1. Come risponderemmo se ci chiedessero com’è la nostra città ideale? Probabilmente d’istinto diremmo: una città a misura d’uomo.
Non è una risposta sbagliata, certo. Tuttavia, per usare il vocabolario dell’urbanistica, è un luogo comune, mentre, se qualche evoluzione la nostra società nel tempo l’ha attraversata, è per merito di qualcuno che i luoghi comuni ha avuto il coraggio di metterli in discussione, di ripensarli, qualche volta di sovvertirli. Lo sguardo intelligente di un antropologo, Marc Augé, ci ha svelato i non luoghi delle città contemporanee: svuotati di ogni connotazione identitaria, relazionale e storica, adibiti soltanto al consumo e alla circolazione. Ebbene, se questi sono i non luoghi, potremmo dire che la nostra è una non risposta. Presupporrebbe, per poter definire qualcosa, che il termine uomo abbia un significato univoco. La realtà ci dimostra invece che può avere significati molto differenti, persino opposti, a seconda di quali sono i suoi percorsi e obiettivi, i principi a cui impronta la propria condotta personale e professionale. Dunque, qualunque città è a misura d’uomo, o meglio, di un certo tipo di uomo, nel senso che riflette l’orizzonte valoriale di chi ne detiene il governo e l’amministrazione, ne gestisce le attività economiche, ne progetta lo sviluppo urbanistico.
Attraversare una città permette di capire che tipo di uomo la governa e la abita e anche, più in generale, qual è la sua visione della società. Per esempio: la forma delle panchine lungo le strade o nei parchi non è questione solo di arredo urbano, come pure le idropulitrici che tirano a lucido il muro e le vetrate che delimitano l'ingresso di una stazione non si stanno preoccupando esclusivamente della sua igiene: rivelano quale tipo di accoglienza quella città è disposta ad assicurare ai senza fissa dimora. Il nome che si assegna a una via o a una piazza non è solo questione di toponomastica: indica quali sono i riferimenti civili e culturali di quella comunità. E ancora: negare l’uso delle mura cittadine ai writers testimonia quale concezione l’amministrazione locale ha del decoro; destinare una fabbrica dismessa a luogo di aggregazione e di pratiche artistiche attesta il livello di sensibilità culturale del governo cittadino; permettere a immense navi da turismo di accedere a luoghi di inestimabile pregio naturalistico dimostra quanto poco l’amministrazione abbia a cuore il rispetto dell’ambiente; collocare un carcere o una struttura di riabilitazione psichiatrica in centro o nell’estrema periferia di una città attesta l’intenzione di occultare il disagio sociale oppure di integrarlo nel contesto sociale; la cura degli ambienti tradizionalmente legati all’amministrazione della giustizia è l’espressione tangibile della consapevolezza che quel delicatissimo compito riveste per la pacifica convivenza collettiva.
2. Organizzare una città non è soltanto un’operazione urbanistica e architettonica, cioè una questione esclusivamente tecnica. Attraversarla significa prendere atto delle priorità valoriali che caratterizzano una comunità, una struttura sociale e un ordinamento giuridico. Osservare quello spazio fa emergere visioni politiche, svela contraddizioni, smaschera disuguaglianze e istanze securitarie; al contempo, può stimolare buone prassi, soluzioni innovative, proposte normative.
La città è una «macchina per pensare», afferma Salvatore Settis, e oggi, viene da aggiungere, “da ri-pensare”, se davvero la si intende come luogo in cui realizzare diritti e libertà, come auspica il sottotitolo di questa edizione del festival Parole di Giustizia; come «spazio collettivo che appartiene a tutti gli abitanti, i quali hanno il diritto di trovarvi le condizioni necessarie per appagare le proprie aspirazioni dal punto di vista politico, sociale ed ambientale, assumendo nel contempo i loro doveri di solidarietà», come vuole l’art.1 della Carta europea dei diritti dell’uomo nella città.
3. Parole di Giustizia sarà un’occasione itinerante di discussione collettiva. Un festival in movimento, così come d’altronde deve sempre essere il pensiero. Organizzato dall’Associazione di studi giuridici Giuseppe Borrè e dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Urbino Carlo Bo, con la collaborazione di Magistratura democratica e il patrocinio dell’Associazione nazionale magistrati, coinvolgerà tre comunità – di Urbino, Fano e Pesaro – attraversando aule universitarie, scuole, auditorium, biblioteche, per concludersi al Palazzo ducale di Urbino con la lectio magistralis di Salvatore Settis, al cospetto di una magnifica Città ideale (forse una città non esattamente a misura dell’uomo ambientalista, visto che non c’è traccia di vegetazione, se non come minimo elemento decorativo, fa notare Stefano Mancuso nel libro La pianta del mondo).
Idealmente la riflessione di giuristi, sociologi, giornalisti, storici dell’arte, architetti, urbanisti, ricercatori e scrittori, di coloro che la città la progettano, la regolano, la amministrano e la raccontano, ci condurrà in molti altri luoghi: nelle metropoli dei lavoratori in smart working e dei rider che sfrecciano lungo le strade, nei paesi dilaniati dalla guerra e in quelli caratterizzati da un’avanzata sperimentazione tecnologica, nelle periferie dell’emarginazione e del conflitto e in quelle della rinascita sociale, nelle città devastate dalla speculazione edilizia, rese inospitali dal turismo sfrenato, sfigurate dal consumismo, e nelle realtà urbane sostenibili, inclusive, custodi attive della memoria. Attraverseremo persino luoghi che ancora non esistono, le città del futuro, rese concrete dallo sguardo visionario di Mario Cucinella.
«Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altra bastano a tener su le loro mura. D'una città non godi le 7 o 77 meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda», confida Marco Polo a Kublai Khan, in uno splendido viaggio per città invisibili che Italo Calvino pubblicava nel 1972.
Esattamente cinquant’anni dopo a tutte queste domande – l’impressione è che saranno tante – proveremo a rispondere insieme. Benvenuti. Sarà un piacere incrociare le nostre strade.