L’ordinanza del Tribunale di Roma decide sui licenziamenti intimati a delle lavoratrici all’esito di una procedura di mobilità, iniziata nell’agosto 2010 e terminata nell’aprile 2013, e affronta alcune questioni nodali di applicazione della cd legge Fornero ai licenziamenti collettivi.
Come è noto le procedure di mobilità e i licenziamenti collettivi sono disciplinate dalla l. n. 223/91, che ha dato collocazione normativa ai precedenti Accordi Interconfederali del 1950 e del 1965 in materia di riduzione del personale. Con riferimento a questi accordi la giurisprudenza, argomentando anche ex art. 11 l. n. 604/66, aveva già individuato il limite della tutela delle posizioni individuali nella garanzia della verifica e della trattativa in sede sindacale, senza possibilità di controllo, anche indiretto, in sede giurisdizionale sulle scelte imprenditoriali di procedere alla ristrutturazione e/o riorganizzazione aziendale.
La L n. 223/91 con gli art. 4 e 5 ha quindi recepito un assetto di relazioni industriali in ordine al quale la procedimentalizzazione delle decisioni imprenditoriali costituiva e costituisce lo strumento di accertamento della sussistenza dello stato di crisi, della esistenza di un piano di ristrutturazione, della necessità della riduzione del personale e del numero dei lavoratori da licenziare e in definitiva della correttezza delle decisioni del datore di lavoro.
L’iter è scandito dalla iniziale comunicazione alle organizzazioni sindacali di tutte le informazioni necessarie, dalle consultazioni, dalla trattativa, dall’accordo o dal mancato accordo, dalla decisione dei licenziamenti con contestuale comunicazione degli stessi, e dei criteri di scelta applicati, ai lavoratori, agli uffici del lavoro e alle organizzazioni sindacali, residuando al giudice solo un controllo ex post sulla regolarità delle varie fasi secondo le scansione e i contenuti previsti dagli artt. 4 e 5 citati, le cui violazioni si ripercuotono sui singoli licenziamenti, quali vizi formali, determinandone l’inefficacia, e sulla correttezza nella applicazione dei criteri per la scelta dei lavoratori da licenziare (CASS. SU n. 302/00, 419/00, sez. lav. 880/13, sez. lav. 5582/12).
Con la riforma Fornero, art. 1 comma 44, 45 e 46, si sono introdotte delle disposizioni dirette a incidere su questo consolidato assetto giurisprudenziale, al fine di ridurre ulteriormente il controllo giudiziale, prevedendo la possibilità di sanare i vizi di procedura con l’accordo sindacale stipulato all’esito della stessa e consentendo un termine di sette giorni fra la comunicazione dei licenziamenti e la comunicazione agli uffici del lavoro e alle organizzazioni sindacali dei nominativi dei lavoratori scelti e delle modalità di applicazione dei criteri di scelta.
E si è proceduto, così come in tutte le altre ipotesi di licenziamento, attraverso un metodo di “spezzettamento delle fattispecie”: senza ridefinire sul piano sostanziale le ipotesi di recesso ingiustificato del datore di lavoro, per le quali si sono volute conseguenze diversamente modulate, è stata rimessa all’interprete l’enucleazione dei presupposti per l’applicazione dell’una o dell’altra sanzione ex art. 18 L n. 300/70, presupposti da estrapolare da un impianto concettuale elaborato in un contesto normativo completamente diverso.
Ne è derivato un quadro di difficile lettura e l’approccio completamente asistematico, nell’ansia di ridurre il controllo giudiziale e depotenziare la tutela del lavoratore illegittimamente licenziato, ha determinato più problemi di quanti verosimilmente gli ideatori della riforma avessero consapevolezza, ad iniziare dalla non corrispondenza, sul piano concettuale, della semantica utilizzata dalle nuove disposizioni di differenziazione di tutela (“sussistenza o insussistenza del fatto”) con quella delle disposizioni che definiscono i presupposti del legittimo recesso da parte del datore di lavoro (che assumono nozioni astratte di contenuto giuridico - valutativo). E questo anche nella materia dei licenziamenti collettivi.
La prima questione che ha dovuto affrontare e risolvere il Tribunale di Roma è stata quella della applicabilità del nuovo rito cd Fornero anche all’impugnazione dei licenziamenti intimati a seguito di procedura ex L n. 223/91 per riduzione del personale. L’art. 18 L n. 300/70 riformato non menziona, infatti, i licenziamenti collettivi fra le ipotesi per le quali è previsto il rito speciale.
La risposta affermativa appare peraltro essere l’unica sostenibile in base a una interpretazione logica e coerente con il sistema. Pur nel silenzio della L n. 92/12 in relazione ai licenziamenti collettivi, il nuovo rito, come ha efficacemente sottolineato il Tribunale, è connesso alla applicabilità della disciplina sanzionatoria di cui all’art. 18 L n. 300/70 ed è diretto ad assicurare tempi brevi, certezza di rapporti giuridici, rischi economici accettabili per le conseguenze di una eventuale illegittimità del licenziamento.
E’ evidente che queste esigenze sono sicuramente, ed anzi a maggior ragione, sottostanti ai licenziamenti intimati all’esito di una procedura di riduzione del personale, ai quali pure si applica, per espresso richiamo del comma 46, l’art. 18. Del resto, non vi può essere dubbio che al licenziamento nullo per difetto di forma scritta, compreso quello intimato ex art. 5 L n. 223/91, si applichi il rito Fornero ex art. 18 comma 1 riformato, e una diversa soluzione per le altre ipotesi di illegittimità ex art. 5 porterebbe alla assurda e irrazionale conseguenza di una diversità di riti priva di qualsiasi giustificazione logica e giuridica.
La seconda questione che il Tribunale si è trovato ad affrontare, sicuramente più complessa ed interessante, attiene invece, sul piano sostanziale, alla individuazione di una ipotesi di illegittimità dei licenziamenti non prevista e non disciplinata dalla legge Fornero attraverso il sistema dello “spezzettamento”.
Nella fattispecie concreta portata all’esame del Tribunale la procedura di mobilità era stata aperta, con la comunicazione alle OOSS in data 30.8.10, indicando quale ragione della necessità di riduzione del personale la cessazione di un settore di attività, a seguito della revoca dell’accreditamento regionale del reparto di Ostetricia e Ginecologia, quindi un fatto ben preciso nel suo contenuto e nei suoi confini, con immediate ricadute anche nella individuazione dei lavoratori da licenziare. Esattamente il medesimo motivo è stato ribadito nelle lettere di licenziamento in data 30.4.13 (“per le motivazioni indicate nella comunicazione di avvio della procedura di mobilità del 30 agosto 2010”). Sennonché nel frattempo, prima in data 20.12.10 con ordinanza di sospensione e poi in data 3.8.11 con sentenza di annullamento, il provvedimento amministrativo di revoca dell’accreditamento era venuto definitivamente meno.
Si era dunque verificata una ipotesi, sicuramente non frequente, non collocabile nella bipartizione, vizi di forma o non corretta applicazione dei criteri di scelta, che era stata oggetto della elaborazione della giurisprudenza precedente alla legge Fornero al fine di delimitare non le ipotesi di illegittimità dei licenziamenti collettivi ma l’ambito del sindacato giurisdizionale e sulla base della quale è stata innovativamente (e frettolosamente) scissa la tutela, solo indennitaria per la prima ipotesi, reintegratoria per la seconda (mentre la tutela piena, reintegrazione e integrale risarcimento del danno, è stata prevista per l’ipotesi di licenziamento non intimato con la forma scritta).
Il vuoto normativo è stato chiaramente determinato dal metodo seguito nella riforma dell’art. 18. In precedenza, una volta accertata una qualsiasi causa di illegittimità del licenziamento, non vi era per l’interprete alcuna necessità di indulgere nella definizione ulteriore del tipo di illegittimità accertata, attesa l’unicità delle conseguenze. E il vuoto normativo in esame non poteva essere colmato per semplice assimilazione a una o all’altra delle ipotesi disciplinate dal comma 46: non a una mera irregolarità o vizio di procedura (tutela solo indennitaria), attenendo al presupposto stesso della procedura e non alla applicazione errata o non conforme a buona fede dei criteri di scelta (tutela reintegratoria più tutela indennitaria), che oltretutto erano stati concordati con le OOSS rispetto a una esigenza di riorganizzazione/ristrutturazione non più sussistente.
La non correlazione fra la ragione dichiarata di cessazione parziale di attività e la riduzione di personale attuata con i singoli licenziamenti dà invece luogo a un autonomo profilo di illegittimità, oggetto di controllo giudiziale, quello della mancanza di nesso causale fra le ragioni di riduzione del personale dichiarate e i singoli licenziamenti. Escluso quindi che l’illegittimità riscontrata, sicuramente più radicale di un mero vizio di forma nel procedimento ex art. L n. 223/91, potesse essere priva di conseguenze, il Tribunale ha fatto applicazione dei principi di interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata al fine di ricondurre a una razionale coerenza di sistema anche l’ipotesi non contemplata.
La ragione della illegittimità del licenziamento è la manifesta insussistenza del fatto addotto quale causa del recesso. L’ipotesi prossima a quella considerata è quella dell’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (che è ontologicamente la stessa fattispecie solo rivolta a un recesso unico o plurimo, ma non collettivo ex L n. 223/91) per la quale la “manifesta insussistenza del fatto” determina il diritto alla reintegrazione, con tutela indennitaria quanto alle conseguenze economiche. Non sussiste alcuna ragione ostativa, di disomogeneità fra le due fattispecie, per non ricondurre anche la prima alla stessa tutela prevista per la seconda.
Il ragionamento sottostante alla interpretazione delle nuove disposizioni appare pienamente condivisibile e la correttezza dello stesso è avvalorata da una ulteriore considerazione: l’insussistenza del presupposto di fatto addotto a motivo del recesso dà luogo allo stesso tipo di tutela anche nel licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
Pur nella difficoltà di attribuire alla locuzione “insussistenza del fatto” un significato giuridico certo, con riferimento alla nozione di giustificato motivo soggettivo (notevole inadempimento degli obblighi contrattuali) e giustificato motivo oggettivo (ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa) e pur nell’impossibilità di differenziare sul piano concettuale sostanziale l’insussistenza del fatto dalla manifesta insussistenza del fatto (attenendo il concetto di “manifesta” al più alla valutazione della prova e non al fatto, che o sussiste o non sussiste) si può quindi affermare che l’“insussistenza del fatto” deve essere considerata, nella applicazione dell’art. 18 riformato, come categoria unitaria ai fini della tutela reintegratoria.