In vista dell'uscita del numero 2/2015 della Rivista Trimestrale, dedicato ai 40 anni dell'ordinamento penitenziario, ripubblichiamo alcuni articoli "storici" sulla questione carcere, tratti dal nostro archivio. II primo brano della serie è uno scritto di Sandro Margara, dal n.3/2000 della rivista.
1. Mario Gozzini ricordava più volte un episodio di una delle sue prime visite al carcere fiorentino delle Murate, agli esordi della sua lunga pratica carceraria di parlamentare. C’era un detenuto, che si preparava a tornare in libertà il giorno dopo. Alla domanda di cosa avrebbe fatto, rispose: “Ritrovo la mia vita, le cose non sono cambiate, rifarò quello che ho già fatto e, più prima che poi, tornerò qui.”
Ecco il carcere inutile. Tutte quelle mura, quella organizzazione, efficiente o meno che fosse, tutti quegli uomini e quel tempo, servivano soltanto a isolare una persona, una delle tante o delle poche (secondo i gusti), una delle solite, comunque, che veniva, alla fine rimessa fuori così come era stata messa dentro, pronta, più o meno, a tornarci ancora.
La macchina detentiva ha la sua logica reale, che è quella del contenere le persone senza stabilire relazioni con esse, con le loro esistenze e i loro destini. La esecuzione della pena detentiva è la consumazione di un tempo stabilito: al suo termine c’è un tempo irrevocabilmente usato: per nulla che non sia il suo passare.
Mario Gozzini pensava che così non andasse bene e che bisognava che il carcere servisse a qualcosa, a cambiare le cose, a cercare di modificare le situazioni individuali. Sapeva anche che questa era la indicazione che veniva dalla Costituzione.
Rompere la logica del carcere che c’era voleva dire prima di tutto portare in primo piano il rapporto con chi era detenuto, interessarsi di lui, farsene carico. Voleva anche dire utilizzare quel tempo per riprendere i fili di esistenze problematiche, per cercare di costruire nuove possibilità, superare i vecchi conflitti attraverso rapporti nuovi o rinnovati. Si pensa, ed è vero, che non sia possibile cambiare l’uomo, ma le condizioni oggettive del suo agire possono cambiare, possono essergli offerte risorse diverse e sostenere la loro utilizzazione, preparando un inserimento sociale diverso: un lavoro, un rapporto corretto con la famiglia e l’ambiente sociale. Per questa via ci può essere e c’è sovente un cambiamento dell’agire della persona, l’evoluzione delle sue potenzialità personali attraverso l’abbandono dei vecchi conflitti che le soffocavano.
Vorrei cogliere il senso di questo discorso che fu quello di Mario Gozzini e di coloro che, con lui vollero la rinnovazione della legge penitenziaria. Il senso di questo discorso è fatto di molte fedi: credere nell’uomo, non terminale di condizioni irreversibili, non delinquente in eterno, ma uomo, prima di tutto, che, pur avendo alle spalle il delitto, può giocare liberamente le linee del suo futuro, se gli se ne dà l’occasione; credere nella emancipazione possibile dell’uomo; credere che questo è un impegno della società, di una società educativa, che ha da dire, da trasmettere princìpi, da dare risorse.
Mario Gozzini diceva ancora: la condanna fotografa il delitto e l’autore nel tempo in cui lo ha compiuto, ma bisogna seguire la sua esistenza, capire ciò che la persona diventa durante la esecuzione della pena, favorirne e sostenerne la sua evoluzione. Staccarci dunque dalla fotografia, che, nel tempo diventa infedele.
2. Credo sia utile ricordare come si arrivò alla legge che prese il nome di Gozzini. Non fu un percorso breve: non coinvolse solo quei parlamentari, non molti ma importanti, che seguirono da vicino i lavori: Giuliano Vassalli, Marcello Gallo, Raimondo Ricci, dietro i quali c’erano le maggiori forze politiche di allora. Erano coinvolti in quei lavori i magistrati impegnati nel settore e lo stesso Consiglio superiore della magistratura, il Ministero di grazia e giustizia e la Amministrazione penitenziaria in particolare, ed anche dall’interno delle carceri venivano voci partecipi in quella fase delicata, in cui una larga dissociazione dal terrorismo segnava la sua sconfitta e la uscita dagli anni di piombo. Mario Gozzini era presente in tutti questi settori e stimolava la crescita della legge, la sua evoluzione dal limitato progetto iniziale. La legge nasceva con il contributo di molti, attraverso una discussione attenta. Forse sarebbe bene ricordarsene nelle voci confuse e confondenti di questi tempi, piene di demolitori, altrettanto sicuri che ignari, di ciò che è stato costruito con paziente riflessione su un tema fondamentale, come quello di rendere utile la esecuzione della pena alla attuazione dei principi costituzionali sulla stessa.
Voglio osservare che questa ispirazione costituzionale della legge Gozzini trova la sua conferma nel rapporto che si stabilì, immediatamente prima della stessa e negli anni successivi, con la Corte costituzionale, nella cui giurisprudenza si ritrova una difesa costante della legge contro gli attacchi ricorrenti che venivano portati alla stessa. Anzi: la Corte costituzionale ha riconosciuto come principio costituzionale quello della flessibilità della esecuzione della pena, che la “Gozzini” ha rilanciato nel modo più ampio.
Il progetto iniziale di Gozzini, da cui i lavori partirono, era molto semplice, ma, nel seguito, ciò che si volle sempre più chiaramente era una rivisitazione complessiva della legge penitenziaria del 1975, che aveva subito molti condizionamenti e limitazioni nella fase finale della approvazione. Il progetto iniziale affrontava due punti, che restarono centrali fino in fondo.
Il primo era quello di sopprimere le preclusioni alle misure alternative per alcuni reati. Una possibilità ci doveva essere per tutti: una possibilità astratta, si intende, che, per concretarsi, aveva bisogno di condizioni soggettive ed oggettive che facessero pensare ad un uso corretto di quelle aperture. Il progetto diceva no a togliere in alcuni casi ogni speranza.
Ma il dare speranza a tutti, comportava di affrontare un altro punto cruciale, il secondo presente fin dal progetto iniziale, un punto poco conosciuto, ormai, in quel che si racconta della “Gozzini”. Con realismo, ci si poneva il problema del governo del carcere, il problema della massima sicurezza, di un’area riservata a coloro che non volevano cogliere le possibilità che venivano offerte a tutti e sceglievano lo scontro con le istituzioni, quantomeno con quella in cui erano rinchiusi. Il problema, per questa parte, era di riconoscere la esigenza di queste aree di massima sicurezza, ma di dare contemporaneamente alle stesse legalità e regole: per esserci assegnati, per uscirne, per viverci dentro. Le carceri di massima sicurezza esistevano, eccome, ma erano nate e vivevano senza queste regole, in un regime di fatto deciso dalla Amministrazione penitenziaria, che poteva anche non applicare determinate norme di legge. Il proposito di Gozzini era di avere insieme alla massima sicurezza anche la massima legalità. Su questo punto, il progetto iniziale era molto concreto e semplice. Nel procedere dei lavori sembrò preferibile un sistema più complesso, preso da altro progetto di legge, il quale prevedeva difficili sistemi di assegnazione alla massima sicurezza, sistemi poco utilizzabili e poco utilizzati, così che restò il sistema di fatto di sempre, poi sostituito e rinfrescato dal famoso art. 41 bis, con il quale si rinnovava il tentativo di una supermassima sicurezza, sempre di fatto. Ma questa è un’altra storia.
Torno al progetto Gozzini, che, attraverso un lungo processo di arricchimento (introduzione dei permessi premio, nuovo regime della liberazione anticipata, creazione della detenzione domiciliare, allargamento delle competenze dell’organo collegiale di sorveglianza, che veniva chiamato Tribunale di sorveglianza, nuovo regime delle misure di sicurezza ed altro ancora), arrivò a diventare legge, con il contributo e la partecipazione di tutte le forze che ho detto.
Chiedere al carcere di essere utile, introdurre i permessi premio per avviare i percorsi riabilitativi delle persone, sostenerli, anche attraverso le misure alternative al carcere, implicava di costruire in modo profondamente diverso la istituzione penitenziaria. Venne detto, in quella occasione, che la società politica era più avanti della società civile. Era vero, credo io, che la società politica assolveva correttamente la sua funzione: che era quella di dare istituzioni e relazioni sociali migliori alla polis. Non è questa la funzione della società politica? O la sua funzione è quella di rincorrere emozioni e umori di quella che sembra avere cambiato denominazione e non si chiama più società, ma gente?
3. Si trattava, è vero, a questo punto di avere la forza, la volontà e il coraggio di sostenere il progetto, di non arrendersi. E, in questa battaglia, le schiere si sono diradate. O, meglio, sono cambiate. Ci sono state nuove forze sociali, nell’area del volontariato, per le quali la “Gozzini” è stata una parola d’ordine, una consegna, forze che, in questi anni si sono prodigate e si prodigano, accanto a quegli operatori penitenziari, e non sono pochi, che hanno creduto e credono in questi princìpi. Ma sono mancate essenzialmente le forze che avevano la responsabilità del processo di trasformazione della istituzione penitenziaria. C’era la legge, ma è stata lasciata sola, senza provvederla degli strumenti indispensabili per raccogliere le speranze, costruire ed attuale le possibilità. Ci si sono stracciate le vesti, da governi e opposizioni, contro le aperture della legge, appena succedeva qualche cosa che non andava, ma nessuno (e qui bisogna dire: nessuno dei governi) si è affannato ad attrezzare la riforma. Mentre, con un grande sforzo, il personale di custodia raddoppiava, quello, già modestissimo di numero, dell’area trattamentale restava quello pensato nel 1975 (solo nel 1998, c’è voluta la tanto deprecata legge Simeone per disporre il raddoppio del personale di servizio sociale). E si raggiungeva, così, un risultato negativo duplice: limitare l’applicazione della legge (è un fatto abbastanza noto) ed elevare il rischio di insuccesso, per tutte le inadeguatezze del sistema operativo.
E’ noto, comunque, che le tensioni sulla legge sono state ripetute e che, tra la fine del 1990 e il 1992, c’è stata una nuova “rivisitazione” della “Gozzini”: questa volta restrittiva. E’ meno noto, però, che subito dopo questa fase, ne è iniziata un’altra, frutto della convergenza di vari fatti e non di una consapevole scelta politica, nella quale le misure alternative, in pochi anni, sono praticamente quadruplicate, prima ancora che entrasse in esecuzione la legge Simeone. Parrebbe non resistibile questo processo, che riguarda, nella grande maggioranza dei casi le pene minori, per le quali l’opinione che il carcere sia sprecato mi sembra abbastanza ragionevole.
4. Ma ormai emergono altre ragionevolezze e altre strade. Sopratutto altre parole, perché su queste si giuoca il destino della legislazione penitenziaria. Le parole sono certezza, effettività della pena. Si tratta di sapere se una pena carceraria senza prospettive, che riproduce il carcere inutile, che fa dimenticare al condannato di essere colpevole e lo induce a percepirsi come vittima (questo è uno degli effetti del carcere senza aperture, un carcere che produce innocenza e non responsabilità) è una pena certa e effettiva. Mentre è incerta e non effettiva quella che si esegue con il coinvolgimento del condannato, per operare la ricognizione della sua storia, la rilevazione dei suoi problemi, la ricerca e la realizzazione delle sue prospettive: e questo anche attraverso le misure alternative al carcere. Ecco: si tratta di sapere che cosa si intende per effettività. Per chi sostiene che la pena effettiva deve restare la stessa, non può essere modificata, la effettività è data dal trascorrere del tempo dato. Ma questo è un tempo privo di accadimenti e, in qualche modo, di riferimenti: è solo tempo che passa, un tempo vuoto. Per l’intervento penitenziario voluto dalla “Gozzini” quel tempo deve essere utilizzato: il poco o il molto che si potrà fare sarà la misura di questa utilizzazione. Se l’esecuzione della pena è servita, se l’interessato ha potuto essere partecipe e la conclude con prospettive diverse da quelle con cui vi è entrato, in questo senso, la pena è effettiva, si traduce, cioè, in un risultato, che ne attua la finalità peculiare indicata nell’art.27 della Costituzione.
Diciamo che la differenza vera fra i due tipi di effettività è che quella della pena certa e immodificabile è estremamente semplice, solleva gli operatori della esecuzione da ogni responsabilità ed impegno. Se, alla fine della esecuzione, come per il detenuto delle Murate di cui parlava Gozzini, non sarà cambiato nulla, pazienza. Commetterà un altro reato, come quel detenuto prevedeva, e ritornerà dentro a consumare altro tempo. L’effettività della esecuzione della pena utile, voluta dalla “Gozzini”, è difficile e complicata, rende gli operatori responsabili di un processo difficile insieme al condannato.
Cosa troveremo, poi, alla fine della strada aperta da questa nuova parola d’ordine della certezza e della effettività della pena, che sembra essere propria delle proposte di riforma dell’intera normativa penale, formulate dalla Commissione Grosso presso il Ministero di grazia e giustizia? Massimo Pavarini, che pure critica duramente il sistema della flessibilità delle pene e delle misure alternative al carcere introdotto e sviluppatosi dalla “Gozzini”, così risponde alla domanda: “Si è potuto dimostrare che la reazione critica alla ideologia trattamentale, in altri contesti nazionali e in momenti a noi prossimi, ha ispirato significative riforme del sistema sanzionatorio, volte all’affermazione… della inflessibilità della pena in fase esecutiva. Le aspettative suscitate perché la certezza della pena potesse coniugarsi con il criterio ispiratore del carcere come extrema ratio si sono dimostrate assolutamente infondate: sono aumentati i tassi di carcerizzazione, in particolare in ragione di una maggiore severità delle pene irrogate nella fase giudiziaria; le condizioni del carcere sono ulteriormente peggiorate”.
5. Cerco di capire gli orizzonti che si aprono a questo nuovo corso, ancora esasperatamente rilanciato in questi giorni. E’, credo, necessario per difendere l’opera di Gozzini e di tutti coloro che si sono mossi con lui.
Formulo tre domande.
La prima. Si parla di ritorno ai livelli di pena del codice Rocco per alcuni reati contro il patrimonio, di escludere i recidivi dai benefici penitenziari, di ridurli comunque a vario titolo. Si è consapevoli che muoversi in questa direzione significa avviarsi sulla strada degli Stati Uniti, che, fra detenuti (oltre due milioni) e soggetti in trattamenti penali alternativi hanno un tasso di penalizzazione di poco meno del 3% di tutta la popolazione, bambini e vecchi compresi? Una società con un tasso di penalizzazione del genere è ancora una società “sociale”, se mi permettete l’uso di un termine simile?
La seconda domanda. Il diritto alla sicurezza, continuamente rivendicato a destra e sinistra, nel cui quadro si rincorrono le proposte più diverse, diritto alla sicurezza che riguarda coloro che hanno un inserimento sociale, spesso sofferto, ma pur sempre un inserimento sociale, può portare a ridurre o ad azzerare le residue attenzioni per tutti coloro che non hanno quell’inserimento e che commettono reati: il vasto ceto di tossicodipendenti, extracomunitari e devianti in genere. Il che può portare alla loro più radicale rimozione dal territorio e associazione alle galere e soprattutto a mettere completamente da parte la ricerca di intervenire, attraverso politiche sociali più adeguate, sulle cause delle situazioni che determinano la insicurezza. Ricordiamo quando le politiche di sicurezza sociale degli enti locali avevano proprio questa finalità, di interessarsi delle fasce deboli e non garantite? Mi chiedo: che rapporto c’è fra la affermazione incondizionata della sicurezza, volta a rimuovere gli elementi di disturbo sociale e la deresponsabilizzazione rispetto ad un autentico intervento sulle cause del disturbo e del disagio sociale di molti. Sotto questi temi, permettetemi, sento pulsare la ferma volontà di affermare le responsabilità altrui e di defilarsi dalle proprie, tanto più grave da parte di chi ha responsabilità politiche.
La terza domanda. Che ne sarà del carcere, che si sta riempiendo (5-6.000 detenuti in più in poco più di un semestre), che ne sarà del carcere, per il quale si continua a parlare, abbastanza a vuoto, di riabilitazione, mentre si lavora, abbastanza a pieno, sul terreno della sicurezza, della sicurezza come precondizione, della sicurezza ancora come deresponsabilizzazione dai problemi di fondo di un carcere che non sa dare lavoro, trattamento e, sovente, rispetto, secondo quello che la legge dice? Che ne sarà del carcere utile a cui Gozzini ha pensato e che ci ha lasciato come consegna?
6. Voglio ricordare, in conclusione di questo mio intervento, un episodio di tempi non lontani in cui si tornò a chiedere a Mario Gozzini conto della applicazione di una legge dello Stato, voluta dallo Stato, mantenuta in vigore dallo Stato, come tutte le leggi. C’è, dunque, una trasmissione televisiva, che Gozzini segue da casa in collegamento diretto con lo studio. Il conduttore, Santoro, pone in diretto colloquio con Gozzini le vedove di due agenti, uccisi in un conflitto a fuoco con un detenuto evaso o semilibero. Sono le situazioni crudeli che piacciono alla televisione, in cui le emozioni soffocano ogni riflessione e ogni ragionamento. Non ci fu tempo per la risposta, che forse non interessava una volta creata la situazione, non ci fu tempo per dire quale era il senso della legge, che non solo Gozzini, ma anche lo Stato, e anche la Costituzione vogliono.
Tento oggi di chiudere quel discorso. Le ragioni della legge le trovo in ciò che significherebbe rinunciare ad essa. Trovo una risposta, che mi pare straordinaria, nella parte conclusiva di una parabola evangelica, la parabola dei talenti. Ve la leggo: “Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra: ecco qui il tuo”. Mi fermo qui: all’immagine del padrone che il servo si fa, alla sua paura di rischiare in qualunque modo, al suo nascondere il talento.
Dunque: vogliamo non cogliere le possibilità che si trovano in vite sbagliate, ma che possono avere ancora un percorso? Vogliamo fermare il responsabile al suo delitto, sotterrare i suoi talenti, i nostri talenti, dati a noi per fare rendere ancora i suoi? Possiamo farlo, possiamo optare per una società punitiva, che assomiglia al padrone che il servo si immagina, che vuole mietere dove non semina, che vuole un risultato senza dare nulla di sé. Ma la società a cui pensiamo, che noi vorremmo per noi e a cui Mario Gozzini ha pensato, non dovrebbe essere una società educativa, che spende i propri talenti e li spende anche per fare fruttare quelli di tutti? Questa società partecipa al dolore delle vittime, si fa carico di esse, ma sa che non può ignorare e dimenticare i colpevoli; sa, in particolare, che farsi carico delle vittime è qualcosa di più e di diverso e di più responsabile che punire più duramente e ciecamente i colpevoli.
Mario Gozzini ci ha lasciato una contraddizione vitale, alta e forte, molto simile a lui.