell’ordine giudiziario essa svolge una funzione estremamente utile in quanto contrasta la tendenza latente in ogni istituzione a considerarsi come autosufficiente e richiama insistentemente i magistrati all’elementare principio democratico che vuole tutte le istituzioni controllate dall’opinione pubblica».
Sul versante della teoria e della pratica dell’associazionismo giudiziario e del pluralismo delle correnti di opinione, che si confrontano in magistratura, Senese è stato un protagonista. Anche su questo tema – ha scritto Luigi Ferrajoli – il suo insegnamento è più attuale che mai. «L’associazionismo da lui sostenuto e praticato è esattamente l’opposto di quello oggi esibito dai traffici penosi venuti alla luce e che mostrano la degenerazione di talune correnti dell’ANM in oscuri gruppi di potere»[8].
Per Senese il pluralismo, antidoto al corporativismo, è «il maggior fattore di trasparenza e responsabilizzazione nelle funzioni dell’autogoverno» e rappresenta il veicolo indispensabile per la realizzazione dell’indipendenza e «dell’uguaglianza dei giudici voluta dall’art. 107 della Costituzione, incompatibile con carriere e carrierismi e condizione necessaria della loro indipendenza interna; il valore inoltre di strumento e luogo di riflessione collettiva, di maturazione democratica e di battaglie civili a sostegno dei valori della giurisdizione»[9].
3. Per avere una adeguata idea dello spessore ideale e della coerenza tra impegno teorico-giuridico, attività associativa, esperienza e pratica di giudice, invito i giovani magistrati che non hanno conosciuto Salvatore Senese, alla lettura almeno delle sue relazioni congressuali presentate in Md e in ANM, degli scritti pubblicati sulle riviste Qualegiustizia, Questione Giustizia e Problemi del Socialismo, della voce Giudice in Digesto disc. pubbl.[10].
Voglio però far cenno allo specifico contributo di Salvatore su due aspetti che intersecano diritto e politica, e che hanno costituito un filo ininterrotto della sua riflessione sul ruolo del diritto e della giurisdizione per contrastare la cultura e la pratica della guerra e per apprestare una compiuta tutela effettiva ai diritti fondamentali di ogni persona, senza distinzione tra cittadini e stranieri.
Si tratta, come è evidente, di temi di bruciante attualità, su cui Md non può omettere di far sentire la voce del diritto e della ragione. Sul primo versante, va innanzitutto ricordato la sua relazione alla 1^ sessione del Tribunale Russell-2 sulle dittature in America Latina[11] e l’apporto da lui fornito, a conclusione delle varie sessioni del Tribunale, all’elaborazione della Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, poi approvata in una conferenza internazionale convocata da Lelio Basso ad Algeri il 4 luglio 1976. Il punto di partenza della Carta di Algeri e del sistema di principi lì espressi è il superamento di quella concezione e di quella pratica che dissolvono il popolo nello Stato, mentre proprio l’esperienza dei Tribunali Russell aveva dimostrato che sovente è proprio lo Stato a violare i diritti del proprio popolo, privandolo dei diritti di libertà e del diritto di autodeterminazione, pur riconosciuti dal diritto internazionale.
Senese coglieva e valorizzava (anche nei tanti contributi resi come giudice e presidente del Tribunale permanente dei popoli) la contraddizione tra la politica di potenza di un paese e la volontà di pace che esso proclama, tra l’azione di un governo e le aspirazioni del popolo che rappresenta.
Sul tema del diritto dei popoli, come nuovo elemento per rinnovare l’ordine giuridico internazionale (oggetto di vari suoi interventi su Questione Giustizia), mi limito a menzionare, per l’ampiezza e la compiutezza dell’analisi, il saggio di apertura di impegnativo e importante fascicolo di Problemi del socialismo, dedicato alle Culture della pace e della guerra[12]. Erano gli anni dell’istallazione dei missili in Europa e della paura dell’apocalisse nucleare.
Cito questo saggio, tra i tanti da lui dedicati all’argomento (tra cui le numerose voci redatte per il Dizionario dei diritti umani diretto da Marcello Flores, UTET 2007), perché aveva come destinatario principale il ceto dei giuristi, teorici e pratici. Era un appello alla loro responsabilità di uomini di cultura e di operatori del diritto ad affrontare il tema diritto/guerra, la cui ampiezza d’implicazioni abbraccia «il nesso … tra sovranità popolare e statuale, da un lato, e sistema di alleanze militari e complessità tecnologica degli odierni armamenti, dall’altro; tra forme e tecniche di organizzazione della convivenza umana, da una parte, e diritti fondamentali della persona, dall’altra. Attraverso il diritto, insomma – scriveva Senese – sono le stesse categorie della politica ad essere messe in questione, sottoposte a verifica, costrette a misurarsi con l’etica».
Prendendo le mosse dal dibattito molto vivo tra i giuristi e i giudici in Germania, egli pungolava i giuristi italiani sulla doverosità di impegnarsi nella costruzione di un nuovo diritto, antitetico alla cultura e all’ideologia della guerra, evidenziando la specifica responsabilità del giurista-giudice, che non poteva eludere un interrogativo: «può la giurisdizione disinteressarsi di questioni che chiamano in causa i fondamenti di legittimità della democrazia e dello Stato di diritto?».
Un interrogativo per lui retorico, giacché la responsabilità di giurista e di giudice della seconda metà del ‘900 – segnata da quel fondamentale cambio di paradigma costituito dal nuovo rapporto Stato/persona, su cui erano state costituite le Nazioni Unite e il nuovo diritto internazionale, i diritti umani e i diritti dei popoli – toglie alla sovranità dello Stato il potere assoluto sia interno che esterno e ne fa uno strumento di realizzazione delle finalità di pace, di liberazione, di affrancamento della persona umana da ogni dominio eteronomo.
Da lì partono la riflessione sulla nuova dimensione tra giurisdizione e pace e le sue elaborazioni per trarre dal diritto internazionale e dai diritti umani alimento e lievito per un esercizio della giurisdizione anche interna che con quelle novità fosse in sintonia, ovviamente nel rispetto delle forme proprie dello Stato di diritto costituzionale[13].
Le sue analisi hanno fatto strada nella cultura dei giudici italiani e hanno trovato accoglimento nella giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, chiamate a pronunciarsi su richieste di risarcimento dei danni alle vittime dei crimini commessi dalla Germania nazista. La Corte di cassazione, con sentenze emesse tra il 2004 e il 2011 (ribadite da una sentenza del 3 maggio 2016), ha negato l’immunità alla Germania, riconoscendo la sussistenza della giurisdizione italiana nel caso in cui lo Stato estero, pur nell’esercizio di attività tipicamente sovrane (la guerra), avesse commesso atti configurabili quali crimini internazionali in quanto lesivi, appunto, di quei valori universali di rispetto della dignità umana che trascendono gli interessi delle singole comunità statali.
È noto che, con sentenza 3 febbraio 2012, la Corte internazionale di giustizia dell’Aja, in accoglimento del ricorso proposto dalla Germania contro l’Italia per mancato riconoscimento dell’immunità di uno Stato nell’esercizio della sua sovranità, ha dichiarato l’illegittimità dei provvedimenti giudiziari italiani nei confronti della Germania, disponendo che la Repubblica italiana mettesse nel nulla le decisioni adottate. Ciò è avvenuto con la L. 14 gennaio 2013, n. 5, dichiarata incostituzionale dalla Consulta con sentenza n. 238/2014 per contrasto con gli artt. 2 e 24 della Costituzione. La barra è stata tenuta ferma dalla giurisdizione italiana e dalla Corte costituzionale, mentre la Corte internazionale di giustizia dell’Aja ha perso un’occasione per un avanzamento di diritto e per riaffermare la prevalenza della dignità umana sul potere dello Stato quando esso trasmoda nel crimine internazionale. Oggi, dinanzi alla tragedia della guerra in Ucraina, ancor di più cogliamo la gravità di quella omissione.
Siamo di fronte a quelle perduranti contraddizioni del diritto internazionale, su cui tante volte è tornato Senese, ben consapevole della difficoltà dei cambiamenti e pienamente avvertito delle contraddizioni ancora irrisolte del diritto internazionale, sovente contrastato dalla forza politica dei vari governi e dalle forze economiche delle multinazionali, affrancate da ogni controllo pubblico.
Proprio per questo sollecitava a non arrendersi mai al potere del più forte, evidenziando che il diritto internazionale costituisce un «universo ove convivono regole dotate di un differente grado di effettività e di legittimità e nel quale sovente le regole con minor grado di effettività sono quelle con maggiore legittimità e viceversa»; e sono queste ultime che vanno valorizzate e potenziate con la ricerca del consenso della più vasta opinione pubblica e dei movimenti per la pace, giacché «la lotta per i principi si rivela … non già l’impresa generosa di anime nobili al di fuori e al di sopra della storia, ma un’azione concreta per favorire un processo che ha come alternativa un disordine autodistruttore».
4. L’altro aspetto che mi preme accennare è la riflessione di Senese sui temi delle migrazioni e sull’involuzione della categoria della cittadinanza, che da strumento di rivendicazione di diritti è venuta trasformandosi in strumento di esclusione degli altri, dei diversi da noi, da contrastare e respingere quale che sia il loro carico di infelicità, di bisogni e di speranze. Coglieva la crescente tensione tra diritti umani e cittadinanza, tensione che va superata in nome del diritto e dei diritti. E la sua sollecitazione era volta ad abbassare la divaricazione tra universalità dei diritti e particolarità delle cittadinanze. Quella tensione – scriveva – è insieme una sfida per la costruzione del futuro. Sfida e tensione «finora recepite in modo assai miope dalle politiche fin qui elaborate in particolare in Europa, con il fine di scoraggiare in linea di principio il flusso dell’immigrazione, senza una corrispettiva elaborazione di valide politiche di integrazione in società già di fatto multietniche».
Un esempio clamoroso di questo atteggiamento difensivo e arroccato Senese individuava nelle politiche con riferimento al diritto d’asilo, il quale – pur avendo accompagnato la nascita delle moderne democrazie ed essendo previsto da costituzioni democratiche e da convenzioni internazionali – «viene sempre più ristretto e sottoposto ad una serie crescente di vincoli, molti dei quali incidono anche sulle dinamiche di possibile integrazione di colui che richiede l’asilo, o di colui che lo ha già ottenuto». Tale chiusura determina «in primo luogo uno sviluppo del razzismo, alimentato innanzitutto dal declassamento degli altri, visti come non-titolari di diritti universali, diseguali nei diritti e, attraverso una serie di salti logici del tutto frequenti nell’immaginario collettivo comune, addirittura antropologicamente inferiori».
Di tali politiche, egli metteva in luce la spinta alla clandestinizzazione e all’invisibilità dell’immigrato, e non si stancava di evidenziare che proprio la reazionaria legislazione in materia di immigrazione, «concorre a determinava atteggiamenti di xenofobia e di razzismo… aumentati, a causa della paura generata dal simultaneo aumento della disoccupazione, dalla precarizzazione del lavoro, insomma da tutti quei fenomeni di crisi del vecchio stato sociale presenti in misura diversa in tutti i paesi dell’occidente, determinando un senso di insicurezza che può spingere alla mobilitazione contro i diversi, immaginati come minacce o semplicemente assunti come capro espiatorio di disagi e insicurezze generalizzati».
Senza ovviamente alcuna illusione di poter realizzare «ora e subito, frontiere totalmente aperte; occorre però essere coscienti del fatto che, se oggi non ci sono le condizioni economiche e sociali per riconoscere ad ogni essere umano lo “ius migrandi”, ciò costituisce una condizione di debolezza delle nostre democrazie, una contraddizione patente che inficia la legittimità dell’ordine nel diritto di autodeterminazione dei popoli».
Sembrano valutazioni scritte in questi giorni, a commento degli ulteriori arretramenti normativi previsti dall’attuale governo, misure inumane per le persone che cercano per sé e per i propri figli una possibilità di vita, dannose per il governo dei flussi migratori, del tutto illusorie per fermare le migrazioni. Sono invece citazioni da una sua lezione del maggio 1996, svolta nell’ambito del corso di formazione e perfezionamento sul diritto dei popoli, organizzato dalla Fondazione Basso[14].
Salvatore Senese ci manca molto e continuerà a mancarci. Le persone come lui non sono sostituibili, ma il patrimonio di pensiero e di valori da lui accumulato continuerà a rappresentare per molti di noi un punto di riferimento e uno stimolo a resistere e a persistere.
[1] Insieme con Mario Barone, Michele Coiro, Ottorino Gallo, Giuseppe Veneziano, Romano Canosa e altri.
[2] Approvato il 30 novembre 1969 dall’assemblea di Md a Bologna. Sul documento e sulla strumentalizzazione della vicenda v. M. Ramat, Storia di un magistrato, Manifestolibri, 1986.
[3] Poi pubblicata su Problemi del socialismo n. 13-14 del 1973.
[4] Istituzione giudiziaria e difesa della democrazia, in Qualegiustizia nn. 47-48, pp. 699 e ss.
[5] S. Senese, Intervento al Convegno MD di Firenze del settembre 1978, pubblicato sulla rivista Magistratura democratica nn. 2-3/1979.
[6] S. Senese, La critica dei provvedimenti giudiziari da parte dei magistrati, in N. Lipari (a cura di), Giustizia e informazione, Laterza 1975, pp. 243-254.
[7] Per i quali il Procuratore generale della Cassazione aveva avviato procedimento disciplinare.
[8] L. Ferrajoli, La lezione di Senese e lo squallore di oggi, in Il Manifesto, 18 giugno 2019.
[10] Utet 1991 vol. VII, pp. 195 ss.
[11] Pubblicata anche in Qualegiustizia nn.31-32.
[12] S. Senese, Il diritto dei popoli: un nuovo diritto per la pace, in Problemi del socialismo, n. 2/1984 con contributi, tra gli altri, di Norberto Bobbio, Alessandro Langer, Luigi Manconi, Leonardo Paggi, Giuliano Pontara.
[13] Riflessione ripresa e approfondita, con riferimenti alla dimensione associativa, nella parte conclusiva del suo intervento al Congresso di Md di Sorrento, in Magistratura Democratica, Poteri e giurisdizione, Jovene editore 1985, p. 292-3.
[14] Il tema è anche largamente trattato in S. Senese, Cittadinanza, etnocentrismo e diritti fondamentali, in Problemi del Socialismo, nn.1-2/ 1989 pp. 175 e ss.