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Al di là della "Catastrofe carceraria"

di Claudio Consolo
Professore Ordinario di Diritto Processuale Civile
Il vecchio e logoro problema del sovraffollamento, per quanto buone siano intanto soluzioni palliative e la depenalizzazione decisa, va ripensato
Al di là della "Catastrofe carceraria"

Leggo oggi, mentre da mesi a tempo perso ci rimuginavo, di una importante rimessione alla Consulta, dal tribunale di sorveglianza di Venezia, in relazione alla attuale pesantissima saturazione umana delle carceri di Padova. E’ una motivatissima ordinanza, attenta ai diritti fondamentali e non solo. Si chiede al Giudice delle leggi una sentenza manipolativa che consenta di rinviare, per i condannati meno pericolosi, la attuazione della pena detentiva, quando il sovraffollamento del carcere ne renda la esecuzione immediata trattamento inumano e degradante. Come tale simile a una tortura governativa, proibita dallo jus cogens internazionale fino al punto, secondo la tesi preferibile, da rimuovere la stessa copertura offerta dalla classica consuetudine di immunità per gli Stati e i loro vertici, fondando una giurisdizione penale universale e dando sprone a trovare nuovi grounds (ossia titoli di giurisdizione) per quella risarcitoria civile. E' un aspetto grave, vicinissimo per ognuno di noi e ricadente appieno nel perimetro di un tema generale, proprio quello di cui scelsi di occuparmi in occasione dei volumi di studi costituenti omaggio ad Aldo Attardi (Cleup, 2009),  e poi anche, in margine alle pronunce sulla immunità giurisdizionale degli Stati e suoi doverosi limiti, sulle colonne di Int'l Lis e, dopo la sentenza così controversa della Corte dell' Aja, in un editoriale del Corriere giuridico.

Più volte, dunque, nell’arco dei quattro intensi anni passati, ho rivolto la mia riflessione allo stato delle cose nel sistema carcerario, che avvinghia il pensiero e fa soffrire anche i civilisti, e non certo per i – pur imponenti – profili risarcitori, stando alla Cedu e alle note pronunce di Strasburgo. Credo che talvolta anche i giudici avvertano una sorta di esposizione personale al rischio di (immeritata) complicità. E allora è davvero necessario interrogarsi al riguardo, senza finzioni ieratiche o ansie di protezione sociale. Mi si riaffacciano alla mente, e al cuore, le continue discussioni milanesi con un profondo e battagliero Federico Stella su pena, modernità e barbarie burocratico-regolamentare; discussioni tutte tese a meglio contestualizzare e rintuzzare la enfasi con cui nelle nostre società della paura si riesce a discettare del binomio sanzione-sofferenza. Lui conosceva il "non comprendere più nessuno, da nessuno compresi". Di qui la sua perentorietà, specie nelle lezioni e conferenze, che dieci anni fa stentavo a ratificare, prediligendo il tollerante approccio del distingue frequenter.

Il carcere, il suo significato astratto e concreto, le sue condizioni di accesso e permanenza. Tutto questo non è l’unico snodo, ma è oggi certo il più importante, financo più di talune occasionalmente fosche caserme di polizia o militari, e problema resta anche senza andare fuori di Europa, anch’essa continente che non è zona di benessere, giustizia e libertà. E così è, ad onta della sua raffinatezza, per questa bella e colta Italia, in cui quasi ogni carcere, starei per dire per definizione, inclina verso un modello di carcere sovraffollato e asfittico, luogo della dimenticanza e dell’assenza. Non a caso il nome era noto, ma il fenomeno sistematico – l’universo carcerario totalizzante e angusto, il penitenziario – è rimasto addirittura ignoto o quasi, in lunghi periodi della esperienza umana: eppure la riflessione sulla corrispondenza fra pena piena (fermo il favor per quelle alternative, che direi semiplene) e rinserramento della persona, se non  pigra  risulta certo lunga e poco proficua, la direi a scartamento ridotto, spesso scontata, con un coefficiente di fantasia tendente a zero e dunque con poco valore aggiunto. Anche la proposta soluzione patavina del rinvio, al pari dello indulto, sono scorciatoie difficilmente elevabili a sistema integralmente accettabile. La attesa di una detenzione certa nell’an, perché già decretata, ma incerta nel quando, è già sanzione che corrode: appena si crea una vacancy, magari fra anni, si lascia la casa ... Non è già più libertà questa forma di overenforcement penale, accettabile solo a breve termine, e con molte precisazioni, ad vitanda mala majora.

Non mi pare proprio che neppure – e fu due mesi fa –  la articolata risposta del premier Monti a Pannella, né la strenua battaglia di questo ultimo e dei Radicali per amnistie-indulti o le talora acerbe accuse al Capo dello Stato, che le rimbalza subito sul governo (l'uno e l'altro avendo invece potuto disporre di spazi lussuosi immensi), e tanto meno l’enfasi cementizia ricorrente su piani edilizi eccezionali, costino quel che costino, offrano risposte all’altezza di questo tema. Sono solo preannunci di brutture. In questo rastremato ripetitivo dibattito, nulla vi è che rassicuri in qualche modo quanto alla folla di risarcimenti in arrivo da Strasburgo, dopo la fondamentale pronuncia di "condanna in futuro" della Italia per sottrazione degli spazi vitali, in sostanza per una peculiare forma colposa (o è dolo eventuale?) di tortura governativa. Per tacere dei carceri psichiatrici, della poena sine iudicio, della malattia mentale che diviene vieppiù inguaribile e neppur lenita. Prima e piuttosto di invocare Dworkin ed il suo giusto Leitmotiv in chiave neo-retribuzionista, si vorrà considerare che neppure il reato - neppure il più grave, e tanti lo sono solo parzialmente - sopisce le aspettative che quei diritti siano "taken seriously" in ogni sede e con ogni necessaria innovazione.

 Il vecchio e logoro problema del sovraffollamento, per quanto buone siano intanto soluzioni palliative e la depenalizzazione decisa, va ripensato con questa incorruttibile fermezza: fino a che ciò non sia nocivo o rischioso, la pena deve mirare alla rieducazione, al rammendo dell’animo, mai all’afflizione, più o meno fine a sé stessa, neppure se tale tormentum derivi da (più o meno) involontarie contingenze. Il carcere sempre, per quanto ampio e quasi deserto, ben di più quando è un alveare di patimenti, è indubbiamente afflizione, non promuove rieducazione (lo può fare, ma è raro e vale solo per alcuni, in presenza di molte, meritorie o fortunate, circostanze). Sempre però, e non poco, la restrizione estrema del corpo si riflette sullo spirito e abbrutisce e fa violenza alla persona, che diviene oggetto e perde anche quote ingenti di essenziale libertà e responsabilità interiore. Solo certe malattie che cuciono viva la coscienza in un corpo totalmente inerte generano forse maggiore angoscia, ma non sono opera dell'uomo e non tocca a noi, certo non qui, cercarne il possibile senso. Questo onere non può invece essere accantonato per il problema del rinserramento statualistico, quasi vendicativo, che ci pressa da troppi anni. Curioso che nei manuali delle materie penalistiche ben poco di solito si ragioni di questo momento di loro "ricaduta", quasi che l’esecuzione della pena sia questione solo ministeriale.

 La vita vicino alla natura, alla normale natura (non solo alle sue forme estreme e/o a notorie bellezze), ci migliora, possiamo spero convenirne, specie poi per i più giovani o per gli anziani e soprattutto se costoro vivono in piccole comunità (con casette diverse ogni 3-4 persone e luoghi comuni aperti e chiusi) non troppo intimamente ravvicinate. Alcune decine di migliaia fra gli attuali detenuti –  mi è stato testimoniato da competenti – non sono pericolosi a sé stessi e agli altri, non tentano la fuga (e i relativi reati recidivanti, comunque benvenute e da incrementare), eppure devono scontare molti anni di pena (non ancora di sanzioni alternative). Di qui una idea da sperimentare presto, per provare almeno a sottrarre questo snodo dolente al rischio concreto della acquiescenza all’incubo, e contenere la catastrofe. Servillo e Andò, nel loro bel sogno cinematografico, raccontano della paura del "coperchio chiuso", evocata dalla più sconsolata delle melodie del vecchio Brahms. La stessa - non a caso - del film sul Colonel Chabert, che racconta di una claustrofobia del corpo e dell'anima narrata da Balzac: quella dei caduti semivivi di Eylau, ma non meno quella dei tanti perdenti, dei semifolli, o anche degli avidi arrivisti oppure di certi religiosi, che provoca infine il disgusto e l'abbandono financo… degli avvocati più capaci e pensosi. Anche il cinema può darci un buon "Tempo perso", per alludere a certi fitti e quasi introvabili volumetti di appunti metagiuridici del processualista più razionale e integrale epperò, e non incoerentemente, più mistico, sulla bocca di tutti da quasi cent'anni - 1915 - ma letto oggi da pochi perché inquieto e difficile. Ma veniamo infine al dunque, ai nostri Moutons, può ben dirsi (in linguaggio curiale francese). Montoni, allora.

 La lunga dorsale montuosa appenninica presenta migliaia di paesi da pochi anni ormai totalmente abbandonati, a media altitudine, con un clima discreto. Erano abitati fin dal mondo romano, talora con costruzioni pregevoli e antica traccia di opere e vite. Il valore economico di case ed orti è molto basso o quasi nullo. Le chiese più deserte di ogni altra. Nessuno più ci va a vivere, neppure in vacanza, neppure per poche ore. Incombe su tali borghi un destino, immeritato, di macerie spettrali. Non sono certo località di piacere, del resto mai lo furono, ma neppure luoghi brutti o invivibili. Questa lunga e intensa spina dorsale della Italia, oggi sprecata e quasi rimossa, può essere ancora una grande risorsa, che pochi altri Stati europei hanno: una collana di borghi forgiata da un incrocio di storia e geografia quasi unico.

Non sarà allora difficile - senza la paralisi dell’eccesso di regole - per certi enti pubblici o privati, fondazioni e onlus acquisirne la proprietà e il godimento con poche decina di migliaia di euro: le case sono ancora (per poco) intatte, testimoniano di infinite generazioni, ma votate ad una indefinitamente lunga e impressionante vuotaggine. Gli abitanti e abitati più vicini sono a molti chilometri, di solito decine. Ma le strade ci sono ancora, spesso anche gli altri allacciamenti. Non si tratta né di innestarvi esperienze di lavoro forzato, né di amena villeggiatura: vi sarà pur sempre il tristo concetto di segregata detenzione ad avere campo, ma in senso relativo e per alcuni, a loro libera scelta, più sopportabile e financo stimolante. Ma non più la vessazione statale, che fa poi male anche allo spirito dei cittadini mai (per caso o per merito) condannati. Piuttosto un particolare tipo di comunità intermedie, cui forse l' art. 2 Cost. non pensava ma verso cui "accetta il rinvio", se non erro. Le carceri invece non lo sono, per sottrazione di autodeterminazione individuale e collettiva: la persona oggettivata difficilmente può tornare soggetto di relazioni a raggera (al più nascerà qualche amicizia…di sfortuna), essa non entra in una simile interazione di comunità.

 Non solo la presente drammatica situazione, con suicidi di ogni tipo (e pur qualche troppo sporadica buona esperienza scoperchiante, del tipo del film Cesare deve morire), ma lo stesso eccesso della segregazione secondo il vieto modello medievaleggiante della "gabbia" (nascosta o, come sulla torre mantovana, esibita come deterrente) fa male a tutti, da troppo tempo. Acmi e induzioni a nuovi crimini, financo involontari, si ripetono ciclicamente negli stessi “penitenziari” e poi, dopo la loro esperienza, nulla potrà scongiurarne gli effetti. Tribunali di sorveglianza e uffici ministeriali, posti a fronte di tali semplici idee, non sarebbero affatto alieni dal contribuirvi (pur soppesandone, forse troppo, le complicanze burocratiche e giuridico-civilistiche e la esigenza di nuove figure del diritto penitenziario, del resto facilmente coniabili, e neppure del tutto ignote, ad es., e di nuovo salvo errore, già nella storia del civile granducato di Toscana e credo di recente in Francia: meriterà incrociare dati e risultanze).

Tanti enti e qualche privato credo siano pronti a creare un peculio congruo per iniziare già nel 2013 le operazioni propedeutiche, se non proprio le sperimentazioni: i detenuti che lo vogliono possono lavorare nelle case, per meglio riattarle, negli orti, nei boschi, assieme alla guardia forestale e l’obiettivo della quasi autosufficienza alimentare, se non energetica, è conseguibile: qualunque ex boy scout lo capisce. Aiuti non mancherebbero: qualche guardia penitenziaria, quelle che vogliano far la prova, d’intesa appunto con la forestale, basterà a sedare le liti, gli incendi reali e metaforici che talora pur si daranno. Si possono immaginare visite meno rare e umilianti (per tutti) di quelle odierne negli alveari carcerari. Legami affettivi conservati, con ogni conseguente naturale proiezione. Visite di non parenti, financo qualche periodo di loro ospitalità, con spazi propri di rispetto e discrezione. Vita dura, non di meno, forse di necessità organizzata per quartieri omogenei, per gironi dirà allora qualcuno, ma non degradante: un tipo di confino, certo, non in senso stretto carcerario e non nella natura estrema delle isole, non fuori dal mondo ma in un mondo antico che rivive. Si ritrova la giusta distanza, quella che consente una vera relazione e che nessun retribuzionista, tradizionale o radicale seguace della massima tutela per i diritti fondamentali, può pretendere di negare, semplicemente perché diritto fondamentale essa stessa. Come la Corte di Strasburgo deve riconoscere annunciando, se non si muta rotta, condanne pecuniarie prossime e pesanti, con un rischio di replay dello avvitamento proprio di quasi tre lustri di improvvida Legge Pinto. Anzi, sul terreno economico, tutti i detenuti più abbienti, che lo vogliano o no, dovranno contribuire ai costi del programma e del mantenimento. Questa non vuole essere una proposta "rugiadosa" e carezzevole. Piuttosto, dopo un equo processo, si esige una equa pena, non solo per durata ma anche per modalità: il grado di “reclusione” dovrà essere variabile dipendente della “pericolosità” del condannato, non della gravità del reato.

Il vero forse non è semplice, il brutto però è sempre complicatissimo, al pari dei corollari di quel retribuzionismo presunto riequilibratore, che il regolamento carcerario riflette ad es. con i suoi dieci, procedimentalizzati, minuti di contatto telefonico settimanale con l'esterno. La stessa pure complicatissima e ai più inintelligibile machinery del nostro processo penale, tesa all’attuazione di un sistema sanzionatorio come quello attuale, appare poco discosta da un costosissimo, estenuante e autoreferenziale esercizio di strepito verbale, in cui la chicanerie quotidiana finisce con il parere dopotutto salvifica (una nuova disciplina della prescrizione, in una prospettiva chiamiamola appenninica, diverrebbe meno improponibile; si smetterebbe allora di pestare l'acqua nel mortaio a solo profitto delle corporazioni).

Ogni critica severa è su quanto sopra financo necessaria, ma nella consapevolezza che il bello e il buono possono, anzi debbono, e anche agli occhi di chi non passi per un ottocentesco principe Myskin idiota, essere semplici e geometricamente armonici (1 sta bene ad 1,618 per intenderci). Si ridia spazio a esperimenti concettualmente ben areati, regolati con semplicità e con molto Buon Senso, non alieni dal time of silence, da una induzione alla riflessione, sul passato e sul futuro, quasi una forma embrionale di preghiera collettiva e così, qui, dalla non inverosimile chance di (ri)educazione e maturazione. Artt. 2, 3, 27, 97 Cost., molto semplicemente. Non si negherà in questi enigmatici momenti che è tempo di ascendere a un pizzico di fantasia in più, di abbandonare il fatalismo furbo, di indulgere ingenuamente a inedite progettualità sociali (alla Keynes dopo tutto, quindi neppur davvero ingenue). Probabilmente unica via - a questo, per cominciare, e poi per vero a tanti altri propositi - per allontanarci dagli incubi dissertatori, dai sonni dogmatici, dalle magniloquenti ripetitive polemiche, per un ordinamento giuridico credibile, ossia ordinato in modo un poco più "integro", poiché meno venato di caso e di paura, e con qualche miglior prospettiva anche per tutte le vittime dei reati passati e di quelli futuri e delle sofferenze inutili che, volendo davvero girare le spalle a un diritto distratto e a un tempo compiaciuto e dopo tutto vendicativo, potremmo in parte evitarci.

08/03/2013
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