Dopo il nostro articolo su "Formazione dei magistrati e giustizia riparativa", riceviamo e pubblichiamo un contributo sulla vicenda.
Sono un magistrato, e ho il mio buon attestato di partecipazione al corso sulla giustizia riparativa, Scandicci 3-5 febbraio 2016.
Un corso del quale (mai così diligente come stavolta) avevo stampato il programma già a casa, apprendendo anzitempo che alle 9.30 del giovedì 4 febbraio erano in scaletta delle testimonianze sulle tematiche rapporto reo/vittima; le persone offese e il processo penale; il reo, la sanzione e il reinserimento sociale.
Scendendo in basso con lo sguardo leggo “il prof. Adolfo Ceretti, ordinario di criminologia nell’Università degli studi di Milano Bicocca, mediatore, intervista:”; dopo i due punti, sotto, in fila, in un elenco puntato con dei pallini neri, quei nomi. Quei testimoni. Un elenco unico di cinque, ma diviso in due parti; l’ordine alfabetico Milani, Moro, Rossa, riprendeva infatti daccapo dopo il terzo, recitando Bonisoli, Faranda. Prima i testimoni vittime, poi i testimoni rei.
Al mio arrivo a Scandicci, dentro alla cartellina blu il programma era già diverso; quell’elenco non c’era più.
Accade così che il giovedì mattina un ingombrante vuoto si assedia nell’aula della formazione permanente, non ci sono i testimoni, sì, ma mancano anche i custodi delle loro testimonianze: insomma, l’esperimento scientifico, a base empirica – mi piace ripetere le parole con le quali Claudia Mazzuccato ha descritto quello che sarebbe accaduto lì dentro – non poteva riuscire senza i reagenti.
Chi c’è stato ricorda: la richiesta lettura del comunicato diffuso dal comitato direttivo, l’apertura di un dibattito cercato e alimentato senza alcuna polemica, solo con il desiderio di elaborare.
Quel che è stato prima, tutto ciò che è nel mezzo tra quel primo elenco e il vuoto del giovedì mattina è dentro una bolla, così delicata, così sottile e fragile, che ho paura che il solo fiato la rompa. Non mi azzarderò ad avvicinarmi.
Piuttosto, da magistrato, vorrei analizzare quanto è accaduto in questi giorni seguendo due direttrici, l’una direi più “interna” al sistema giudiziario, l’altra con ripercussioni “esterne”.
Partendo dalla prima, essa riguarda il rapporto tra Scuola Superiore della Magistratura e Consiglio Superiore della Magistratura. Un rapporto che, fino a questo momento, credevo fosse delineato anzitutto da una stretta delimitazione delle competenze della prima: ad essa la formazione iniziale e permanente dei magistrati, al Consiglio tutto il resto.
Delimitazione che veniva compensata da una pregnante autonomia della stessa dall’organo di autogoverno nell’ambito del proprio campo di attribuzione. “Struttura didattica autonoma” viene descritta all’art. 1 comma 3 del decreto legislativo n. 26 del 2006, che la istituisce; in cui i componenti del comitato direttivo esercitano le proprie funzioni in condizioni di indipendenza rispetto all’organo che li ha nominati (il Consiglio appunto, per la maggior parte; art. 8) e programmano l’attività didattica della Scuola avvalendosi delle proposte del Consiglio superiore della Magistratura, nonché del Ministro della Giustizia, del Consiglio nazionale forense, dei consigli giudiziari, del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione, e dei componenti del Consiglio universitario nazionale esperti in materie giuridiche.
Da figlia minore della Scuola (esco dal ciclo appena chiuso di formazione iniziale) posso dire, a garanzia della consegna di una visione quanto più possibile scevra da suggestioni, che ho percepito la dicotomia Scuola/CSM-Consigli giudiziari nel suo difficile coordinamento in fase di tirocinio negli uffici, che tante volte l’ho criticata, e che forse altrettante volte ho ringraziato questi momenti di “respiro teorico”, di riflessione sul “come” quando in ufficio si era portati, per ragioni anche di tempi tecnici, a concentrarsi più sul “cosa”.
In ogni modo, questo dato, quello dell’autonomia intendo, appariva incontrovertibile. Fino a giovedì scorso. Fino a quando il Comitato di presidenza del CSM ha espresso un parere, certamente non vincolante, sulle scelte formative della Scuola. Un parere recepito dal Comitato direttivo, che ha annullato l’incontro.
Io mi domando: è questo un sistema di collegamento tra i due organi rituale? E se non lo è, come deve interpretarsi quanto accaduto? E ancora, deve essere registrato, elaborato, istituzionalizzato?
La seconda prospettiva, come detto, è esterna. Anche la sua analisi, si chiuderà, ahimè con una domanda.
Io non ho vissuto quegli anni, non ci sono nata dentro. Ma quegli anni li ho sentiti, cento mille volte; ogni volta che si è celebrato un processo, un mancato processo, è stata comminata una condanna, una mancata condanna; quegli anni li ho letti, dentro a cento altre cose, cento altri momenti di questa nostra Repubblica. Me ne sono sentita fuori, quando altre, tante volte, chi vi era vivo dentro mi ha detto “ma tu non c’eri in quegli anni, non sai come è stato, come ci sentivamo; non sai cosa era prendere un treno, stare in mezzo a una folla”.
Da mercoledì di questa settimana appena trascorsa, d’improvviso, mi ci sono sentita in mezzo. Oggi, mi ci sento in mezzo, dentro, immersa fino al collo; tirata giù, come se fossi finita in qualcosa di pesante, come se l’aria intorno si fosse riempita della polvere di una esplosione, che non ci fa muovere. E realizzo, che siamo tutti fermi. Fermi come ciò che è accaduto. Fermi come rimane fermo chi è vittima di un crimine grave, di una violenza, di quella rottura della relazione che congela la vittima nel tempo costante e perpetuo dell’aver subito un reato; quella perdita, che segna l’essere se stessi rispetto al mondo, rispetto a certi gesti, a certe abitudini, a certi luoghi.
Dall’altra parte di questo stallo c’è il reo, che non conosce il suo reato fino a quando non ne sente il racconto dalla voce della sua vittima.
In questi due mondi ciascuno rimane ibernato.
Nel pomeriggio di mercoledì, le parole di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzuccato ci hanno raccontato quel gelo. Anzi, è il gelo che ci ha attraversato; quello della irrimediabilità, che ho sentito come italiana, prima che come magistrato. Un gelo che ho sentito tanto più irrimediabile, perché, proprio in quanto magistrato, sono stata esclusa dall’opportunità di attraversarlo.
Come se, essere un magistrato, piuttosto che consentirmi di conoscere quante più cose sul mondo, piuttosto che impormi di capire quante più cose del mondo, per poterle discernere, per poterle “giudicare”, mi renda invece accessibile solo da parte di chi meriti di essere visto.
Come se sul loro percorso questi uomini e queste donne non avessero già incontrato altri e tanti magistrati, che oltre ad “attribuire responsabilità” e “esercitare controllo”, sono stati parte di incontri “spiazzanti” e per questo “consapevoli o inconsapevoli costruttori di cammini di giustizia”, come giovedì mattina è stato letto dal libro che racconta quell’esperimento durato otto anni.
Da giudice di sorveglianza, ho appreso subito, in tirocinio negli uffici degli affidatari e adesso nel mio, che quella stanza deve essere accessibile a tutti; i condannati, che espiano pene in forma alternativa, quando sono io a convocarli o quando sono loro a chiedere di parlarmi, ma anche i loro familiari. In carcere non interrogo, ascolto: condannati per i delitti gravissimi, omicidi aggravati dal metodo mafioso, violenze sessuali su minori. Tutti, meritano di essere ascoltati.
Spesso mi domando che cosa sappiano davvero queste persone di quello che hanno fatto; quanto la giustizia ordinaria abbia saputo spiegar loro cosa è il reato che hanno commesso.
Ebbene, in questo corso avevo cercato l’occasione, anelatissima per un giudice di sorveglianza di fruire della testimonianza di un caso in cui, dopo la giustizia ordinaria, tutta quella che lo Stato ha potuto e ha saputo garantire, questa conoscenza sia stata efficacemente recuperata dall’autore di crimini gravissimi contro lo Stato e contro la persona.
Ma mi fermo. Capisco di star avvicinandomi troppo a quella delicatissima bolla. Io stessa nello scrivere ripiombo nella gravità del senso intimo di offesa allo Stato, che come chi è nato dentro a quegli anni anche io sento addosso, ora più che mai.
Mi fermo al fatto che è stato dichiarato: la nostra sede, non era la sede opportuna, perché “inopportuno” è stato reputato “coinvolgere nella formazione della Scuola persone condannate per gravissimi reati di terrorismo”. E allora mi domando: che possa trovarsi una sede che non sia così inopportunamente istituzionale, ma che lo sia come e quanto serve che lo sia?
Che a distanza di anni, possiamo anche noi istituire una Commissione per la riconciliazione, a base volontaria, partecipata dalla collettività? Che si possa trovare un posto in cui non si agiti il vento impetuoso, non tutto muova il terremoto, non tutto distrugga il fuoco, ma si oda il mormorio di un vento leggero? Quello in cui Elia riconobbe Dio, quello cui venerdì Fabio Gianfilippi ha paragonato il dialogo che si instaura tra vittima e reo nella giustizia riparativa.
E allora, sul solco dell’insegnamento costruttivo degli esperti di giustizia riparativa che abbiamo avuto il piacere di ascoltare, che possa da questo evento nascere una buona occasione per la nostra Repubblica, per la nostra storia condivisa, per la nostra unità nazionale?