Una stretta gabbia viene fatta rotolare come un masso dalle mani di un uomo a torso nudo. Attorno a lui altri uomini bianchi, neri, europei, arabi, orientali, con altre gabbie su uno sfondo bianco latte che avvolge terra e cielo, come una placenta.
In questo nulla scorrono musica e parole, entrambe trasmettono una sensazione avvolgente, onirica.
Mentre un narratore fuori campo descrive il mutamento, il superamento dei limiti, la metamorfosi, la liberazione dalle prospettive geometriche del mondo, le gabbie, sapientemente mosse da chi le maneggia, inglobano altre figure erranti, mascherate come fotografie della vita: la fatica, il lavoro, l’amore.
Questo è l’incipit dell’ultimo lavoro della Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo (Naturae – La valle dell’annientamento – III Quadro) al quale assisto, come ormai da quasi vent’anni, nel cortile della Casa di Reclusione di Volterra.
Non so se quello che percepisco corrisponde al concetto del percorso teatrale compiuto negli ultimi sette anni dalla Compagnia – dalla critica al mondo del teatro di Shakespeare, fatto di lotta perenne tra uomo e leggi naturali, morale e ragion di Stato, alla necessità di esplorare con Borges oltre l’esistente, l’inesistente – ma sento che in quelle figure di uomini, esclusi dal mondo per un vizio capitale e alle prese con Il Limite, si è innestata, attraverso il teatro, una virtù. «In una foresta di statue morte e potenti, si aggira uno spirito che vuole essere liberato» dice Punzo presentando il lavoro del 2015 Shakespeare. Know Well.
I corpi, i gesti, i costumi, i magnifici quadri scenografici, che si susseguono senza sosta nello spazio assolato del lungo cortile, rapiscono gli occhi e commuovono. Gli spettatori sono in maggioranza artisti o gente di teatro, intellettuali, giornalisti, spiriti liberi per definizione, che si sono trovati a sottostare alle rigide regole del carcere per un paio di ore e ogni volta noto come lo facciano senza obiezione alcuna, come intimoriti dal meccanismo punitivo. E’ evidente, però, che in questa particolare situazione parteggiano per i reclusi, per la loro fatica, per la loro umanità.
Ed è appunto l’umanità, quella che emerge e si impone con una forza tale da portarmi alle lacrime. Io sono un giudice, uno spettatore particolare di quel che accade in quel cortile, condanno uomini e donne a pene che portano alla reclusione in carcere e ho visitato carceri, ho visto cosa vuol dire essere reclusi, so che la pena carceraria quasi sempre è una pena disumana o che alimenta disumanità ed è spesso destinata a chi è già ultimo.
Mi domando spesso perché i giudici non guardino il carcere.
A Volterra, la durezza di questo conflitto in parte si stempera. Vedo che il carcere, anche quando una pena diversa non trova spazio, può essere un luogo migliore di come è, un luogo dove il paradigma rieducativo non rimane lettera morta. Lo vedo nei volti degli attori/detenuti della Compagnia, ma lo vedo soprattutto nei volti degli altri, negli occhi dei carcerati che percepiscono l’importanza di quello che accade e il senso di quella fatica, negli occhi del personale della polizia penitenziaria alleggeriti dall’eterna urgenza del controllo, negli occhi degli operatori carcerari e dei collaboratori teatrali gratificati, questa volta in modo plateale, dal successo del percorso che praticano ogni giorno.
La rieducazione qui passa per la cultura, per il lavoro di gruppo e la responsabilità, per il senso delle regole e il bene comune, per l’analisi del testo e del personaggio, per la ricerca di quel gesto che esprima il vincolo e la liberazione, il qui e l’altrove, l’oggi e il domani, passa per la riappropriazione del tempo come vita.
Alla fine siamo tutti in piedi ad applaudire ed ad applaudire un ultimo attore di colore che da solo, nel bianco della scena, accompagnato dalla musica, impugna una gabbia e la rotea sollevandola da terra, mentre, in disparte, un libraio ha riempito una cella di tomi.
Mi domando spesso perché i giudici non visitino il carcere.