In questi ultimi anni la Corte Costituzionale sembra essersi assunta il compito di riportare il diritto, almeno il diritto del lavoro, a confrontarsi con quella che Paolo Grossi chiamava la «fangosità dei fatti»[1], quindi con il mondo di fuori e con le vite delle persone che lo abitano.
Lo ha fatto da ultimo con la sentenza n. 59 del 2021, quando ha affermato, con ammirevole understatement, che la diversità delle tutele previste dal nuovo testo dell’art. 18 della L. 300/1970, (come modificato dalla L. 92/2012), ha «implicazioni notevoli», così che, nel delimitare il relativo ambito applicativo il legislatore «è vincolato al rispetto dei princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza»[2].
Un’affermazione che smentisce con una certa evidenza l’assunto, in precedenza diffuso in giurisprudenza come in dottrina, secondo cui i confini della reintegrazione (e per contro del risarcimento del danno derivante da un licenziamento dichiarato illegittimo) restavano rimessi alla libera discrezionalità del legislatore, non essendo la reintegrazione un rimedio costituzionalmente necessario e approntando comunque la legge un’adeguata sanzione (seppure solo monetaria) al licenziamento illegittimo.
La Corte riporta invece i duri fatti, i nudi fatti all’interno del ragionamento giuridico e afferma che quella tra reintegra, pur nella forma attenuata, e risarcimento del danno, è un’alternativa che deve essere governata dal principio di ragionevolezza perché si dà tra «due forme di tutela profondamente diverse». Una diversità che si coglie con certa evidenza se si ha riguardo appunto al mondo di fuori, agli effetti di quelle tutele sulle vite dei lavoratori, lavoratori, si rammenti, licenziati illegittimamente, attori vittoriosi secondo il diritto sostanziale, magari uomini e donne ultracinquantenni non particolarmente qualificati, per i quali la possibilità di trovare, dopo un licenziamento, un qualsiasi diverso decent work sarebbero, al momento, praticamente prossime allo zero e per i quali quindi essere o non essere reintegrati ha davvero «implicazioni notevoli».
Non è del resto la prima volta che la Corte porta il diritto del lavoro a radicarsi nei fatti, nella realtà della disparità di fatto che è coessenziale al rapporto di lavoro. Era già avvenuto negli anni Sessanta e Settanta a proposito della prescrizione dei crediti di lavoro e della sua sospensione.
Le decisioni sono più che note.
La prima è la sentenza del 10 giugno 1966 n. 63 con la quale il Giudice delle leggi ha «dichiarato la illegittimità costituzionale degli artt. 2948 n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, del Codice civile limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro e non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2948, n. 5, del Codice civile proposta, in riferimento agli artt. 3, 4 e 36 della Costituzione, con l'ordinanza citata in epigrafe».
Scrive la Corte in motivazione che «dato che la prescrizione è modo generale d'estinzione dei diritti, la garanzia costituzionale d'un diritto non vieta, di per sé, che esso si estingua per il decorso del tempo: la tutela costituzionale dà al diritto soggettivo una forza maggiore di quella che gli deriverebbe dalla legge ordinaria; ma non lo rende necessariamente perpetuo poiché, se alla base della prescrizione sta un'esigenza di certezza dei rapporti giuridici, questa tocca di regola qualunque diritto, compresi quelli costituzionalmente garantiti.
2. - Vero è che nel nostro ordinamento non sono soggetti a prescrizione i diritti indisponibili (art. 2934 del Codice civile); ma l'indisponibilità del diritto alle prestazioni salariali non è sancita nell'art. 36 né si ricava da altre norme della Costituzione: ad esso il lavoratore non può rinunciare, come si desume a fortiori dall'ultimo comma dello stesso art. 36, che stabilisce l'irrinunciabilità del diritto alle ferie e al riposo settimanale; ma l'irrinunciabilità, essendo concetto meno ampio dell'indisponibilità richiamata dal Codice civile, non basta a rendere perpetuo un diritto soggettivo...
3. - Però, se il diritto alle prestazioni salariali può prescriversi, non tutto il regime della prescrizione è compatibile colla speciale garanzia che deriva dall'art. 36 della Costituzione.
In un rapporto non dotato di quella resistenza, che caratterizza invece il rapporto d'impiego pubblico, il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti; dimodoché la rinuncia, quando è fatta durante quel rapporto, non può essere considerata una libera espressione di volontà negoziale e la sua invalidità è sancita dall'art. 36 della Costituzione: lo stesso art. 2113 del Codice civile, che la giurisprudenza ha già inquadrato nei principi costituzionali, ammette l'annullamento della rinuncia proprio se questa è intervenuta prima della cessazione del rapporto di lavoro o subito dopo. In sostanza si è voluto proteggere il contraente più debole contro la sua propria debolezza di soggetto interessato alla conservazione del rapporto.
Le norme impugnate, in verità, non si riferiscono al negozio di rinuncia; però consentono che la prescrizione prenda inizio dal momento in cui matura il diritto a ogni singola prestazione salariale: se si eccettua il n. 5 dell'art. 2948, il termine prescrizionale decorre fatalmente anche durante il rapporto di lavoro poiché non vi sono ostacoli giuridici che impediscano di farvi valere il diritto al salario. Vi sono tuttavia ostacoli materiali, cioè la situazione psicologica del lavoratore, che può essere indotto a non esercitare il proprio diritto per lo stesso motivo per cui molte volte è portato a rinunciarvi, cioè per timore del licenziamento; cosicché la prescrizione, decorrendo durante il rapporto di lavoro, produce proprio quell'effetto che l'art. 36 ha inteso precludere vietando qualunque tipo di rinuncia: anche quella che, in particolari situazioni, può essere implicita nel mancato esercizio del proprio diritto e pertanto nel fatto che si lasci decorrere la prescrizione.
Entro questi limiti la questione è fondata: il precetto costituzionale, pur ammettendo la prescrizione del diritto al salario, non ne consente il decorso finché permane quel rapporto di lavoro durante il quale essa maschera spesso una rinuncia».
Il percorso argomentativo della Corte è chiaro: nessun ostacolo giuridico precluderebbe il decorso della prescrizione nel corso del rapporto, vi sono invece «ostacoli materiali», nudi fatti appunto, e quindi «la situazione psicologica del lavoratore», il suo «timore del licenziamento», «la sua propria debolezza di soggetto interessato alla conservazione del rapporto». E quella speciale debolezza resta esclusa solo dall’esistenza di un rapporto di lavoro dotato di una resistenza analoga a quella propria dell’impiego pubblico.
La Corte ribadì questi assunti nel 1969 con la sentenza n. 143, con la quale dichiarò non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, del decreto legge 19 gennaio 1939, n. 295, sulla prescrizione biennale di stipendi, pensioni ed emolumenti dovuti dallo Stato, convertito in legge 2 giugno 1939, n. 739, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione. In quel caso escluse il vizio di costituzionalità sul presupposto della forza di resistenza del rapporto di impiego pubblico, «data da una disciplina che normalmente assicura la stabilità del rapporto, o dalle garanzie di rimedi giurisdizionali contro l’illegittima risoluzione di esso, le quali escludono che il timore del licenziamento possa indurre l’impiegato a rinunziare ai propri diritti».
Infine nel 1972, con la sentenza 174, la Consulta fu chiamata a confrontare gli esiti della propria giurisprudenza con la disciplina limitativa dei licenziamenti nel frattempo introdotta (la l. 604/1966 e lo Statuto dei Lavoratori).
In motivazione la Corte si chiese «se per effetto di tali innovazioni legislative» non fosse «venuto meno, per i rapporti regolati dalle norme ricordate, il fondamento giuridico su cui poggiava la parziale invalidazione statuita con la sentenza n. 63 del 1966». E ricordò come già con la sentenza n. 143 del 1969, avesse ritenuto che «il principio con quella affermato non dovesse trovare applicazione tutte le volte che il rapporto di lavoro subordinato» fosse «caratterizzato da una particolare forza di resistenza, quale deriva da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca le garanzie di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione», per concludere che «tale interpretazione, fatta allora valere per i rapporti di pubblico impiego statali, anche se di carattere temporaneo, debba trovare applicazione in tutti i casi di sussistenza di garanzie che si possano ritenere equivalenti a quelle disposte per i rapporti medesimi».
Sul punto, decisivo, la Corte aggiunse poi che «una vera stabilità non si assicura se all'annullamento dell'avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare».
Il Giudice delle leggi aveva così stabilito una chiara relazione tra assenza di una disciplina di stabilità del rapporto, cioè assenza di rimedi consistenti nella «completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare», timore del licenziamento e sospensione della prescrizione in corso di rapporto.
E la Corte di Cassazione si era posta, doverosamente almeno ad avviso di chi scrive, nel solco di una giurisprudenza costituzionale che ancorava la sospensione della prescrizione al fatto, all’esistenza di «ostacoli materiali», di una situazione di metus affermando, con orientamento consolidato, che ai fini della sospensione fosse decisivo il concreto atteggiarsi del rapporto nel momento del suo svolgersi, indipendentemente dalla disciplina doverosa di quel rapporto e quindi in ipotesi dalla diversa normativa garantistica che avrebbe dovuto astrattamente regolarlo, ove questo fosse sorto fin dall'inizio con le modalità e la disciplina che il giudice, con un giudizio necessariamente ex post, avrebbe poi ritenuto applicabili (così Cass. 4520/2000, e poi ex plurimis Cass. 23277/2004, Cass. 1717/2009, Cass. 12553/2014, Cass. 22172/2017).
Non vi era d’altra parte dubbio in giurisprudenza sul fatto che il regime di stabilità del rapporto idoneo ad escludere la sospensione della prescrizione coincidesse, per la generalità dei casi, con quello dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n 300, prima delle modifiche apportate dalla L. 92/2012.
E’ allora piuttosto evidente come l’entrata in vigore della L. 92/2012 e ancor più del D.L.gs. 23/2015 abbia imposto ai giudici di verificare la sorte dei principi affermati dalla Corte Costituzionale nel diverso contesto normativo: li abbia indotti cioè a chiedersi se il differente regime delle sanzioni del licenziamento illegittimo in quello che era l’ambito applicativo dell’art. 18 L. 300/1970 abbia o meno inciso sulle condizioni cui il Giudice delle leggi aveva ancorato il decorso della prescrizione in corso di rapporto o invece la sua sospensione.
Le soluzioni offerte dalla giurisprudenza di merito sono state diverse, anzi opposte.
Secondo un primo orientamento giurisprudenziale (cfr. tra le altre Corte d’Appello Brescia 259/2022, Corte d’Appello Milano 26.2.2020 n. 81, Tribunale di Napoli, 7343/2019) la prescrizione decorrerebbe comunque in corso di rapporto, in quanto il nuovo testo dell’art. 18 continua a riconoscere la tutela reintegratoria, per quanto solo in relazione a talune causali del recesso e in ogni caso nelle ipotesi di licenziamento ritorsivo, e assicura comunque in alternativa una tutela indennitaria di importo ragionevolmente dissuasivo.
Per contro un orientamento di segno opposto (ad oggi per quanto consta maggioritario (Corte di Appello di Torino 33/2020 e 53/2022, Trib Mi 31.3. 2021, Corte d’Appello di Milano 1352/2021, Corte d’Appello di Venezia, 28.10.2021, Corte d’Appello di Roma 28.9.2021, Corte d’Appello di Firenze 25.2.2020 e 29.6.2021) assume invece che, dopo l’entrata in vigore della L. 92/2012, i termini prescrizionali restino sospesi in corso di rapporto anche nell’ambito applicativo dell’art. 18, in quanto la tutela reintegratoria è prevista solo in relazione ad alcune tipologie di recesso, così che nel corso del rapporto il lavoratore si troverebbe in una condizione obiettiva di incertezza in ordine alla tutela che potrebbe essergli accordata in caso di licenziamento illegittimo, tale da integrare il metus di cui dicono le sentenze della Corte Costituzionale.
Sembra a chi scrive che la scelta tra le due soluzioni non possa prescindere dalle ricordate decisioni del Giudice delle leggi, considerata, non solo l’autorevolezza della fonte, ma soprattutto il fatto che si tratti (almeno quanto alle sentenze 63/1966 e 174/1972) di sentenze di accoglimento, come tali idonee ad incidere, per quanto interessa, sul contenuto precettivo delle norme codicistiche in materia di prescrizione.
Merita allora ribadire come la Corte Costituzionale abbia posto espressamente a fondamento della sospensione della prescrizione nel corso del rapporto di lavoro, non un ostacolo giuridico, ma una condizione di fatto, propria dei lavoratori e delle lavoratrici, la loro «debolezza di soggetti interessati alla conservazione del rapporto» di lavoro e il loro timore di perderlo e abbia altrettanto chiaramente ancorato, per contro, la decorrenza del termine all’esistenza di un regime di stabilità del rapporto di lavoro «dotato di quella resistenza», «che caratterizza … il rapporto d'impiego pubblico», perciò di un sistema di garanzie che «assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca le garanzie di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione» e in specie la «completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare».
Questa ineliminabile relazione, assunta dal Giudice delle leggi, tra regime della prescrizione e condizione di fatto di metus del lavoratore e della lavoratrice e il riferimento della Corte al modello di stabilità del rapporto propria dell’impiego pubblico impongono allora di ritenere che la prescrizione possa decorrere solo quando la reintegrazione sia e appaia essere la sanzione «contro ogni illegittima risoluzione» nel rapporto che veda quel lavoratore e quella lavoratrice come parti e al momento dello svolgimento in fatto del rapporto medesimo (come era ed è appunto per i lavoratori pubblici e come era, nell’ambito applicativo dell’art. 18 pre-Fornero, per i lavoratori regolarmente assunti da imprese cui l’art. 18 fosse applicabile).
Solo in tal caso infatti il lavoratore e la lavoratrice non avrebbero ragioni di temere per la sorte del loro rapporto di lavoro ove intendessero far valere, nel corso di quel rapporto, i loro crediti in confronto della controparte datoriale e solo in tal caso, del resto, potrebbe prospettarsi l’esistenza di un regime di stabilità «dotato di quella resistenza, che caratterizza … il rapporto d'impiego pubblico».
Non può allora condividersi la soluzione interpretativa che assume che sia invece sufficiente a consentire la decorrenza della prescrizione in corso di rapporto il fatto che la reintegrazione sia comunque una delle sanzioni previste dalla legge a fronte dell’illegittimità del licenziamento intimato.
Ciò in primo luogo in quanto si tratta di una lettura evidentemente in contrasto con l’indicazione, contenuta nelle decisioni costituzionali sopra richiamate, del lavoro pubblico come parametro del grado di «resistenza», di stabilità del rapporto, idoneo ad eliminare il metus del lavoratore. Ma anche perché è proprio l’esistenza di un’incertezza oggettiva circa la protezione assicurata dalla legge in caso di recesso anche giudizialmente ritenuto illegittimo a determinare nel lavoratore una situazione psicologica che può spingerlo a non esercitare il proprio diritto per timore di essere licenziato.
D’altra parte neppure può darsi rilievo, ai fini che interessano, alla circostanza che la legge preveda comunque tutele indennitarie anche forti a fronte della ritenuta illegittimità del licenziamento, giacché il Giudice delle leggi ha affermato, con assoluta chiarezza nella sentenza 174/1972, che «una vera stabilità non si assicura se all'annullamento dell'avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare». Mentre anche nella già citata sentenza 59/2021 la Corte ha sottolineato quanto reintegrazione e risarcimento del danno siano «due forme di tutela profondamente diverse». E tali certamente sono anche, che è ciò che qui interessa, quanto all’idoneità a eliminare il timore, del lavoratore, per la conservazione del rapporto di lavoro.
Merita infine dire della tesi, ancor meno condivisibile[3], secondo cui il decorso della prescrizione dovrebbe darsi anche nel corso di qualunque rapporto di lavoro, in quanto la legge assicura comunque la reintegrazione in caso di licenziamento ritorsivo, cioè appunto il recesso che in ipotesi il lavoratore o la lavoratrice dovrebbero temere ove intenzionati a far valere i propri diritti in confronto del datore di lavoro.
Non condivisibile questa tesi già in quanto, essendo prevista la reintegrazione in caso di licenziamento ritorsivo quale che sia il regime di stabilità altrimenti assicurato al rapporto, assumere una tale soluzione ermeneutica significherebbe privare del tutto di significato l’affermazione della Corte Costituzionale secondo cui, a impedire la sospensione della prescrizione, è solo l’esistenza in fatto di un rapporto di lavoro «caratterizzato da una particolare forza di resistenza, quale deriva da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca le garanzie di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione», «equivalenti» a quelle disposte per i rapporti di impiego pubblico.
Ma soprattutto non può condividersi questa tesi per il suo straordinario grado di astrattezza, particolarmente evidente a fronte dell’aderenza invece della giurisprudenza costituzionale in questa materia alla «fattualità del diritto»[4].
E’ inutile dire infatti che nessun licenziamento sarà mai motivato con una ragione di ritorsione da qualunque datore di lavoro sano di mente, così che spetterebbe nel caso al lavoratore o alla lavoratrice dimostrare l’esistenza di un motivo del recesso, diverso da quello formalmente addotto, che sia illecito e determinante di quel licenziamento (che tale sia l’oggetto della prova che grava sul lavoratore che si affermi licenziato per ragioni di ritorsione è ribadito da ultimo da Cass. 23583/2019 e da Cass. n. 9468/2019). Un onere gravoso e infatti raramente assolto.
E tuttavia, secondo la tesi di cui si discute, una simile obiezione, per quanto «certamente seria», sarebbe tuttavia la prova del fatto che «l’interprete anziché, sulla scia delle indicazioni che provengono dal dato normativo, lasciare al centro del discorso la prescrizione come strumento di certezza del diritto ed in quest’ottica ritagliare spazi minimali alle eccezioni a tale regola, ha invertito i termini del problema e collocato il dato empirico a regola e ad esso asservito la disciplina della decorrenza della prescrizione che decorre solo a condizione che il lavoratore non abbia il minimo motivo di metus»[5].
Ora ci si permette di rilevare come, non sia l’interprete, ma la Corte Costituzionale ad avere collocato «il dato empirico a regola», dando riconoscimento giuridico a una condizione di fatto (mero, ma indiscutibile fatto), cioè alla debolezza «di soggetto interessato alla conservazione del rapporto» che è propria del lavoratore. Così che quel «dato empirico» non può essere più relegato, da alcun interprete, nell’area dell’indifferente giuridico.
Anzi le vicende della sospensione del decorso della prescrizione nel rapporto di lavoro appaiono essere uno dei punti di emersione, non il meno significativo, del nuovo ordine costituzionale, il superamento ad opera della Carta fondamentale dell’astrattezza dell’uguaglianza formale in favore di un diritto che, al fine di assicurare parità effettiva a tutti i soggetti giuridici, non resta cieco di fronte all’evidenza del “dato empirico” della diseguaglianza.
D’altra parte la soluzione interpretativa qui preferita non dovrebbe sorprendere.
Non è seriamente dubitabile infatti che modifiche così significative della disciplina limitativa dei licenziamenti, quali quelle apportate dalla legge Fornero e dal cosiddetto Jobs Act abbiano avuto effetti immediati e sicuri sulla materialità dei rapporti di lavoro, che è fatta anche di relazioni di potere, ci piaccia o no riconoscerlo, e che in specie abbiano ridisegnato gli equilibri di quel potere, attribuendone una quota ulteriore alle imprese.
E’ allora inevitabile pensare che, come un contrappasso, ai nuovi confini della reintegrazione corrisponda una diversa disciplina della prescrizione e della sua decorrenza, strumento sussidiario, e certo insoddisfacente, di tutela della parte debole del rapporto, quando diventa più debole.
[1] Il riferimento si trova in Oltre la legalità, Laterza, 2020.
[2] Entrambi i riferimenti sono a Corte Cost. 1.4.2021, n. 59.
[3] Ampiamente argomentata da G. Pacchiana Parravicini, in La decorrenza della prescrizione e le tutele da licenziamento illegittimo: finché riforma non ci separi?, in RIDL, 2/2020, 272 ss., secondo cui «l’attuale sistema di garanzie predisposte a fronte del licenziamento ritorsivo realizzi quella condizione di stabilità che impedisce la deroga alle regole in tema di decorrenza della prescrizione. In altre parole, l’apparato sanzionatorio vigente nel nostro ordinamento, che colpisce con la nullità e la tutela reintegratoria piena ogni licenziamento ritorsivo, all’interno del quale rientra anche il licenziamento intimato quale reazione ad una pretesa avanzata dal lavoratore, costituisce un dato normativo insuperabile che impedisce all’interprete di introdurre deviazioni dalla regola di cui all’art. 2935 c.c. Quel dato normativo, assicurando al lavoratore un regime in cui non solo il licenziamento non può essere giustificato da ragioni ritorsive ma, ove lo sia, ottiene il pieno ripristino della situazione lavorativa del dipendente, fa venir meno il terreno su cui, a partire dal 1966, è stata costruita la disciplina della decorrenza della prescrizione».
[4] Ancora P. Grossi, in più luoghi, tra gli altri in Il giudice civile. Un interprete?, in L’invenzione del diritto, Laterza, 2017.