1. Le diverse prospettive di un’analisi eclettica
Qual è il ruolo del diritto durante il ’68? Che cosa ha fatto il diritto al ’68 e che cosa il ’68 al diritto? À la gauche du droit tenta di rispondere a tali quesiti di fondo con l’analisi del coinvolgimento delle professioni giuridiche in Francia durante gli stravolgimenti successivi agli événements, riconoscendo ai protagonisti un ruolo principale nella critica del diritto. Le molteplici declinazioni dell’impegno politico del giurista e, in particolare, dell’utilizzo del diritto come strumento, consentono al lettore di assumere diversi punti di vista, seguendo le prospettive di volta in volta offerte dall’Autrice nel corso dei capitoli che compongono l’opera.
Innanzitutto, la rilettura giuridica del ’68 sotto la preziosa lente delle interviste disvela legami con il passato mai veramente esplicitati. In primo luogo, con la Resistenza dei magistrati e degli avvocati durante il periodo nero di Vichy[1]; in secondo luogo, con le aggregazioni del movimento anticolonialista, ad un tempo occasione di socializzazione professionale e fucina di pratiche difensive ampiamente riutilizzate, quali la defense de rupture. In breve, dal capitolo di apertura emerge che, malgrado la cesura storica tipicamente sessantottina, orgogliosamente rivendicata dai protagonisti, il giurista politicamente impegnato, anche marxista, riconosceva nel recente passato un patrimonio sia culturale che pratico di cui non disfarsi completamente.
Il capitolo secondo, invece, si sofferma sull’atipicità delle contestazioni studentesche delle facoltà di giurisprudenza, caratterizzate dalla critica moderata rispetto alle altre accademie, più decisamente orientate alla remise en cause totale di ogni impalcatura sociale costituita. Risalta una lettura internalista del diritto - invero profondamente criticata all’esterno[2] - volta a riformare senza stravolgere complessivamente la struttura. In questo modo Liora Israël tratteggia uno dei leitmotiv dell’opera, già anticipato nell’introduzione, ossia la tensione intrinseca del giurista che contesta l’ordinamento cui appartiene, essendone, contemporaneamente, il principale utilizzatore. Tuttavia, nel complesso sarebbe poco corretto affermare che la scuola di giurisprudenza non è stata uno dei principali teatri della lotta: se da un lato è vero che l’impegno politico attraverso il diritto si concretizza meglio con le professioni giuridiche, dunque al termine del percorso di formazione accademico, dall’altro si intuisce quanto già all’interno delle facoltà abbiano cominciato ad intrecciarsi i primi rapporti tra gli avvocati della difesa e gli studenti “casseurs”; inoltre, da questi intrecci e dal formarsi inizialmente disorganizzato di una specializzazione degli stessi difensori matura il Groupe d’action judiciaire, poi Mouvement d’action judiciaire. Pertanto, questo passaggio dell’opera costituisce un contributo prezioso per l’individuazione dell’origine di quel tessuto di rapporti sociali, successivamente meglio concretizzatisi in collaborazioni professionali essenziali allo sviluppo della contestazione.
Proprio all’associazionismo e al sindacalismo giuridico è dedicato il terzo capitolo: analizzando la genesi e lo sviluppo del Syndicat de la magistrature, del Syndicat des avocats de France e del Mouvement d’action judiciaire - quest’ultimo quale esempio di impegno politico trasversale ad organizzazione interprofessionale - l’Autrice cerca di delineare l’apporto dato dalle diverse formazioni al cambiamento in corso, sia esternamente che internamente alle categorie rappresentate. Il confronto tra queste suggerisce riflessioni sulle diverse forme di impegno politico che meritano di esser approfondite separatamente[3].
Il netto cambio prospettico del capitolo quarto porta, invece, ad apprezzare le modalità di traduzione concreta delle mobilitazioni, passando dal livello associativo ampio a quello più specifico delle nuove organizzazioni professionali: attraverso gli esempi dei nuovi cabinets, delle permanences e delle boutiques si tratteggiano i tentativi di raccordo – più o meno riusciti – tra il diritto e le fasce più svantaggiate della popolazione, con l’obiettivo di agevolarne l’accesso alla giustizia. Il contesto in cui nascono le nuove modalità di organizzare la professione forense e la pratica giuridica in genere è quello della contestazione alle riforme della giustizia dei primi anni ’70. Gli esempi dei vari cabinets, (d’Ornano, d’Avenue d’Italie e de Felice) pur con le loro diversità di strategia difensiva (politica o tecnica) restituiscono un’immagine comune innovativa rispetto allo studio legale tradizionale. Anche dall’esempio delle boutiques si intravede il tentativo pratico di innervare di protesta ogni strato sociale. Tali aggregazioni miste di giuristi e laici, espandendo l’attività di consulenza al dibattito politico, disvelano il loro vero obiettivo, cioè la contestualizzazione del singolo problema giuridico mediante la sua espansione finalizzata a spostare l’attenzione sulle più ampie criticità di sistema, di cui l’esperienza del “cliente” non costituisce che uno dei tanti tasselli[4].
Actes. Cahiers d’action juridique è l’oggetto dell’analisi del quinto capitolo. La rivista si è affermata quale strumento di divulgazione giuridica che, pur avendo avuto legami stretti con le associazioni (soprattutto il MAJ) non ha mai perso la propria autonomia. L’intento del progetto - paragonato dall’Autrice all’esperienza italiana di Quale Giustizia – era porsi come veicolo principale di emersione di una giurisprudenza e una dottrina alternative. Si avvertiva l’esigenza di dar voce a un cambiamento in atto anche nelle aule dei tribunali, tuttavia spesso taciuto dalla letteratura più illustre dei principali editori. L’approccio pratico, tendente a privilegiare l’esposizione giurisprudenziale delle controversie, fungeva da prezioso aiuto all’elaborazione di strategie difensive compatibili con casi analoghi; allo stesso tempo, il crescente coinvolgimento di collaboratori appartenenti a discipline diverse colorava già i primi numeri di una certa interdisciplinarietà.
La trattazione di questo capitolo costituisce un contributo essenziale alla formazione di un quadro compiuto delle mobilitazioni giuridico-politiche post ’68: difatti, congiuntamente all’attività pratica, occorreva fondare una dottrina nuova, che fungesse da strumento di diritto per il diritto, per una critica strutturata che avesse il sostegno teorico tipico delle scienze giuridiche, ma con connotati completamente diversi.
L’esempio del Groupe d'information et de soutien des immigrés (GISTI) segna con il sesto capitolo il passaggio dell’analisi dal contesto generico della mobilitazione politico-giuridica (s’engager en tant que juriste) all’impegno per una causa specifica (s’engager pour une cause), in particolare quella dei diritti dei lavoratori immigrati. Il GISTI risalta come una delle poche declinazioni di cause lawyering veramente capace di unire all’impegno individuale quello collettivo organizzato. Attraverso un coinvolgimento multiforme, dalle pubblicazioni-denuncia fino ai ricorsi al Consiglio di Stato, emerge come il GISTI sviluppò già dai primi anni un tipo di attività che univa la mobilitazione individuale del giurista a quella collettiva di tutti i membri, anche mediante la doppia battaglia sul medesimo tema[5], intrapresa su piani diversi. L’azione multilivello su cui si assestava l’operato del GISTI era diretta espressione del dualismo interno tra contestazione marxista del diritto e utilizzo dello stesso come strumento in chiave riformatrice. La contraddittoria tensione teorica, come si è detto tema ricorrente del libro, si risolveva in pratica nello sdoppiamento dell’attività, articolata sia sul piano individuale (procedurale) che su quello collettivo (protesta), in un felice opportunismo dai risvolti concreti più che efficaci.
Il processo Bobigny e l’affaire Bruay-en-Artois dividono in due parti la trattazione del settimo capitolo. Dall’analisi delle stenotipie processuali del processo Bobigny si intravedono le posizioni ideologiche contrapposte di accusa e difesa, non solo in quanto parti portatrici di interessi naturalmente diversi, ma anche di concezioni sociali agli antipodi. La dialettica processuale disegna con rapide pennellate l’elaborazione di stampo progressista della difesa, da un lato, e gli ideali conservatori della pubblica accusa, dall’altro. L’andamento elastico del discorso porta le parti alla dilatazione o al restringimento del thema, ossia all’espansione che sfiora il dibattito politico attuata dalla difesa[6] o alla chiusura legalista della pubblica accusa. Questa metodologia di osservazione, calando il lettore nell’aula del tribunale, consente di apprezzare sfumature altrimenti invisibili.
Nella seconda parte del capitolo, invece, dedicata all’affaire Bruay-en-Artois, vengono delineati i tratti di un’altra forma peculiare della protesta: il “raddoppiamento processuale” attuato dal processo popolare. La critica alla giustizia borghese emerge con tutta la sua forza dalle pubblicazioni connesse all’affaire, volte a delegittimare una procedura percepita come non neutrale attraverso l’allestimento di un processo parallelo. Si può scorgere nuovamente l’impostazione tipica della critique du droit[7]: il giurista non osa negarsi l’utilizzo dello “strumento” diritto; la contestazione è, piuttosto, all’impianto della giustizia, come efficacemente riassumono le parole della Commissione appositamente costituita: «si nous accusons quelqu’un, c’est la justice»[8].
Con l’ultimo capitolo lo studio termina sul terreno del confronto tra diritto e violenza. La rapida esposizione, quasi frenetica, ricostruisce il percorso di Klaus Croissant, avvocato della RAF (Rote Armee Fraktion) rifugiatosi in Francia dopo essere fuggito dalla Germania Federale. Trattando le vicende relazionali connesse all’affaire, Liora Israël rende il lettore osservatore privilegiato della rete di rapporti professionali (e non) sviluppatisi attorno alla difesa e al dibattito circa i limiti deontologici degli avvocati degli “indifendibili”, quali erano considerati i membri delle organizzazioni terroristiche.
L’eclettismo della ricerca si traduce nell’eterogeneità dell’analisi, resa dall’approccio metodologico ibrido, a metà tra la ricerca archivistica classica e l’utilizzo delle interviste tipicamente utilizzato in sociologia[9], oltre all’analisi delle stenotipie processuali: il risultato è un’immagine variopinta che consente al lettore più attento di cogliere le sfaccettature dell’incontro-scontro tra politica e diritto durante un periodo vorticoso che, come tale, parrebbe impossibile da apprezzare a pieno senza il prezioso contributo empirico.
Allo stesso tempo, alle diverse prospettive offerte corrispondono altrettanti spunti di riflessione, che richiedono uno sguardo d’insieme, ma meritano anche di esser sviluppati singolarmente: uno di questi è certamente la dicotomia tra impegno collettivo e individuale nella lotta, dato permeante tutta l’opera.
2. Tra dimensione collettiva e dimensione individuale
Le peculiarità di espressione dei due sindacati rappresentativi delle principali professioni giuridiche (Syndicat de la magistrature e Syndicat des avocats de France) introducono un tema che sottostà a tutta l’opera: la contrapposizione tra dimensione collettiva e dimensione individuale della mobilitazione quale elemento caratterizzante il tipo di professione giuridica.
Innanzitutto, è sottinteso che la creazione di un sindacato della magistratura ha avuto un peso differente da quello di qualsiasi altra professione giuridica: «La création d’un syndicat de magistrats fit l’effet d’un coup de tonnerre dans le monde du droit français, accoutumé à considérer les magistrats comme la bouche de la loi». Del resto, è facile immaginare l’effetto di un tale accadimento nel sistema giuridico che, per delimitare i poteri del giudice, ha coniato l’espressione “bocca della legge”. Lo stesso non può dirsi della professione forense, certamente meno gravata da quei problemi di legittimità che preoccupavano i fondatori del Syndicat de la magistrature, inizialmente determinati a prender le distanze dagli événements.
In secondo luogo, la scelta del termine syndicat, usato prima dal SM nel 1969, poi ripreso dai membri del SAF nel 1972, è il punto di arrivo, in entrambi i casi, di un’accorta ponderazione. Tuttavia, le modalità in cui si è esplicitata l’attività sindacale hanno poi assunto forme e dimensioni diverse, a prescindere della condivisa dimensione categoriale che volutamente avvicina, anche sul piano lessicale, le due formazioni a quelle operaie.
In estrema sintesi, l’esperienza del SAF delinea un tipo di tutela nel complesso prevalentemente corporativa, orientata prima di tutto a difendere i diritti della professione e dei suoi membri. L’impegno politico degli avvocati francesi negli anni Settanta raramente assume una forma organizzata ad espressione sindacale (SAF). Al contrario, la connotazione politica del SM, inizialmente respinta dai fondatori, viene in seguito sostenuta dai membri più giovani[10], più decisamente inclini alle mobilitazioni politiche extra-settoriali: lo scontro generazionale all’origine di tensioni interne - poi superate – segna il passaggio da un sindacato politicamente neutrale a un sindacato di sinistra, più apertamente portatore di istanze progressiste a livello collettivo.
In sostanza, tra le righe dell’opera è possibile a più riprese scorgere le differenti tendenze della mobilitazione giuridica professionale, non tanto per l’ampiezza della stessa (s’engager en tant que juriste vs s’engager pour une cause), quanto, piuttosto, per l’articolazione tra dimensione individuale e dimensione collettiva. L’avvocatura, come si è detto, trova più difficoltà a confluire nella vera e propria azione politica organizzata a mezzo SAF[11]; più frequentemente l’impegno politico si traduce in un cause lawyering individuale che porta i nomi dei principali protagonisti (Leclerc, De Felice, Halimi per citarne alcuni), lasciando al sindacato la tutela degli interessi meramente categoriali. Anche quei tessuti di rapporti sociali non sindacali prevalentemente composti da avvocati hanno come priorità la proiezione individuale della protesta, fungendo molto spesso da mero supporto di sintesi alla propria attività pratica; in sostanza, utili collaborazioni professionali da concretizzare nell’aula del tribunale[12]. La dimensione individuale resta quella più idonea ad incarnare l’impegno politico dell’avvocato anche per evidenti ragioni strutturali: sul terreno processuale - palcoscenico privilegiato della protesta[13] - il professionista può esprimere la lotta nel quadro relativamente ampio della propria attività di difesa. Al contrario, il ruolo del magistrato, non consentendo la stessa ampiezza di manovra individuale, indirizza l’impegno politico della magistratura francese post Sessantotto verso la dimensione collettiva, intesa come il piano su cui la mobilitazione non rischia di scontrarsi con ovvie questioni di legittimità[14]. Pertanto, dai molteplici esempi di impegno politico delle due professioni è possibile individuare le inclinazioni di fondo di entrambe, sostenute da ragioni strutturali di carattere oggettivo, che certamente non qualificano in senso positivo o negativo l’una o l’altra modalità d’azione, ma indubbiamente la diversificano.
À la gauche du droit si inserisce dichiaratamente nella corrente di origine statunitense Law and Society e, più specificatamente, nell’analisi dell’impegno politico dell’avvocato[15], definibile cause lawyering con un termine tanto vago quanto difficilmente traducibile, come la stessa Autrice rileva altrove[16].
Tuttavia, seppur occupando uno spazio considerevole nel libro, sarebbe quantomai riduttivo definire questo lavoro un’analisi storico-sociale dell’avvocatura. Piuttosto, il contributo di Liora Israël assume carattere trasversale, o meglio, interprofessionale, nell’asserito intento di fornire al lettore uno sguardo d’insieme per una sociologia delle professioni giuridiche che non sia di una sola professione giuridica, ma che costituisca un’analisi completa di sociologia del diritto nel momento storico preso in esame.
Come risultato, l’immagine resa al lettore è quella di una comparazione tra i diversi tipi di mobilitazione politico-giuridica post Sessantotto, un mosaico variopinto composto da diversi tasselli che assumono maggior significato con l’osservazione d’insieme, nel difficile tentativo di raggiungere l’obiettivo posto in apertura: individuare il ruolo occupato dal diritto attraverso l’operato dei suoi specialisti, un diritto apertamente non neutrale, vero e proprio strumento ad uso delle difese, delle rivendicazioni e delle mobilitazioni di quel periodo. In altre parole, definire i contorni di «un droit qui ne soit pas de droite».
[1] Sul tema, della stessa autrice, vd. anche: ISRAËL L., Robes noires, années sombres: La Résistance dans les milieux judiciaires. Avocats et magistrats en résistance pendant le Seconde Guerre mondiale, Fayard, Parigi, 2005.
[2] Vd. ad es. l’estratto CRAC, n. 2, giugno 1968, documento D 282 in SCHNAPP A., VIDAL-NAQUET P., Journal de la commune étudiante. Textes et documents, novembre 1967 – juin 1968, Seuil, Parigi, 1988.
[4] Sul tema dell’accesso al diritto attraverso l’esperienza delle boutiques vd. ad es. DE LAJARTRE A., La boutique de droit au service de l’émancipation sociale. Illustration par la dernière «boutique de droit» associative en France, in Revue Cliniques Juridiques, Volume 2, 2018 disponibile su cliniques-juridiques.org.
[5] Vd. ad esempio la lotta ai cd. marchands de sommeil o alle espulsioni illegittime.
[6] Il processo viene affrontato dalla difesa in ottica changing through litigation, impostazione familiare per il cause lawyering dei sistemi di common law, meno per quelli di civil law. Tuttavia, susciterebbe interessanti riflessioni riguardanti il tema delle contaminazioni tra modelli che in questa sede non possono esser sviluppate.
[7] Vd. anche: KALUSZYNSKI M., Sous les pavés, le droit: le mouvement «critique du droit» ou quand le droit retrouve la politique, in Droit et société, n. 76, Éditions juridiques associées, 2010, pp. 523 e ss.
[8] COMITÉ VÉRITÉ JUSTICE DE BRUAY-EN-ARTOIS, Le dossier public de l’affaire de Bruay, Edition Liberté-Presse, Parigi, 1973, p. 5.
[9] Sul prezioso contributo della metodologia d’ispirazione sociologica, vd. BALDIN S., Derecho e interdisciplinariedad: notas sobre la integración metodológica con las otras ciencias sociales, in Revista General de Derecho Público Comparado, vol. 25, Iustel, 2019; più diffusamente sull’utilizzo dell’intervista vd. CORRAO S., L’intervista nella ricerca sociale, in Quaderni di Sociologia, 38, 2005 disponibile su journals.openedition.org/qds
[10] Tuttavia, a fatica tenendo di conto anche dell’esiguo numero di nuovi membri tra le file della magistratura francese di quegli anni; vd. anche MOUNIER J.P., Du corps judiciaire à la crise de la magistrature, in Actes de la recherche en sciences sociales, Vol. 64/1986, De quel droit?, 1986, p. 25
[11] Fa eccezione il longevo esempio del GISTI, che, comunque, non è espressione sindacale, ma impegno in una causa specifica, come già detto.
[12] Si pensi a questo proposito agli esempi riportati nei capitoli primo, settimo e ottavo, rispettivamente riguardanti l’esperienza anticolonialista, il processo Bobigny e l’affaire Croissant.
[13] L’esortazione di origine leninista all’utilizzo del processo come tribuna politica ritorna più volte nel corso dell’opera (ad esempio, in questo capitolo vd. p. 259) ed è ripresa e sviluppata anche da VERGÈS J., De la stratégie judiciaire, Minuit, Parigi, 1968.
[14] Il caso Casamayor (pseudonimo di Serge Fuster) citato a p. 55 è un chiaro esempio delle criticità dell’attività individuale del magistrato.
[15] A questo proposito si rinvia alla prolifica letteratura sul tema di Scheingold S. e Sarat A., in particolare SCHEINGOLD S., SARAT A., Cause Lawyering: Political Commitments and Professional Responsibilities, Oxford University Press, Oxford, 1998; oppure (a cura degli stessi autori) Cause Lawyers and Social Movements, Stanford University Press, Stanford, 2006.
[16] ISRAËL L., Cause lawyering, in Dictionnaire des mouvements sociaux, a cura di FILLIEULE O. et al., Presses de Sciences Po, Parigi, 2009, pp. 94 e ss. I confini sfumati dell’impegno politico della professione forense trovano miglior definizione nel contrasto con la figura dell’avvocato comunemente definito hired gun.