Magistratura democratica
Magistratura e società

Convegno in memoria di Salvatore Senese: magistrato e parlamentare - interventi

Dopo l'articolo di Luigi Saraceni, Questione giustizia chiude la serie degli interventi del convegno tenuto in ricordo di Salvatore Senese lo scorso 23 ottobre in Senato pubblicando, dopo quelli di Franco Ippolito e Luigi Ferrajoli, i contributi rispettivamente di Mariarosaria Guglielmi e di Edmondo Bruti Liberati

«I valori delle istituzioni si affermano nella storia anche grazie alle grandi figure che hanno saputo interpretarli»

di Mariarosaria Guglielmi
segretaria generale di Magistratura democratica

 

1. Con queste parole Salvatore Senese concludeva il suo intervento al XII Congresso di Magistratura democratica (24-26 aprile 1998), ricordando l’amico Pino Borrè[1].

Sono le parole che oggi possono riassumere il significato della sua presenza nei tanti luoghi e nelle molteplici esperienze in cui Senese ha espresso impegno professionale, straordinaria e vastissima cultura, giuridica e istituzionale, coscienza politica democratica.

Salvatore Senese è stato artefice e protagonista della vicenda di Magistratura democratica.

E la sua presenza ha fortemente improntato di sé, sin dall’origine, la storia del gruppo: Salvatore Senese ha espresso e interpretato il significato più autentico dei suoi valori e dei suoi ideali, attraverso l’elaborazione culturale e politica, il metodo del confronto ragionato e argomentato, le linee di azione indirizzate tanto al dialogo con la società quanto a incidere sulla cultura della magistratura, anche nelle sedi istituzionali e nell’associazionismo.

Il senso più profondo di tali valori e ideali – in un contesto radicalmente mutato rispetto a quello delle origini del percorso di Magistratura democratica e di fronte alle nuove responsabilità e alle nuove sfide che questo contesto ci consegna – si rinnova e, nei tratti che hanno caratterizzato la presenza di Senese e il suo modo di essere partecipe di questa vicenda, ritrova le coordinate, le ragioni attuali del nostro impegno collettivo per i valori della giurisdizione e della democrazia.

Per questo, come molti hanno scritto in questi giorni, Salvatore Senese è stato e rimarrà depositario del significato più autentico della vicenda di Md.

 

2. Occorre tornare alle origini del suo percorso per comprendere quanto la storia di Magistratura democratica sia stata fortemente segnata e guidata dalla presenza di Salvatore Senese in una direzione attuale e ancora essenziale.

La radice emotiva di questa avventura, come ha scritto Nello Rossi[2], fu una concretissima sofferenza per il modo di essere della giustizia e di essere protagonisti della giustizia, che portava un ristretto gruppo di magistrati a fare scelte culturali dirompenti, di rottura con i dogmi imperanti dell’epoca: l’ apoliticità e la neutralità del diritto, il suo essere pura tecnica, un sistema chiuso nelle sue categorie dogmatiche, del tutto indifferente e insensibile alla trama viva dei rapporti sociali sottostanti, resistente a quelle spinte al cambiamento in senso progressivo e alla crescita democratica della società generate dalla Costituzione (e dal suo art. 3 cpv.). Il diritto, dunque, come strumento di conservazione sociale e, per la magistratura, funzionale a «quel mostruoso connubio», come lo ha definito Stefano Rodotà, che aveva connotato in passato il rapporto con la politica: dietro ai dogmi di questo diritto, al modello del giudice bouche de la loi chiamato ad applicarlo, dietro «l’affermazione della verità e certezza dell’interpretazione data al testo della legge si fondava», scriveva Senese, «la supremazia incontrollata del depositario di quell’interpretazione vera e certa e (…) la ragione dell’autorità propria o dei propri padroni sostituita all’autorità della ragione»[3].

Rotture di dogmi, demistificazione e fratture con il passato si moltiplicarono: con il rifiuto della neutralità rispetto ai valori costituzionali, si affermò la politicità della giurisdizione (non la pretesa di una indebita invasione di campo, non il diritto libero, ma la non neutralità della interpretazione rispetto ai valori della Costituzione) assunta come dato e come problema. Sulla consapevolezza della dimensione politica della giurisdizione si innescava, per Magistratura democratica, un complesso di scelte qualificanti: la scelta di campo per l’attuazione dell’eguaglianza sostanziale, non solo intesa come eguaglianza dei cittadini davanti alla legge e imparzialità del giudice, ma come riconoscimento e tutela dei diritti fondamentali di tutti e di ciascuno, anche contro il volere della maggioranza; quindi, il garantismo come espressione di questa nuova idea di eguaglianza e come limite all’arbitrio del potere che nega i diritti contro la loro essenza di essere fondamentali, e limite strutturale dell’intervento penale, vincolo delle regole all’esercizio del potere punitivo, esigenza della giurisdizione e ragione prima della sua indipendenza. E dalla consapevolezza, da parte della magistratura, circa la propria responsabilità nell’attuazione della Costituzione, nacque l’idea di una giurisprudenza alternativa: non l’adesione ideologica alle posizioni politiche di opposizione, ma la traduzione sul piano giurisprudenziale delle posizioni di non subalternità al sistema, di rifiuto della falsa neutralità, e di fedeltà agli imperativi sovraordinati della Costituzione, a fronte dell’orientamento della magistratura più conservatrice, contraria a riconoscere piena e immediata vigenza alle norme della Costituzione.

L’affermazione della responsabilità della magistratura nell’attuazione della Costituzione significò rottura con l’associazionismo di impostazione corporativa e sindacale, apertura al punto di vista esterno, fine della separatezza che, per anni, aveva estraniato la magistratura dalle dinamiche positive e innovative della società, riconoscimento del principio di responsabilità culturale e sociale della magistratura per i provvedimenti presi: di fronte all’opinione pubblica e al proprio interno, come affermazione di un obbligo di vigilanza, del diritto di critica dall’interno sulle decisioni, come fattore di democratizzazione interna e di rifiuto del conformismo.

 

3. Il percorso di Magistratura democratica incrociò i grandi mutamenti sociali e politici in atto, traendone alimento ed impulso, e una fase di rinnovamento della cultura giuridica nella quale si andava formando una nuova generazioni di giuristi, accomunata dall’esigenza di un ripensamento dei metodi, delle categorie e dei problemi della scienza giuridica.

Per questo l’esperienza di Md fu straordinaria: destinata, nel contesto interno, a rimanere confinata nell’eresia, nella testimonianza di un gruppo minoritario – con il suo sviluppo e la sua apertura all’esterno – riuscì invece a produrre trasformazioni e a esercitare una influenza profonda sull’intera istituzione giudiziaria. Non fu possibile, dunque, isolarla come anomalia: Md divenne e fu riconosciuta come forza cooperante al processo di trasformazione e di cambiamento della società e del suo diritto[4].

 

4. Artefice e protagonista di questa vicenda, Salvatore Senese ha contribuito, in maniera determinante, a scrivere la storia di Magistratura democratica come storia di una crescita, avvenuta attraverso l’incontro con forze sociali più ampie, e con l’assunzione, da parte di una componente assai ampia della magistratura, dei valori e dei principi perseguiti da Md: un percorso che fu di costruzione di una identità forte, ma al tempo stesso sforzo fecondo di riforma culturale della giurisdizione[5], e riuscì per questo a vivificare i suoi valori e le sue idee, a produrre cultura, evitando autoreferenzialità e contrapposizione fine a se stessa.

La presenza di Salvatore Senese ha improntato fortemente di sé la vicenda di Magistratura democratica nell’approccio metodologico che ha contribuito alla sua crescita nelle sue specificità, manifestata già nella denominazione sociale che, diceva Senese, non esprime un programma di funzionalizzazione della giustizia a interessi di parte, un’indifferenza verso il valore dell’imparzialità – come pure, talvolta, le è stato rimproverato –, ma piuttosto la consapevolezza che i contrassegni propri della giurisdizione postulano, per la propria effettività, la democrazia e, in particolare, il riconoscimento, la tutela e la promozione dei diritti fondamentali e del valore dell’eguaglianza, che della democrazia costituiscono una dimensione essenziale.

Senese seppe rivendicare il senso dell’impegno di Md, la sua dimensione di autonomia, che la collocava non sul terreno delle politiche generali e dei soggetti politici generali, ma «su quello delle associazioni che operano per segmenti di fini generali». Un terreno di impegno parziale, scriveva Senese, ma non per questo meno denso di contenuti politici: «il terreno del modo d’essere e del funzionamento dell’istituzione, dei rapporti autorità/libertà, delle strade più appropriate nella situazione storica data per la difesa dei diritti fondamentali»[6].

In questa posizione si realizzava la difesa più forte e autentica del riconoscimento della dimensione politica della giurisdizione che ha ispirato tutte le battaglie di Md: la presa di coscienza da parte dei magistrati delle valenze politiche della “questione giustizia”, nei suoi profili ideali e nel suo impatto oggettivo sulle condizioni della convivenza organizzata; l’essere e il sentirsi partecipi, da giuristi, di un più generale e collettivo processo di cambiamento in senso democratico della società, conservando lo specifico ancoraggio professionale alla concretezza dei problemi e a quella che Senese definiva «la densità del reale che la funzione professionale inevitabilmente finisce con ricacciare innanzi a ciascuno di noi»[7].

Salvatore Senese considerava uno dei più grandi risultati di Md l’essere stata parte di una storia della giustizia che si è aperta all’esterno, che si è costruita partecipando a una più generale vicenda politica, ma attivamente interagendo con essa; l’essersi inserita come entità collettiva nell’ambito della storia dell’istituzione giudiziaria e l’aver contribuito a formare una cultura della giurisdizione certo percorsa da nodi e contraddizioni, ma terreno comune di discussione, idonea a sorreggere il dettato costituzionale che, nato da un accordo generale sull’esigenza di costituire una magistratura indipendente come reazione all’esperienza del fascismo, non aveva dietro di sé un’idea della giurisdizione adeguata al disegno tracciato dall’insieme delle norme costituzionali.

Salvatore Senese fu promotore e artefice della costruzione di questa cultura. Come pochi, ha interpretato e testimoniato, in tutto il suo percorso di impegno nella giurisdizione e per la giurisdizione, in ambito associativo e istituzionale, la vocazione di Magistratura democratica a essere soggetto costitutivo di un largo fronte di consensi intorno ai valori da difendere – condizione necessaria affinché non si isterilisse la tensione ideale verso l’attuazione dei valori di riferimento e verso i necessari cambiamenti culturali da promuovere all’interno della magistratura.

Questa tensione, scriveva, non è la rivendicazione orgogliosa di una propria e irriducibile diversità rispetto a una larga maggioranza di altri, né il distintivo quasi settario di un piccolo gruppo di giusti, ma sollecitazione al dialogo e richiamo, a chi potrebbe essere tentato da interessi di parte o di gruppo, a considerare l’altezza della posta in gioco[8].

 

5. Salvatore Senese – come ha scritto Giovanni Palombarini nel messaggio inviato per testimoniare oggi la sua partecipazione ideale a questo incontro – è stato un grande dirigente di Md, forse il più grande. E più di ogni altro ha impersonato lo spirito di Md quando, negli anni del terrorismo, ha difeso con fermezza le garanzie del giusto processo. Come segretario, ha assunto la guida di Magistratura democratica dal 1977 al 1981, in un momento segnato dall’inaudita violenza dell’attacco terrorista, di disperato pessimismo (così lo descriveva in occasione del Congresso del novembre 1981[9]), di forte crisi politico-istituzionale che aveva aperto una fase di arretramento e di restaurazione culturale di cui si coglievano chiari segnali nella magistratura, e rimesso in discussione conquiste che sembravano realizzate. Al bisogno di una riflessione collettiva si contrapponeva una forte diffidenza per le forme associative che, nei confronti di Md, era originata da un fastidio verso l’ideologismo, a torto o a ragione attribuito alle sue posizioni. Il riferimento all’art. 3 cpv. Cost. era diventato nuovamente causa di accuse e di polemiche, poiché ad esso si attribuiva il valore di una forzatura dell’equilibrio costituzionale, di pretesa di inserire nell’attività della magistratura elementi di una ideologia di parte, se non di voler subordinare l’attività giudiziaria a interessi partitici o di gruppo. E la posizione assunta da Magistratura democratica a difesa del garantismo era al centro di critiche e forti contestazioni per la sua ritenuta ambiguità o parzialità.

In questo difficile contesto, caratterizzato dall’esplosione della violenza del terrorismo e dall’uso della repressione come strumento di difesa della democrazia, Salvatore Senese ispirò la guida del gruppo a una linea di fermezza nella difesa dei suoi valori e delle sue scelte: rivendicando la sua scelta di campo in favore dell’art. 3 cpv. come scelta compiuta dai Costituenti, vincolante per la giurisdizione come per le altre istituzioni della Repubblica; rivendicando, contro l’accusa di politicizzazione, l’autonomia e la laicità delle posizioni di Md, le lotte condotte per la gestione trasparente degli uffici, l’impulso dato al principio di criticabilità dell’attività giudiziaria e le iniziative assunte per suscitare il dibattito pubblico generalizzato e contrastare inquinamenti nell’amministrazione della giustizia, l’autonomia delle istituzioni e della giurisdizione dalle contingenti posizioni partitiche, da noi assunta – scriveva Senese – come elemento costitutivo della trama garantistica e di un’organizzazione statuale ad essa ispirata.

Senese seppe ribadire la scelta di Md a favore del garantismo come irrinunciabile esigenza del mantenimento di forti garanzie istituzionali nei rapporti fra cittadini e apparati di coercizione dello Stato, che per questo implicava impegno nelle istituzioni, e non il distacco da esse, poiché – osservava – «ogni azione che tende a distruggere le istituzioni riesce solo a restringerne i connotati garantisti e a far emergere un’immagine dello Stato che è la negazione di quello che vogliamo costruire»[10]. A fondamento del garantismo processuale vi sono criteri relativi al rapporto persona-comunità organizzata desunti dal riconoscimento della persona come valore storico naturale al quale si collega l’esercizio della giurisdizione sia nel senso che «l’attività giudiziaria si legittima come attuazione di quel valore e ne deve quindi implicare il rispetto», sia in quanto «la “convivenza civile” alla cui difesa concorre l’attività giudiziaria, deve offrire spazio ed effettività (sia pure imperfetta) a quel valore, deve essere insomma segnata da una tensione verso di esso»[11].

 

Senese riuscì, in quel contesto, a indicare la difficile strada per Md per la difesa della sua più autentica ispirazione garantista: impegno e attenzione critica sul versante degli apparati e sul versante della cultura dei giudici, per far crescere la sensibilità ai valori di libertà e la consapevolezza delle responsabilità insite nel ruolo per la difesa di tali valori; sul versante dell’opinione pubblica, per una battaglia ideale in difesa del garantismo come difesa dei valori delle libertà e della democrazia, necessaria alla sua forza e capacità di resistenza rispetto ai tentativi di sovvertirla.

 

6. Salvatore Senese considerava condizione essenziale per la riflessione sulla giurisdizione, sulla sua cultura, sul suo ruolo ed assetto, il collegamento ai cambiamenti che investono le coordinate essenziali dell’organizzazione politica e alle vicende della democrazia, agli scenari e alle dinamiche nazionali ed internazionali che tali vicende determinano e influenzano. Questo approccio, di cui Salvatore Senese è stato promotore e interprete, ha consentito di orientare sempre la riflessione di Md sui grandi cambiamenti del più generale contesto politico-istituzionale e di interrogarsi sui processi internazionali che determinano lo stato dei diritti fondamentali nel mondo.

Per questo Md è stata la storia di una crescita, e si è proposta come forza di cambiamento anche rispetto alle sfide aperte alla giurisdizione e alla democrazia dalla necessità di dimensione sovranazionale della giurisdizione e dalla forza di integrazione espressa dai diritti riconosciuti nelle costituzioni e nella carte dei diritti.

A Salvatore Senese dobbiamo la scelta lungimirante – per l’epoca, visionaria – di promuovere la costituzione di Medel («Magistrats européens pour la démocratie et les libertés»), una unione di associazioni di magistrati, giudici e pubblici ministeri europei.

Salvatore Senese, con Louis Joinet (fondatore, nel 1968, del Syndicat de la magistrature francese), «dotati di ubiquità, un piede nel locale e l’altro nell’universale» (come scrive Christian Wettinck, primo presidente di Medel e fondatore dell’Asm belga, nel suo racconto sulla storia di Medel[12]), fu il punto di raccordo fra le poche associazioni progressiste dell’epoca che, dopo i primi contatti avviati verso la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta – nell’Europa delle Comunità, con limitate competenze economiche e dei blocchi contrapposti divisi dal muro di Berlino –, decisero di unirsi nel 1985 per un progetto comune, con l’ambizioso obiettivo di promuovere, attraverso il confronto e il dialogo fra le magistrature di diversi Paesi, un’unione politica europea e la sua integrazione sociale e giuridica.

L’Europa aveva ereditato dalla caduta dei regimi autoritari una magistratura che aveva fallito nel suo compito, legittimando la “tirannia” anziché difendere lo Stato di diritto; nel dopoguerra, molti giudici erano rimasti in servizio e le loro associazioni non avevano interesse a discutere del “passato”. Erano piuttosto interessate prevalentemente alle condizioni di lavoro e alla difesa dei privilegi, e solo le associazioni dei magistrati più giovani si confrontavano sulla “storia”. La conclusione di questo confronto fu che la difesa della democrazia richiede sistemi giudiziari democratici.

Salvatore Senese ha animato, in questo contesto, il progetto che ha dato vita a una esperienza unica di associazionismo giudiziario sovranazionale, diventata una realtà importante (che oggi riunisce 23 associazioni di 16 diversi Paesi), protagonista attiva del processo culturale e politico di integrazione europea attraverso una costante attività di sorveglianza democratica e di denuncia presso le istituzioni europee e presso l’opinione pubblica delle situazioni di crisi dello Stato di diritto registrate nei singoli contesti nazionali, spesso rappresentate da interventi sui sistemi giudiziari; una voce sempre presente nel dibattito in ambito europeo e dinanzi alle istituzioni europee su tutti i temi e le sfide che interpellano la democrazia e il ruolo della giurisdizione nella difesa dei diritti e delle libertà.

Come è stato per Md, la presenza di Salvatore Senese ha improntato fortemente di sé la nascita, la visione e il percorso di questa nuova esperienza collettiva.

In quello che fu il preludio alla creazione di Medel, un seminario organizzato in Francia nel 1983 dal Syndicat de la magistrature con l’Università di Lille, «Judiciary and Democracy in Europe» (i cui atti vennero poi pubblicati nel volume Être juge demain), le riflessioni di Salvatore Senese contribuirono a gettare le basi culturali per la costruzione di una nuova identità di giudice europeo, impegnato nella difesa di «tutti i valori dello Stato democratico di diritto» e dei diritti fondamentali, soprattutto delle minoranze e dei migranti, «nella prospettiva dell’emancipazione dei soggetti più deboli» (così recita ancora oggi, al primo punto, lo statuto di Medel).

In un momento storico in cui l’imperativo dell’indipendenza della giurisdizione era fortemente avvertito, ma in raccordo alla legittimazione dei sistemi giudiziari indipendenti e alla responsabilità del giudice, cresceva l’esigenza di una riflessione sui valori emancipativi e positivi dell’indipendenza della magistratura, ma era necessario confrontarsi e trovare una risposta ai tanti interrogativi che questa riflessione poneva. Nel dibattito interno ad alcune associazioni di altri Paesi (e, soprattutto, al Syndicat de la magistrature), il problema dell’indipendenza della magistratura era considerato il retaggio di un’ideologia superata, lo strumento di una protezione corporativa, la parola d’ordine per chi si opponeva al cambiamento, strumento di conservazione al quale si contrapponeva la rivendicazione delle libertà del singolo magistrato, del pluralismo interno, del dinamismo dell’istituzione.

Occorreva trovare una risposta a molte domande.

E nelle riflessioni di Salvatore Senese – sul rapporto fra magistratura e democrazia, istituzione giudiziaria, giudici e sovranità popolare, legittimazione del potere giudiziario indipendente e di giudici non eletti – queste domande trovarono una risposta.

Le istituzioni che si appoggiano, direttamente o indirettamente, sul suffragio universale – scriveva Senese – non esauriscono l’espressione della sovranità popolare ed è definitivamente tramontata l’idea che la sovranità popolare possa esprimersi in maniera completa, unitaria e indivisibile attraverso la legge. La trama dei nuovi diritti e dei nuovi bisogni che trova un riconoscimento nelle carte internazionali deriva dalla pressione che esercitano le diverse comunità nazionali, e ciò prova che i popoli si esprimono attraverso queste correnti di idee, questa valorizzazione dei bisogni, che non sempre o non del tutto sono presi in considerazione nelle attività delle istituzioni classiche della democrazia rappresentativa.

La piena valorizzazione della sovranità popolare rinvia dunque alla cultura e ai valori culturali, e le nostre costituzioni moderne rappresentano la presa in conto di tali valori, l’affermazione che questi rappresentano un limite alle manifestazioni politiche della sovranità popolare, il riferimento a una trama di principi e di idee guida che vanno oltre il gioco contingente del suffragio universale senza negarlo, ma cercando al contrario di ancorarlo saldamente nella storia. Le istituzioni che si appoggiano sul suffragio universale devono essere, pertanto, integrate da quelle che esercitano un potere appoggiandosi a questa trama di valori, come le istituzioni giudiziarie: il ruolo del giudice, scriveva ancora Senese, è dare espressione a questa eccedenza di sovranità popolare che si esprime nei valori e principi fondamentali su cui si fonda il patto sociale.

In un sistema che prevede una magistratura indipendente, ciò che dà forza alla decisione è il grado di congruità che essa presenta con questi valori fondamentali, la sua capacità di interpretarli e di farli vivere. In questo riferimento alla trama essenziale di principi guida, l’attività del giudice sfugge al rischio di soggettivismo. L’indipendenza dei magistrati non è soltanto una barriera difensiva di fronte al potere, ma uno strumento di richiamo alla razionalità contro le tentazioni emotive contingenti dell’opinione pubblica. Ed essa esige la più ampia possibilità di critica e di dibattito sull’attività dei magistrati: l’indipendenza è la condizione perché la critica possa influenzare la giustizia sul piano culturale e ideale, sottraendola alla pressione del potere. Questo legame fra indipendenza dei magistrati e critica dell’opinione pubblica si può esprimere riconoscendo che la funzione giudiziaria esige assoluta indipendenza dai poteri e la più grande responsabilità di fronte all’opinione pubblica e alla società civile: «se questo legame viene meno, l’indipendenza è lo schermo dietro il quale si nasconde una giustizia asservita».

L’indipendenza, quindi, come forma istituzionale necessaria al cambiamento, valore pienamente realizzabile attraverso il cambiamento e necessario ad esso poiché, scriveva Senese, un progetto di cambiamento nella nostra società è possibile solo se si accompagna a un ampliamento delle libertà, a un’esposizione permanente alla critica dei cittadini dei progetti di volta in volta elaborati, e questo richiede istituzioni che garantiscano le libertà, i diritti fondamentali, la discussione e la critica[13].

Il pensiero di Salvatore Senese ha posto le basi culturali dell’impegno comune dei giudici europei nella costruzione di una comune cultura giuridica democratica, nel promuovere un modello di magistratura europea, indipendente e democratica, capace di aprirsi alle istanze della società, partecipe delle sue dinamiche innovative e positive, responsabile di fronte alla collettività e all’opinione pubblica del suo operato. Una magistratura dotata di legittimazione democratica (e non solo istituzionale) e di indipendenza, valore da promuovere e da difendere non solo in quanto garanzia dalle interferenze esterne, ma –sosteneva Senese –, in quanto valore portatore di “potenzialità democratiche”: fattore di responsabilizzazione del magistrato, in grado di prendere posizione di fronte alle differenti logiche che si confrontano nella società, nella cultura e nella legislazione; presupposto di un’emancipazione culturale che deve renderlo sempre più all’altezza di valorizzare tutta la complessità degli elementi che compongono la “legalità”, compresi quelli che esprimono i punti di vista e i bisogni dei più deboli, spesso sacrificati nelle prassi giudiziarie.

Come è stato per Magistratura democratica e per tutta la magistratura italiana, Salvatore Senese è stato dunque l’artefice di una storia di cambiamento e di crescita anche per l’associazionismo europeo e per la magistratura europea che, come noi, oggi lo ricorda nella consapevolezza di quanto tutti dobbiamo al suo pensiero, al suo impegno, alla sua straordinaria umanità, alla sua eccezionale esistenza.

 

[1] Intervento di Salvatore Senese in Quale legalità. Atti del XII Congresso nazionale di Magistratura democratica, collana Quaderni di Questione giustizia, Franco Angeli, Milano, 2000, pp. 130 ss.

[2] N. Rossi, Magistratura democratica tra eresia e riforma. Riflessioni a margine del libro di Giovanni Palombarini e Gianfranco Viglietta, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 1/2012, pp. 171 ss.

[3] S. Senese, La vicenda culturale e politica di Magistratura democratica, in N. Rossi (a cura di), Giudici e democrazia. La magistratura progressista nel mutamento istituzionale, collana Quaderni di Questione giustizia, Franco Angeli, Milano, 1994, pp. 96 ss.

[4] N. Rossi, Magistratura democratica tra eresia e riforma, op. cit.

[5] Ivi.

[6] S. Senese, Istituzione giudiziaria e difesa della democrazia, relazione introduttiva del segretario al IV Congresso di Md, Urbino 28-30 settembre 1979, in Magistratura democratica, bimestrale, anno VII, n. 23/1979 (marzo-giugno), pp. 35 ss.

[7] Id., La vicenda culturale e politica di Magistratura democratica, op. cit., p. 104.

[8] Vds. S. Senese, Crisi politico-istituzionale e indipendenza della magistratura, relazione introduttiva al V Congresso nazionale di Magistratura democratica, Bari-Giovinazzo, 6-8 novembre 1981, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 2/1982, p. 455.

[9] Ivi, pp. 415 ss.

[10] Id., Istituzione giudiziaria e difesa della democrazia, op. cit., p. 30.

[11] Id., Crisi politico-istituzionale e indipendenza della magistratura, op. cit., p. 418.

[12] C. Wettinck, Magistrats européens pour la démocratie et les libertés: dall’idea alla realizzazione, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 6/2000, pp. 1143 ss.

[13] S. Senese, La magistrature et l’État – quelle légitimité pour les juges?, e Id., L’indépendance est-elle aussi une valeur pour le changement?, in J.-P. Royer (a cura di), Être juge demain, Presses universitaires de Lille, Lille, 1983, rispettivamente pp. 353 ss. e 41 ss.

 

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Salvatore Senese e l’associazionismo giudiziario

di Edmondo Bruti Liberati
già procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano

 

1. La “radicale svolta” di Magistratura democratica: rottura della corporazione 

«Il movimento si propone di indirizzare l’attività associativa ad una radicale svolta[1], che la situazione generale del Paese e le aspettative in essa prepotentemente affiorate rivelano ormai matura. Tali aspettative si concretano nella richiesta ognora più pressante di rottura delle strutture istituzionali ereditate da un lontano e tragico passato e nella esigenza di instaurare la nuova tavola di valori scaturita dalla Resistenza e consacrata nella Costituzione (…).

A questa sintesi ideale e a questo significato politico è dunque necessario rifarsi per affermare la nostra piena ed incondizionata fedeltà alla Costituzione.

Una fedeltà, tuttavia, che non si enuncia solo a parole, ma che deve essere tradotta in prassi quotidiana nell’esercizio del proprio ministero (…). (…) eliminazione dell’attuale assetto gerarchico-piramidale, ricalcato sul modello dell’organizzazione amministrativa.

Ne discende la necessità della più ampia e profonda democratizzazione dell’esercizio della funzione, affinché la sovranità popolare sia posta sempre in grado di esercitare il suo controllo, e affinché si impedisca al magistrato di sentirsi avulso dal corpo sociale, chiuso nella torre eburnea di un esclusivo tecnicismo, o, peggio ancora, posto al di sopra del corpo sociale stesso, quale facente parte di una casta depositaria di un potere a sé stante».

I passi riportati sono tratti dalla mozione costitutiva che Magistratura democratica, fondata a Bologna il 7 luglio 1964, presenta come programma per le elezioni dell’Associazione nazionale magistrati del 1964, le prime che si svolgono con il sistema proporzionale[2].

Salvatore Senese, entrato in magistratura il 26 luglio 1960, non è tra i fondatori di Md, così come Marco Ramat, il quale però aderisce subito a Md. Senese, invece, all’epoca fa riferimento alla corrente Terzo potere, un gruppo su posizioni progressiste particolarmente impegnato sulle riforme di ordinamento giudiziario e sull’abolizione della carriera, guidato da personalità di grande prestigio come Pasquale Emilio Principe e Salvatore Giallombardo.

Magistratura democratica, nel 1964, con la critica all’assetto gerarchico, si pone nel solco di una linea già acquisita all’interno dell’Anm.

Ma la «svolta radicale» di Md è nel richiamo alla «esigenza di instaurare la nuova tavola di valori scaturita dalla Resistenza e consacrata nella Costituzione». Tutta la “nuova tavola dei valori”, non solo i valori che ispirano il nuovo assetto della magistratura.

Impegnativo, a fronte di timidezze corporative, il richiamo alla «nostra piena ed incondizionata fedeltà alla Costituzione. Una fedeltà, tuttavia, che non si enuncia solo a parole, ma che deve essere tradotta in prassi quotidiana nell’esercizio del proprio ministero». Esplicita la polemica con le posizioni assunte dalla magistratura tradizionalista e dalla Corte di cassazione.

Il passaggio immediatamente successivo coinvolge tutta la magistratura associata.

Sia pure con ritardo, la magistratura coglie il clima di novità che, da qualche anno, si sente nel Paese, dal primo governo di centro-sinistra al pontificato giovanneo. Il XII Congresso nazionale dell’Anm si tiene a Gardone dal 25 al 28 settembre 1965, e a svolgere le relazioni introduttive sono chiamati, oltre a magistrati, anche professori[3]. A Giuseppe Maranini è affidata la relazione generale su «Funzione giurisdizionale ed indirizzo politico nella Costituzione» e a Paolo Barile, insieme a Luigi Bianchi d’Espinosa, quella sul «Giudizio di legittimità».

Per una coincidenza significativa, al Congresso dell’Anm partecipano per la prima volta magistrati donna. La novità è sottolineata nell’intervento introduttivo del presidente dell’Anm, Mario Berutti. Otto donne sono appena entrate in servizio nella magistratura italiana, chiudendo una pagina di scandalosa discriminazione.

La «radicale svolta» propugnata nella mozione costitutiva di Magistratura democratica segna il Congresso, che, nella impostazione, nello svolgimento e nelle conclusioni, è del tutto innovativo rispetto ai precedenti.

La mozione finale del Congresso, approvata all’unanimità, afferma che:
«spetta (…) al giudice, in posizione di imparzialità ed indipendenza nei confronti di ogni organizzazione politica e di ogni centro di potere: 1) applicare di­ret­tamente le norme della Costituzione quando ciò sia tecni­camente possibile in relazione al fatto concreto controverso; 2) rinviare all’esame della Corte costituzionale, anche d’ufficio, le leggi che non si prestino ad essere ricondotte, nel momento in­ter­pretativo, al dettato costituzionale; 3) interpretare tutte le leggi in conformità ai principi contenuti nella Costituzione, che rappresentano i nuovi principi fondamentali dell’ordinamento giuridico statuale».

 In conclusione, il Congresso:

 «Si dichiara decisamente contrario alla concezione che pretende di ridurre l’interpretazione ad una attività puramente formalistica indifferente al contenuto ed all’incidenza della norma nella vita del Paese. Il giudice, all’opposto, deve essere consapevole della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione»[4].

Nel corso del Congresso vi sono momenti di tensione, che culminano con manifestazioni di dissenso nei confronti dell’on. Lelio Basso, che con difficoltà riesce a terminare il suo intervento, mentre un certo numero di contestatori abbandona l’aula[5]. Dopo aver ricordato il suo contributo nell’Assemblea costituente alla formulazione del secondo comma dell’art. 3 della Costituzione sulla eguaglianza sostanziale, Basso propone, richiamandosi alla relazione Barile-Bianchi d’Espinosa, «la costatazione evidente che la Cassazione occupa oggi un posto ed esercita una funzione che vanno ben al di là di quella funzione di controllo di legittimità che è nello spirito della Costituzione»[6].

Il Congresso di Gardone, del 1965, segna un punto di non ritorno. Senese lo sottolinea in diversi scritti ricostruttivi di quel momento. Il dibattito associativo si misura con la dimensione politica dell’attività giudiziaria, i magistrati si confron­ta­no con i grandi problemi del Paese e ridiscutono il ruolo del giudice in una società che si sta vorticosamente trasformando: l’ideologia della separatezza del corpo viene messa in crisi; si tratta «di far entrare un intero ordine giudiziario in un universo culturale così nuovo come quello che la Costituzione repubblicana postula come condizione del ruolo che essa assegna alla magistratura»[7].

 

2. Il ’68, la strategia della tensione e la stagione delle riforme

La spinta sociale che viene dal movimento studentesco del 1968 e dalle proteste operaie dell’“autunno caldo” del 1969 scuote il Paese e coinvolge la magistratura. Per un verso, lo scontro sociale entra nelle aule di giustizia attraverso i processi penali che ne derivano. Per altro verso, quanto auspicava la mozione costitutiva di Magistratura democratica del 1964 – «si impedisca al magistrato di sentirsi avulso dal corpo sociale, chiuso nella torre eburnea di un esclusivo tecnicismo, o, peggio ancora, posto al di sopra del corpo sociale stesso, quale facente parte di una casta depositaria di un potere a sé stante» – è ormai realtà. Il corpo dei magistrati, uscito dalla “torre d’avorio”, è chiamato a confrontarsi con le novità che percorrono la società.

La critica delle istituzioni e la messa in discussione, a ogni livello, del concetto di autorità, aspetti centrali del clima di questi anni, forniscono nuovo alimento all’impegno per la democratizzazione dell’apparato giudiziario e contro il sistema della gerarchia interna che aveva caratterizzato il dibattito nell’Anm. Il dibattito nella magistratura è vivace, ma permane lo spirito di costruttivo confronto che aveva caratterizzato il Congresso di Gardone, mentre per altro verso il Csm, eletto nel 1968, si muove in una prospettiva innovativa.

Tutto cambia dopo l’attentato di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969, che costituisce il momento culminante della strategia della tensione già in atto. Il clima di incertezza e di insicurezza seguito alla strage e la crescente pressione di quei settori politici che non tolleravano l’indirizzo assunto dall’Anm e dal Csm, spingono verso la crisi nell’Anm, con la rottura della giunta unitaria che reggeva l’Associazione, la scissione del settore più moderato all’interno di Magistratura democratica, l’emarginazione nei confronti del gruppo che rimane in Md. È sotto tiro anche il Csm, nonostante la circostanza che tutti i componenti eletti nelle liste di Md abbiano aderito alla scissione.

Nella prima metà degli anni settanta si assiste a uno scontro durissimo all’interno della magistratura, con i settori più conservatori che riassumono l’egemonia: di qui la ripresa di potere della struttura gerarchica interna e il tentativo di epurazione disciplinare verso il dissenso.

Eppure, tra il 1968 ed il 1974, il nostro Paese vive una stagione di espansione delle libertà e dei diritti, «particolarmente rilevanti, proprio nei due settori più sacrificati nel periodo precedente, quelli dei diritti di libertà e dei diritti del lavoro (…). Nel 1970 si verifica un addensarsi di atti riformatori che non ha paragoni nella storia repubblicana: in quell’anno vengono approvate le leggi sul divorzio, sul referendum, sullo Statuto dei lavoratori, sull’attuazione dell’ordinamento regionale, sui termini massimi di carcerazione preventiva. Ad esse, in una stagione riformatrice che si estende per tutto il decennio, seguono le leggi sul diritto del difensore ad assistere all’interrogatorio dell’imputato, sulle lavoratrici madri e sugli asili nido (legge 30 dicembre 1971, n. 1204); sull’obiezione di coscienza al servizio militare e sull’ampliamento dei casi in cui è possibile la concessione della libertà provvisoria, la cosiddetta “legge Valpreda” (15 dicembre 1972, n. 773); sul nuovo processo del lavoro (11 agosto 1973, n. 533) e sulla protezione delle lavoratrici madri e disincentivazione del lavoro a domicilio (18 dicembre 1973, n. 877); sulla tutela delle segretezza e della libertà delle comunicazioni (8 aprile 1974, n. 98) e sulla delega al governo per la emanazione del nuovo codice di procedura penale (3 aprile 1974, n. 108); sul nuovo ordinamento penitenziario (26 luglio 1973, n. 354), sulla riforma del diritto di famiglia (19 maggio 1975, n. 151) e sulla fissazione a 18 anni della maggiore età (8 marzo 1975, n. 39), con immediati effetti anche sulla composizione del corpo elettorale (1975); sulla parità tra uomo e donna in materia di lavoro (9 dicembre 1977, n. 903) e sulla disciplina dei suoli (1977); sull’interruzione della gravidanza, sulla chiusura dei manicomi (“legge Basaglia”, 13 maggio 1978, n. 180) e sull’istituzione del servizio sanitario nazionale (23 dicembre 1978, n. 833)»[8].

A dispetto della strategia della tensione e dello stragismo (strage della Questura di Milano del 1973 e strage di Brescia del 1974), per la società civile i primi anni settanta sono gli anni di una straordinaria vivacità e di una nuova attenzione dell’opinione pubblica al funzionamento di tutti gli apparati e, specialmente, della giustizia. A livello istituzionale, è la stagione di una serie di riforme, che sanzionano i cambiamenti profondi della società e attribuiscono sempre nuovi compiti alla magistratura, la quale peraltro, in non pochi casi con nuove interpretazioni e nuove prassi, ha aperto la via al legislatore. Un vero e proprio “circolo virtuoso” tra magistratura e Parlamento.

Con intento polemico si parla di “supplenza della magistratura” e di “pretori d’assalto”, una categoria che va molto al di là degli aderenti a Magistratura democratica, ma in una valutazione retrospettiva si riconosce che si è trattato della «espansione, anzi della vera e propria esplosione, del ruolo della giurisprudenza come fattore di adattamento del diritto alle profonde trasformazioni della nostra realtà sociale, trasformazioni senza precedenti e ricche di collegamenti e convergenze internazionali»[9].

Di questa stagione Salvatore Senese è un protagonista. Insieme ad altri prestigiosi esponenti di Terzo potere, che non condividono la involuzione corporativa del gruppo seguita alla prematura scomparsa di Salvatore Giallombardo, Senese entra in Md nel marzo 1970.

Della vivacità del confronto culturale nei primi anni settanta dà testimonianza la rivista Quale giustizia, diretta da Federico Governatori e gestita da un gruppo di magistrati che fanno riferimento a Magistratura democratica.

Del Senese “pretore d’assalto”, se vogliamo usare questa categoria, cito solo la eccezione di costituzionalità proposta nel 1971, come pretore di Pontasserchio, sui criteri di assegnazione dei processi. Si apre un lungo percorso sull’attuazione effettiva del principio del giudice naturale che, tra timidezze della Corte costituzionale e circolari sulle tabelle del Csm, approda – come lo stesso Senese scriverà – attraverso un «circolo virtuoso che in questa materia si è istituito tra Csm e Parlamento» al primo intervento legislativo con l’art. 25 della l. 6 agosto 1982, n. 532, istitutiva del cd. “Tribunale della libertà”. Senese, nel 1982, quale componente del Csm, si troverà a contribuire alla formazione della circolare attuativa di questa legge, in qualche modo suggellando la via che aveva aperto con la sua eccezione del 1971.

3. Salvatore Senese e Magistratura democratica 

Come ricordato, Senese aderisce a Magistratura democratica nel marzo del 1970 e già nel 1971, alla prima assemblea nazionale di Md, viene nominato vicepresidente. Sin dai primi numeri è tra i collaboratori più assidui di Quale giustizia. La rivista, pubblicata a partire dall’inizio del 1970 sotto la direzione di Federico Governatori, si presenta con caratteri innovativi: ampie rassegne di giurisprudenza di merito, collaborazione di avvocati e professori, informazione tempestiva e documentata sui fatti più rilevanti della magistratura e sulla “politica del diritto” (per riprendere la testata di una rivista accademica, ma innovativa, che sorge nello stesso torno di tempo). Uno spazio del tutto particolare viene riservato alla giustizia costituzionale e alla giustizia del lavoro.

Senese è un protagonista del “Convegno ideologico” di Pisa del 1971, mentre in Md – egli dirà più tardi, con la sua sottile ironia – «si trovava al suo massimo la scapigliatura ideologica»[10]. In termini più accademici, Luigi Ferrajoli rievocherà «gli innumerevoli equivoci e fraintendimenti che, in Italia e più ancora fuori d’Italia, hanno accompagnato la volgarizzazione delle formule “giurisprudenza alternativa” e “uso alternativo del diritto”». La prima formula fu lanciata all’interno di Md nel 1972 e la seconda – non tutti lo ricordano – è il titolo di un paludato accademico convegno che si tenne a Catania nel maggio del 1972. Ferrajoli aggiunge che «allora non fummo consapevoli dei rischi insiti in quelle volgarizzazioni e deformazioni in senso antiformalistico delle posizioni teoriche del gruppo»[11]. Peraltro anche chi, come Giovanni Tarello, ha ritenuto di cogliere una «fitta contestazione ideologica della organizzazione giuridica nel suo complesso» come caratteristica di Magistratura democratica, ha peraltro osservato che ciò «si deve in gran parte alle prassi giurisprudenziali veramente provocatorie della parte più conservatrice della magistratura che, sotto il manto della legge uguale per tutti, si sono sovente risolte in prassi applicative politicamente qualificabili come sovversive di destra: così qualificabili da parte di chiunque (e dico chiunque studioso di diritto) che non si fosse chiuso in casa senza lettura di giornali negli ultimi venti anni e ai ricordi di vecchi manuali scolastici (…) avesse aggiunto qualche lettura ulteriore, e diversa dalle raccolte della giurisprudenza della Suprema Corte»[12]

La valutazione di questo studioso è espressa proprio in un intervento al convegno di Catania del 1972.

In uno scritto fondamentale del 1978[13], sul quale si ritornerà, Senese si misura con i fraintendimenti cui può dar luogo la formula “giurisprudenza alternativa” e non sottace le «inevitabili ingenuità e spontaneismi» che hanno segnato quella fase di Md.

Ma quanto fosse distante Senese dalla “scapigliatura ideologica” lo indica il rigore con il quale, proprio in quegli anni, con una comunicazione al XV Congresso nazionale dell’Anm (Torino 1973), tratta il tema della critica dei provvedimenti giudiziari da parte dei magistrati[14]. È la questione delle cosiddette interferenze, all’origine nel 1969, a seguito dell’“ordine del giorno Tolin”, della scissione di Magistratura democratica e per anni oggetto di roventi polemiche e accuse a Md. Senese si propone, e lo fa da par suo, di affrontare il tema «in termini di critica razionale» e si dà carico della obiezione più seria, quella del «turbamento che le pubbliche prese di posizione inducono nell’animo dei giudici». Non manca di citare il procedimento disciplinare promosso a carico dei componenti della giunta di Milano dell’Anm (Dino Greco, Guido Galli e Domenico Pulitanò) per l’ordine del giorno di dura censura del provvedimento della Cassazione che aveva disposto la remissione a Catanzaro del procedimento per la strage di Piazza Fontana.

Con questo primo contributo del 1973, Senese, per così dire, inaugura il suo impegno nell’Anm. Nel successivo XVI Congresso, tenuto a Bari nel 1976, Senese, in rappresentanza di Magistratura democratica, svolge una relazione sulla riforma dell’ordinamento giudiziario che costituisce il punto di riferimento del dibattito congressuale, come emerge nettamente dalle repliche dei relatori alla conclusione dei lavori[15]. Mi limito a citare uno spunto dalle conclusioni, come indice della sempre praticata problematicità della impostazione di Senese. Dopo aver menzionato «funzione di garanzia, funzione promozionale e funzione di controllo», aggiunge: «La garanzia dalla prevaricazione, dal governo dei giudici, sarà data dal controllo effettivo che su questi eserciterà la comunità; dalla frantumazione del loro potere; dalla loro immersione nella società civile: dal non essere più membri di un corpo separato»[16].

Un anno dopo, all’esito del III Congresso nazionale di Magistratura democratica (Rimini 22-24 aprile 1977), Senese assume, con un gesto di grande generosità, la segreteria della corrente. Il Congresso è segnato da divisioni profonde sul rapporto con le forze della sinistra, sulla analisi del terrorismo e delle risposte legislative approntate per contrastarlo. Ne seguono momenti di radicalizzazione e di aspra contrapposizione al limite della scissione. Una più matura riflessione sui temi di contrasto consente, in un breve arco di tempo, di raggiungere quella sintesi che al Congresso di Rimini era mancata. Senese svolge un ruolo essenziale in questo processo, che viene sanzionato al successivo IV Congresso di Urbino, con la ricomposizione di un quadro largamente unitario e la riconferma di Senese alla segreteria di Md.

Vi è una successione di date, poco nota, ma estremamente significativa. Il 28 aprile 1977, quattro giorni dopo la conclusione del congresso di Rimini, Senese è chiamato a svolgere all’Università di Pisa la relazione introduttiva (e le conclusioni) in un seminario su «La magistratura italiana nel sistema politico istituzionale e nell’ordinamento costituzionale» cui intervengono, tra gli altri, i professori Ugo Natoli, Giuseppe Pera e Alessandro Pizzorusso[17].

È una relazione (all’evidenza frutto di un lavoro di ricerca non improvvisato) che merita di essere riletta per l’attenta ricostruzione storica della vicenda della magistratura dall’età liberale al fascismo e alla democrazia; per l’analisi attenta delle posizioni (anche contraddittorie) assunte dall’Anm; per la sottolineatura della radicale novità rappresentata dal Congresso di Gardone del 1965. Senese, a proposito della «legittimazione a sollevare questione di costituzionalità di una legge», rileva che essa: «costituisce un notevole potere per i giudici, che in tal modo vengono ad essere investiti di una possibilità di controllo sul contenuto delle leggi che sono chiamati ad applicare; si tratta del maggior potere che ai giudici possa essere accordato»[18].

Sul tema Senese ritornerà in uno scritto successivo:
«Per il sistema giudiziario allora in vigore si trattava di una rivoluzione copernicana. Non soltanto la più importante funzione di nomofilachia, cioè quella che attiene alla legittimità costituzionale delle leggi, veniva sottratta alla Corte di cassazione e affidata ad un organo posto fuori del sistema giudiziario, del quale la Cassazione rappresentava il vertice, ma – ciò che più conta – rispetto a tale incisiva funzione (…) la Corte di cassazione veniva a partecipare del medesimo potere di attivazione attribuito ad ogni altro giudice e quindi veniva a trovarsi collocata in posizione di parità rispetto ad essi (…). Per altro verso, il potere-dovere attribuito a ciascun giudice di saggiare la costituzionalità di ogni legge prima di applicarla (…) implica una rivoluzione culturale nello stesso rapporto giudice/ legge»[19].

Ma già nella relazione del 1977 Senese avverte che pluralismo interpretativo non significa «aprire la strada al più incontrollato soggettivismo»[20] e si dà carico delle obiezioni, replicando: «non è mai stato dimostrato che le iniziative dei cosiddetti “pretori d’assalto” si collochino oltre il punto di rottura dell’ordinamento. Certo, non nego che in questa o quella iniziativa dei “pretori d’assalto” questo punto possa essere stato superato, come può avvenire in qualsiasi affare giudiziario; ciò che contesto è la generalizzazione, l’assimilazione della nuova giurisprudenza alla ribellione alla legge»[21].

 Senese fonda la “scelta di campo” sull’art. 3 cpv della Costituzione, che è per Md «la base del proprio programma»[22]. Ma, anche su questo riferimento, Senese si interroga in uno scritto successivo: «non possiamo, oggi, sottrarci ad un’obiezione: che in questo modo tutto viene trasferito nell’impegno a modificare le condizioni materiali che negano la verità dei diritti, con il rischio di impoverire l’impegno specifico sul piano giuridico e istituzionale. Ed infatti la “negazione del ruolo è stata per lungo tempo una delle costanti ideologiche che ha accompagnato Magistratura democratica (…). In quegli anni, in Francia, il Sindacato della magistratura francese celebrava dei congressi che avevano come tema la “morte del giudice” (…). Ciò che ha salvato Magistratura democratica e ha reso feconde queste contraddizioni è stato proprio lo specifico ancoraggio professionale alla concretezza dei problemi e alla densità del reale che la funzione professionale inevitabilmente finiva col ricacciare innanzi a ciascuno di noi»[23].

In questo stesso scritto, del 1992, Senese, che pure aveva sempre avuto contatti assai stretti con il Syndicat de la magistrature, sottolinea che in Md «[c]resce la riflessione sui valori emancipatori, positivi dell’indipendenza del giudice, con una forte differenza, per esempio, rispetto al sindacato francese. Il sindacato francese non si pone il problema dell’indipendenza della magistratura, o meglio, se lo pone di scorcio in un congresso dei primi anni settanta e lo liquida ritenendolo retaggio di una ideologia ormai superata. Cosicché oggi i magistrati francesi si trovano a dover fare i conti con quel retaggio»[24].

Il tema della potenzialità democratica dell’indipendenza come valore per il cambiamento era stato posto da Senese al centro della sua relazione al seminario internazionale organizzato all’Università di Lille, nel 1982[25]. Ma a lungo il Syndicat de la magistrature sconterà la sottovalutazione e la scarsità di riflessione sulle tematiche di ordinamento giudiziario. Il confronto che si svolge nel seminario di Lille trova sbocco, due anni dopo, nella fondazione di Medel (Magistrats européens pour la démocratie et les libertés). Tra i fondatori di Medel, Senese fu animatore della riflessione di quel gruppo nella fase iniziale e, sotto il suo impulso, si ampliò la partecipazione di magistrati di Md a Medel. In Medel, e nei contatti con le associazioni di magistrati degli altri Paesi, Md portò in particolare un contributo di riflessione sugli aspetti ordinamentali della magistratura.

Nell’agosto 1977, Senese redige la presentazione di un corposo fascicolo speciale di Quale giustizia dedicato a «La disciplina dei magistrati»[26]: «Questo fascicolo di Quale giustizia, dedicato esclusivamente al tema dell’ordinamento disciplinare dei magistrati, consta essenzialmente di una analisi critica degli atti di vari procedimenti disciplinari e del tentativo di ricostruzione del più generale contesto politico-istituzionale, nel quale i procedimenti presi in esame sono nati (…). Non occorre spendere molte parole per dimostrare che la figura del “buon giudice”, posta a base degli interventi disciplinari, può essere assai diversa e che a ciascuna delle diverse figure di “buon giudice” corrisponde (tendenzialmente certo, non meccanicamente) una produzione giurisprudenziale, diversamente orientata su tutta una gamma di temi»[27].

Non manca nella presentazione il richiamo alle molteplici iniziative disciplinari che, in quegli anni, erano state promosse contro magistrati di Md per pubbliche prese di posizione. «L’attacco alle libertà costituzionali dei giudici sembra così saldarsi, come momento strumentale e preparatorio, alla chiusura in senso repressivo delle istituzioni (giudici non liberi non possono essere certo garanti di libertà) e, in definitiva, all’attacco delle libertà individuali dei cittadini»[28].

Lungi da una impostazione vittimistica[29], le iniziative disciplinari nei confronti di magistrati di Md vengono inserite nella più generale preoccupazione per una involuzione istituzionale. Non manca, nel fascicolo di Quale giustizia, una “chicca” – verosimilmente proposta da Senese – a conclusione della vicenda disciplinare del giudice Dante Troisi per la pubblicazione dello scritto «Diario di un giudice». Dopo tutti gli atti della vicenda, è pubblicato un contributo che era stato richiesto, si dice, a «un giovane e apprezzato scrittore e studioso di letteratura, Antonio Tabucchi». Il testo, dal titolo «La Giustizia e la giustizia: Ugo Betti e Dante Troisi», propone un grande apprezzamento per il «Diario» di Troisi e una severa stroncatura del dramma di Betti «Corruzione al Palazzo di giustizia»[30].

Nella mozione finale del Congresso di Urbino del 1979, che riconferma Senese alla segreteria di Md, si fa riferimento alla «progettazione di linee di riforma coerenti rispetto ad un complessivo piano della giustizia e, d’altro lato» alla «individuazione di principi generali di orientamento della giurisprudenza come applicazione e sviluppo di grandi linee di politica del diritto che ambiscono a fondare un modello generale e quindi a concorrere a costruire un quadro di riferimento alternativo, tendenzialmente aggregante delle pronunce giudiziarie»[31].

Una impostazione agli antipodi di posizioni settarie e autoreferenziali, che si traduce ancor più chiaramente nella conclusione: «Le medesime linee direttive devono informare la politica di Md nell’ambito della magistratura associata, e su di esse andrà ricercato un confronto con tutti i magistrati che deve estendersi ai problemi della gestione degli uffici giudiziari e nell’ambito del Csm, sì da sottrarli a soluzioni corporative e clientelari che ancor oggi costituiscono uno degli ostacoli alla funzionalità democratica dell’amministrazione giudiziaria. Md intende in particolare ricercare nell’ambito di tutta la magistratura un confronto aperto e scevro da preoccupazioni ideologiche e di gruppo per promuovere un impegno professionale nella lotta al terrorismo che si caratterizzi per l’efficacia dell’intervento coercitivo, il rispetto del principio di legalità, l’orientamento ideale democratico che lo ispira e lo sostiene»[32].

4. Senese, l’Anm e il Csm

Questo impegno per la ricerca del confronto nell’ambito della magistratura associata è tanto più rilevante perché, in questo momento, perdura l’emarginazione di Md dalla dirigenza dell’Anm, che si protrae sin dal 1969. Non è dunque un evento imprevisto la formazione, un anno dopo, di una Giunta esecutiva centrale che vede Magistratura democratica, dopo quasi un decennio in cui era stata relegata all’opposizione, assumere la segreteria generale proprio con Salvatore Senese, mentre alla presidenza è chiamato Adolfo Beria di Argentine.

La Giunta si trovò ad affrontare la difficile situazione della magistratura nel clima della terribile sequenza degli assassini di magistrati ad opera dei terroristi, richiedendo, peraltro senza grande successo, misure di protezione; contribuì a una gestione razionale del sequestro del magistrato Giovanni D’Urso che fu, infine, liberato. Pochi ricordano che la Giunta Anm degli “intellettuali” Beria e Senese fu quella che ebbe il maggior successo “sindacale”, con la normativa sull’adeguamento triennale delle retribuzioni, che sarà decisiva negli anni dell’inflazione a due cifre. Ricordo, per aver fatto parte di quella giunta, come l’autorevolezza dei rappresentanti dell’Anm e la ragionevolezza delle richieste furono elementi decisivi nell’ottenere, prima, ascolto dai responsabili politici; poi, l’adozione della legge.

Nel 1981 Senese viene eletto al Csm; nel precedente Consiglio, il primo eletto nel 1975 con il sistema proporzionale, Md era stata rappresentata da Marco Ramat e Michele Coiro. L’aumento della delegazione da due a tre, ma soprattutto il mutato clima, testimoniato dalla riacquistata legittimazione di Md nell’Anm, comportano l’assunzione di nuove responsabilità. Ora Md in Csm non è relegata e chiusa all’opposizione e non può autolimitarsi a un ruolo di mera testimonianza. Senese, affrontando non poche incomprensioni anche all’interno di Md, guida questa nuova fase.

Alla guida della piccola rappresentanza di Md (3 su 30 componenti del Csm dell’epoca), Senese acquisisce una posizione di autorevolezza e, grazie alla sua capacità di confronto aperto con tutti, riesce a dare impulso e a contribuire a molte delle più importanti iniziative di quel Csm. Quel Csm è il secondo eletto con il sistema proporzionale in collegio unico nazionale, con limitato numero di preferenze. Per dirla con il linguaggio di oggi, è il “Csm delle correnti”. Proprio quel sistema elettorale, con il riconoscimento della realtà delle correnti, ma con la possibilità di esprimere preferenze, assicura libertà di scelta agli elettori, sia pure all’interno della lista. Non mancano “lottizzazioni”, che furono denunciate con vigore già dall’interno del Csm; ma su molti rilevanti temi si creano ampie convergenze. Tra le innovazioni più rilevanti, il regime di pubblicità delle sedute, le iniziative sulla mafia, la “circolare Tamburino” sui pareri dei consigli giudiziari. In quel clima si colloca la sentenza disciplinare 9 febbraio 1983 (estensore Vladimiro Zagrebelsky) sui magistrati aderenti alla Loggia P2 e, più in generale, il maggiore rigore della sezione disciplinare, che “riscoprì” la sanzione della rimozione nei confronti di diversi magistrati a vario titolo compromessi.

Dopo due decenni di sostanziale inapplicazione, nella consiliatura 1981-1986, a seguito di un ampio e approfondito dibattito interno, il Csm rivitalizzò la procedura ex art. 2, approvando con larga maggioranza decisioni di trasferimento in vicende che avevano avuto grande risonanza pubblica (basti citare i casi del procuratore di Roma De Matteo e dei magistrati iscritti alla Loggia P2). È interessante segnalare che la maggioranza delle procedure aperte in quella consiliatura riguardava magistrati che ricoprivano incarichi direttivi o semidirettivi e, in particolare, la funzione di procuratore della Repubblica[33].

Del dibattito che si svolse in quel Csm sull’art. 2 è testimone il parere espresso il 19 settembre 1984 al ddl governativo in tema di «Responsabilità disciplinare ed incompatibilità ambientale» (relatori Bertoni e Senese)[34].

Senese si fece promotore delle «Cronache dal Consiglio» pubblicate nel notiziario di Md, largamente diffuso. Il numero conclusivo del quadriennio mantiene attualità perché, oltre a riferire di alcune vicende specifiche, contiene trattazioni approfondite di molte delle tematiche di fondo con le quali quel Csm si era misurato. Le «Cronache» e, in particolare, quella conclusiva vengono presentate come il rendiconto (allora non si usava parlare di “accountability”) da parte dei consiglieri eletti nella lista di Md. Dato il regime costituzionale di non rieleggibilità, non può operare la sanzione usuale nei confronti dei singoli eletti; la “responsabilità” opera verso il gruppo.

Senese fu tra i promotori, nel 1985, di un convegno sui 25 anni del Csm, al quale ottenne la partecipazione di Robert Badinter, ministro della giustizia sotto la Presidenza Mitterand, il quale era appena riuscito a far abolire la pena di morte.

Il contributo di Senese, che in qualche misura è la conclusione di una analisi proposta due anni prima, costituisce una approfondita e per certi versi innovativa riflessione sul ruolo del Csm.

Nello scritto del 1983[35], Senese aveva proposto la tematica della «Assunzione da parte del Consiglio, di una funzione di orientamento “ideale” della magistratura (che non implica alcuna mortificazione, ma, al contrario, pieno riconoscimento dell’indipedenza istituzionale della funzione) in occasione di vicende che turbano l’opinione pubblica e, implicando contrastanti esigenze istituzionali, richiedono più che mai l’intervento – in senso lato, culturale – di un’istanza come il Consiglio a tutela di fondamentali valori della giurisdizione e della democrazia (…). Il Consiglio superiore è la sede che può rappresentare il punto di riferimento istituzionale deputato a raccogliere le tensioni, i travagli e le elaborazioni della magistratura associata, che può raccordarsi dialetticamente con essa, che può dar voce tra i soggetti politico-istituzionali alla logica dell’istituzione; che di questa può garantire l’indipendenza verso l’esterno, ma anche dagli inquinamenti interni, governandone l’ineliminabile momento organizzatorio-burocratico in modo da non farlo mai prevaricare sulla giurisdizione»[36].

5. Conclusione

Salvatore Senese, in tutte le sue diverse esperienze di “magistrato impegnato”, ha mostrato come la fermezza sui valori, l’impegno in un gruppo come Md, debba unirsi all’ascolto e al confronto rifuggendo sempre da ogni settarismo e dogmatismo.

Ne è testimonianza l’ultimo intervento pubblico di Senese magistrato, nell’aprile 1991, al IX Congresso nazionale di Md ad Alghero. Dopo aver richiamato le «domande di solidarietà, di valorizzazione del soggetto, di eguaglianza sostanziale» che emergono «da una società sommersa rispetto a quella ufficiale», «[i]l diritto e le norme di rango superiore del nostro ordinamento esprimono le aspirazioni e i bisogni di questa società sommersa. È compito, allora, di tutti i giuristi essere fedeli a questa dimensione assiologica e raccordarla alle istituzioni di garanzia».

Senese conclude con indicazioni operative di permanente attualità: «In questo quadro, il discorso sulle alleanze (…) trova le proprie coordinate essenziali. Sviluppare queste indicazioni con pazienza verso i colleghi è fra i nostri compiti nell’associazione: la dimensione associativa è una dimensione in cui noi dobbiamo riuscire, attraverso il dialogo, a mostrare la fallacia di questo orizzonte autoreferenziale in cui ancora si chiude una parte cospicua dei nostri colleghi. Sviluppare queste indicazioni verso i giuristi, è tra i nostri compiti nei confronti della cultura giuridica. Alimentarle con un’attenzione vigile al sociale, è un nostro compito verso la società»[37].

 

[1] In corsivo nel testo originale.

[2] Il documento è pubblicato sulla rivista dell’Anm La Magistratura, nn. 9-10 (settembre-ottobre), 1964.

[3] Sulla situazione della magistratura dell’epoca, si veda E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari, 2018, in particolare il cap. 2.

[4] Vds. Associazione nazionale magistrati, XII Congresso nazionale. Brescia-Gardone 25-28/IX/1965. Atti e commenti, Arti grafiche Jasillo, Roma, 1966, pp 309-310. Il testo completo della mozione si può trovare anche in A. Pizzorusso (a cura di), L’ordinamento giudiziario, Il Mulino, Bologna, 1974, p. 31 (in nota).

[5] Lelio Basso, che nell’Assemblea costituente era stato uno degli ispiratori di una delle norme cardine della Costituzione, l’art. 3 comma secondo, in quegli anni aveva dedicato grande attenzione ai temi della giustizia con un volume del 1958, poi ripubblicato con prefazione di S. Rodotà: L. Basso, Il principe senza scettro, Feltrinelli, Milano, 1998.

[6] Trascrizione dalla registrazione dell’intervento pubblicata in Storia di un magistrato. Materiali per una storia di Magistratura democratica, Manifestolibri, Roma, 1986, p. 67.

[7] S. Senese, Le vicende del pluralismo nella magistratura italiana, in Democrazia e diritto, nn. 4-5/1986, p. 51.

[8] S. Rodotà, Libertà e diritti in Italia dall’Unità ai giorni nostri, Donzelli, Roma, 1997, pp. 109 e 112.

[9] M. Cappelletti, Giudici legislatori, Giuffrè, Milano, 1984, p. 1.

[10] S. Senese, La vicenda culturale e politica di Magistratura democratica, in N. Rossi (a cura di), Giudici e democrazia. La magistratura progressista nel mutamento istituzionale, collana Quaderni di Questione giustizia, Franco Angeli, Milano, 1994, p. 95.

[11] L. Ferrajoli, Per una storia delle idee di Magistratura democratica, in N. Rossi (a cura di), Giudici e democrazia, op. ult. cit., p. 67.

[12] G. Tarello, Orientamenti della magistratura e della dottrina sulla funzione del giurista-interprete, in Politica del diritto, nn. 3-4/1972, p. 487.

[13] S. Senese, Relazione, in G. Pera (a cura di), La magistratura italiana nel sistema politico e nell’ordinamento costituzionale. Atti del seminario, Giuffrè, Milano, 1978, p. 65.

[14] S. Senese, La critica dei provvedimenti giudiziari da parte dei magistrati, in N. Lipari (a cura di), Giustizia e informazione. Atti del XV Congresso dell’Associazione nazionale magistrati, Laterza, Roma-Bari, 1975, pp. 243 ss.

[15] Gli atti del Congresso sono pubblicati in V. Mele (a cura di), Giustizia e politica delle riforme, Dedalo Libri, Bari, 1978. Vds. la relazione di Senese (pp. 163- 233) e le repliche degli altri relatori (pp. 479-497).

[16] Ivi, p. 233.

[17] Vds. G. Pera (a cura di), La magistratura italiana, op. cit.

[18] S. Senese, Relazione, ivi, p. 42.

[19] S. Senese, Le vicende del pluralismo, op. cit., p. 40.

[20] S. Senese, Replica e conclusioni, in G. Pera (a cura di), La magistratura italiana, op. cit., p. 122.

[21] Ivi, p. 129.

[22] Ivi, p. 65.

[23] S. Senese, La vicenda culturale e politica, op. cit., pp. 103-104.

[24] Ivi, p. 106.

[25] S. Senese, L’indépendance est-elle aussi une valeur pour le changement?, in J.-P. Royer (a cura di), Être juge demain. Belgique, Espagne, France, Italie, Pays-Bas, Portugal, R.F.A., Presses Universitaires de Lille, Lille, 1983, pp. 41 ss.

[26] Quale giustizia, nn. 38-39/1977. Il fascicolo è stato redatto da Giuseppe Borrè, Pierluigi Onorato, Alessandro Pizzorusso e Salvatore Senese, che firma la presentazione (pp. 171-202).

[27] Ivi, pp. 171-172.

[28] Ivi, pp. 199-200.

[29] Su queste iniziative disciplinari vds. anche Aa. Vv., Magistrati scomodi. Un tentativo di epurazione, collana Quaderni di Magistratura democratica (n. 1), Dedalo libri, Bari, 1974.

[30] Un caso esemplare: Dante Troisi, in Quale giustizia, nn. 38-39/1977, pp. 233- 234.

Ugo Betti, magistrato dal 1921, pubblica liriche, novelle e soprattutto numerosi testi teatrali. «Corruzione al Palazzo di giustizia», rappresentato a Roma il 7 gennaio 1949, è il suo dramma più famoso, che gli procura vari premi, ma anche qualche critica.

[31] La mozione conclusiva del Congresso di Urbino è pubblicata in appendice a Magistratura democratica, Poteri e giurisdizione. Atti del VI Congresso nazionale, Jovene, Napoli, 1978. Il passo citato è a p. 511.

[32] Ivi, p. 512.

[33] Per un’ampia documentazione al riguardo, vds. Magistratura democratica, Cronache dal Csm, in Notiziario bimestrale di Md, nn. 23-24, 1986, pp. 142 ss.

[34] Pubblicato come I Quaderno della Relazione al Parlamento sullo stato della giustizia; vds., in particolare, pp. 55-68. Nel parere, con riferimento ai due principali rilievi critici, si richiamano la giurisprudenza della Corte costituzionale, che della nozione di «prestigio dell’ordine giudiziario» aveva offerto una lettura aggiornata come «fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria e nella credibilità di essa» (sentenza n. 100/1981), e le garanzie di contraddittorio introdotte già nella consiliatura 1976-1981 e ulteriormente sviluppate (p. 59).

[35] S. Senese, Il Consiglio superiore della magistratura: difficoltà dell’autogoverno o difficoltà della democrazia?, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 3/1983, pp. 477 ss.

[36] Ivi pp. 498 e 513.

[37] S. Senese, I giudici e il dovere della politica, in L. Pepino e N. Rossi (a cura di), Democrazia in crisi e senso della giurisdizione, Franco Angeli, Milano, 1993, p. 80.

 

17/12/2019
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La recensione al libro di Ennio Tomaselli (Manni, 2024)

07/12/2024
Il caso della consigliera Rosanna Natoli. E’ venuto il momento del diritto?

Se nella vicenda della consigliera Rosanna Natoli l’etica, almeno sino ad ora, si è rivelata imbelle e se gran parte della stampa e della politica hanno scelto il disinteresse e l’indifferenza preferendo voltarsi dall’altra parte di fronte allo scandalo cha ha coinvolto un membro laico del Consiglio, è al diritto che occorre guardare per dare una dignitosa soluzione istituzionale al caso, clamoroso e senza precedenti, dell’inquinamento della giustizia disciplinare. L’organo di governo autonomo della magistratura può infatti decidere di agire in autotutela, sospendendo il consigliere sottoposto a procedimento penale per delitto non colposo, come previsto dall’art. 37 della legge n. 195 del 1958, contenente norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura. Questa peculiare forma di sospensione “facoltativa” può essere adottata con garanzie procedurali particolarmente forti per il singolo consigliere - la votazione a scrutinio segreto e un quorum deliberativo di due terzi dei componenti del Consiglio – ed è regolata da una normativa speciale, non abrogata né in alcun modo incisa dalle recenti disposizioni della riforma Cartabia che mirano a garantire il cittadino da effetti civili o amministrativi pregiudizievoli riconducibili al solo dato della iscrizione nel registro degli indagati. Le questioni poste dal caso Natoli sono troppo gravi e serie per farne materia di cavilli e di vuote suggestioni e per tutti i membri del Consiglio Superiore è venuto il momento dell’assunzione di responsabilità. Essi sono chiamati a decidere se tutelare l’immagine e la funzionalità dell’organo di governo autonomo o se scegliere di rimanere inerti, accettando che i fatti già noti sul caso Natoli e quelli che potranno emergere nel prossimo futuro pongano una pesantissima ipoteca sulla credibilità e sull’efficienza dell’attività del Consiglio Superiore. 

02/09/2024
L’imparzialità dei giudici e della giustizia in Francia…in un mondo dove gravitano i diritti fondamentali

Un viaggio nella storia del pensiero giuridico alla luce dell’esperienza francese, sulle tracce di un concetto connaturato al funzionamento della giustizia, reattivo ai tentativi di soppressione o mascheramento tuttora capaci di incidere sul ruolo del magistrato all’interno della società. Una società complessa e plurale, di cui egli è parte attiva a pieno titolo. Nella lucida e personalissima testimonianza di Simone Gaboriau, l’imparzialità emerge come principio-cardine dell’ordine democratico, fondato – necessariamente – sull’indipendenza dei poteri che lo reggono.
Pubblichiamo il contributo nella versione italiana e nella versione originale francese. 

16/05/2024
L’imparzialità del giudice: il punto di vista di un civilista

Il tema dell’imparzialità del giudice, di cui molto si discute riferendosi soprattutto all’esercizio della giurisdizione penale, presenta spunti di interesse anche dal punto di vista civilistico. Se è ovvio che il giudice debba essere indipendente e imparziale, meno ovvio è cosa per “imparzialità” debba intendersi. Si pongono al riguardo tre domande: se e quanto incidono  sull’imparzialità del giudice le sue convinzioni ideali e politiche e il modo in cui egli eventualmente le manifesti; se  l’imparzialità debba precludere al giudice di intervenire nel processo per riequilibrare le posizioni delle parti quando esse siano in partenza sbilanciate; entro quali limiti la manifestazione di un qualche suo pre-convincimento condizioni  l’imparzialità del giudice all’atto della decisione. Un cenno, infine, all’intelligenza artificiale e il dubbio se la sua applicazione in ambito giurisdizionale possa meglio garantire l’imparzialità della giustizia, ma rischi di privarla di umanità. 

04/05/2024
I test psicoattitudinali: la selezione impersonale dei magistrati

Certamente il lavoro del magistrato è molto impegnativo sul piano fisico, mentale e affettivo e vi sono situazioni - presenti, del resto, in tutte le professioni - in cui una certa vulnerabilità psichica può diventare cedimento e impedire l’esercizio sereno della propria attività. Esse si risolvono con istituti già presenti nell’ordinamento come la “dispensa dal servizio” o il “collocamento in aspettativa d’ufficio per debolezza di mente o infermità”. Invece il progetto di introdurre test di valutazione psicoattitudinali per l’accesso alla funzione di magistrato è inopportuno sul piano del funzionamento democratico delle Istituzioni e inappropriato sul piano psicologico perché, da un lato, sposta l’attenzione dal funzionamento complessivo della Magistratura come istituzione all’“idoneità” del singolo soggetto e, dall’altra, non prende in considerazione il senso di responsabilità , la principale qualità che deve avere un magistrato e la sola che valorizza appieno la sua competenza e cultura giuridica. 

03/04/2024