Pubblichiamo, con il consenso dell'autrice, l'intervento tenuto all'incontro organizzato il 1° marzo 2018 dalla Sezione di Milano dell'Anm con i magistrati in tirocinio in quel distretto
Mi dispiace molto che oggi non sia presente la professoressa Meniconi, autrice di una bella Storia della magistratura italiana [1]. Sono sempre stata convinta che non si possono esprimere fondati giudizi sulla società, sulla giustizia, sugli ordinamenti, sulle istituzioni se si prescinde dalla loro storia. Speravo di limitarmi ad accompagnare la sua relazione con qualche testimonianza di vita vissuta… Ora cercherò di tener conto dei suoi scritti, ma vi raccomando di leggere la storia passata e recente dell’istituzione della quale ora fate parte.
La mia esperienza appartiene a un tempo ormai lontano: ho fatto parte della magistratura dal 1967 al 1999. Ne ho vissuto tutte le più significative trasformazioni, segnate da una caratteristica che non ha l’eguale, per quanto ne so, nel mondo: il ruolo svolto dall’associazionismo giudiziario, protagonista di molte riflessioni innovative, di molte battaglie culturali, che hanno preceduto e accompagnato modifiche normative e trasformazioni culturali.
L’Associazione generale dei magistrati italiani (Agmi) fu fondata nel lontano 1909 per iniziativa di “giudici in sott’ordine”, che richiedevano miglioramenti del loro trattamento economico ma anche, come poi fu precisato nei congressi del 1911 e del 1913, la semplificazione della carriera e i ruoli aperti, la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, l’eleggibilità del Consiglio superiore della magistratura (allora organo consultivo del ministero) da parte di tutti i gradi della magistratura, e l’estensione delle guarentigie della magistratura giudicante anche al pubblico ministero [2]. Allora la separazione fra alta e bassa magistratura era determinante e quando alcuni magistrati di alto grado entrarono nell’Associazione, il guardasigilli Vittorio Emanuele Orlando manifestò la sua contrarietà in una famosa intervista al Corriere della sera: sia perché «la gerarchia costituiva l’essenza della magistratura italiana» e sarebbe stato uno scandalo, cito, «una discussione da pari a pari… fra un uditore ed un primo presidente della Cassazione», che avrebbe minato l’autorevolezza degli alti gradi, sia perché era difficile, cito ancora, «disunire… il concetto di associazione dal concetto di lotta», mentre il magistrato deve restare separato dalla società, tenersi fuori da qualunque dibattito, anche sulla giustizia, per non compromettere l’immagine di mera “bocca della legge”.
Poco prima dell’avvento del fascismo l’elaborazione dell’Associazione era diventata più dettagliata e l’azione più incisiva. Nel 1921 fu ottenuta l’estensione dell’inamovibilità ai pretori e l’elettività del Csm da parte di tutto il corpo giudiziario. Ma con il fascismo tutto cambiò: già nel 1923 il Csm fu reso di nuovo di nomina governativa e furono collocati a riposo magistrati di fede democratica, come lo stesso presidente della Cassazione Ludovico Mortara. Nel 1925 l’Agmi si sciolse, prima di venire soppressa dalla legge del 1926 che vietava agli impiegati pubblici l’adesione a qualsiasi sindacato. I dirigenti dell’Associazione furono prima trasferiti in sedi disagiate poi epurati: fra questi il segretario generale Vincenzo Chieppa, che aveva fatto uscire l’ultimo numero del giornale La Magistratura con un articolo in cui spiegava così lo scioglimento: «La mezzafede non è il nostro forte: la “vita a comodo” è troppo semplice per spiriti semplici come i nostri. Ecco perché abbiamo preferito morire».
Subito dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, il 21 ottobre 1945 fu costituita l’Associazione nazionale magistrati e Vincenzo Chieppa, riammesso in magistratura, ne fu il vicepresidente dal 1949 al 1952.
Restava però pienamente in vigore l’ordinamento giudiziario disciplinato dal r.d. del 1941, espressione del regime fascista, nel quale la magistratura si configurava come un ordine fortemente gerarchizzato, i cui vertici erano nominati dal governo. I magistrati si distinguevano allora per gradi (che, fra l’altro, corrispondevano ai gradi militari). Considerati “bocche della legge”, puri tecnici che dovevano non interpretare ma applicare il diritto dato secondo il suo unico significato corretto. Per individuarlo, i tecnici selezionati come più “bravi”, attraverso appositi concorsi interni per titoli o per esami, venivano promossi alle Corti di appello, quindi alla Corte di cassazione, per correggere gli eventuali “errori” dei tecnici di grado inferiore. Sulla base di questa stessa concezione erano i giudici “superiori” a valutare nei concorsi i “meriti” dei giudici “inferiori”, con evidenti sollecitazioni al conformismo, tanto più preoccupanti perché i più anziani ed esperti magistrati erano coloro che dirigevano gli uffici, che si erano formati nel precedente regime e stentavano a considerare la Costituzione come indirizzata anche a loro e non soltanto a un futuro legislatore. Questo sistema fra l’altro comportava una discriminazione fra i magistrati addetti alle sezioni civili, che potevano scrivere “belle” sentenze come trattatelli destinati ai concorsi, e magistrati destinati alle preture penali o peggio agli uffici del pubblico ministero, che non avevano pari occasioni di acquisire titoli per far carriera. Ricordo che nel corso del nostro breve tirocinio di uditori fummo applicati, io e il dottor Pulitanò, poi diventato professore, alla Procura della Repubblica per redigere (“voi che siete freschi di studi”) requisitorie scritte per il procuratore e il suo vice che dovevano presentarsi agli scrutini per la promozione.
Una visione che oggi ci appare certamente datata e contraddetta dai principi costituzionali − che avevano tardato ad essere compresi − e dalle stesse norme costituzionali, disapplicate o tardivamente attuate: basta ricordare che ci vollero otto anni dall’entrata in vigore della Costituzione perché la Corte costituzionale cominciasse a funzionare e dieci anni perché fosse istituito il Consiglio superiore della magistratura (poi continuamente modificato, quasi ad ogni scadenza elettorale). Ma negli anni successivi alla stagione cosiddetta del “disgelo costituzionale” un grande movimento di rinnovamento culturale investì l’Italia anche nel campo del diritto e coinvolse nella battaglia contro il formalismo giuridico la stessa magistratura. Già allora, infatti, la istituzione della Corte costituzionale e del giudizio di legittimità delle leggi apriva spazi nuovi di valutazione critica delle norme, alla luce di principi e valori che introducevano criteri imprevisti dalla dottrina ortodossa.
Quanto a me, fu in quel periodo che entrai in magistratura, a 26 anni, del tutto ignara di queste questioni. Volevo fare l’avvocato, ma non potevo permettermelo. Per necessità avevo cominciato a lavorare a 18 anni, appena terminato il liceo, dapprima come telefonista (allora non c’era la teleselezione, per chiamare da Milano a Cinisello Balsamo bisognava passare dai centralini della Stipel, dove lavoravo io), poi come impiegata nell’ufficio legale di una società petrolifera francese. Riuscii ugualmente a laurearmi in giurisprudenza nel 1963, e qualche tempo dopo, nel 1965, essendo stata invitata da un’amica a un festeggiamento per le due prime donne entrate in magistratura a Milano, scoprii che si apriva questa nuova strada e mi iscrissi subito al successivo concorso, all’esito del quale divenni uditore giudiziario. Con grande sconcerto dei mei genitori che, pur non essendo milanesi, avevano assunto la mentalità di questa città. I milanesi allora facevano gli imprenditori, gli impiegati, gli operai, i professionisti, i commercianti, gli artigiani, non facevano gli statali (e avevano anche la tendenza a fare una certa confusione fra pretura, procura, questura). Gli statali ai loro occhi erano meridionali sottopagati. E in effetti, nel passaggio dal mio impiego privato a quello pubblico, mi trovai con uno stipendio dimezzato, che dovetti integrare con qualche lezione nelle scuole serali. Io tuttavia ero molto contenta perché non sopportavo l’idea di spendere le mie energie per il maggior profitto di lontani azionisti e mi affascinava viceversa l’idea di lavorare per la giustizia, per i diritti dei cittadini… Anche se l’idea che i comuni cittadini avevano allora della giustizia era tutt’altra: lo appresi con sgomento quando, poco dopo la mia nomina, andai con mia mamma a trovare una sua amica romagnola cui era stato dato (non per caso) il nome Ribella. Presentata all’anziana madre di costei, che mi chiese cosa facessi, alla mia orgogliosa dichiarazione riguardo al mio nuovo lavoro mi guardò sorpresa e come disgustata, poi, ripresasi, a mo’ di consolazione mi disse «È pez e boia»: c’è qualcuno che fa un mestiere peggiore del tuo! Questa è l’idea che il popolo aveva della giustizia!
L’ambiente giudiziario milanese era più vivo che altrove, sebbene pochissimi fossero i magistrati milanesi. A Milano, sede disagiata, per l’alto costo della vita, erano assegnati d’ufficio numerosi giovani, che, pur fra molte difficoltà, soprattutto economiche, con le loro aspirazioni, la loro curiosità, rendevano interessante questa nuova esperienza. Era un mondo in rapida evoluzione, una società in movimento, in cui il boom economico del dopoguerra aveva reso agevole, come io stessa avevo sperimentato, trovare lavoro e in cui quindi poteva funzionare l’ascensore sociale: al contrario di oggi, le disuguaglianze sembravano poter diminuire. Grazie alla “modernità” del contesto milanese, in cui non erano poche le donne avvocato, le giovani donne magistrato non incontrarono particolari difficoltà, a differenza di quanto capitava nei più statici e conservatori uffici di altre regioni, salvo alcuni atteggiamenti paternalistici che oggi fanno sorridere, come quello dell’anziano presidente di un collegio penale che raccomandava di non far leggere alla giovane collega il testo che veniva sottoposto al giudizio del tribunale perché offensivo del comune senso del pudore. Ricordo anche il colto, brillante, progressista presidente del Tribunale di allora, Luigi Bianchi d’Espinosa, che sosteneva di essere favorevole all’ingresso delle donne in magistratura «purché non fossero in maggioranza nei collegi»!
Le prospettive di cambiamento generavano appassionate discussioni, che coinvolgevano i settori meno tradizionali della magistratura. Nell’ambito dell’Anm, che rivendicava miglioramenti economici, l’abolizione della carriera e l’indipendenza interna, si era costituita nel 1957 la corrente di Terzo potere, espressione soprattutto della cosiddetta bassa magistratura, le cui rivendicazioni erano state fatte proprie dall’Anm. In conseguenza di ciò, nel 1961 erano usciti dall’Anm gli alti gradi, ora riuniti per lo più nell’Umi, l’Unione dei magistrati italiani, decisamente conservatrice. A rappresentare le posizioni relativamente più conservatrici rimaste nell’Anm fu la corrente di Magistratura indipendente, costituita nel 1962. Nel 1964 fu quindi fondata Magistratura democratica, portatrice di idee progressiste.
Nonostante l’assetto ordinamentale ancora gerarchico, si erano avviate riforme che − con la legge Breganze del 1966 e poi quella del 1973, che abolivano la progressione di carriera per concorso, stabilendo quella per anzianità a ruoli aperti − aprivano a una parziale indipendenza interna dei magistrati rispetto ai forti condizionamenti della stessa attività giurisdizionale da parte dell’alta magistratura, educata e cresciuta nell’epoca fascista. Era questo un mutamento “epocale” – così lo definisce la professoressa Meniconi – perché «il potere di conformazione della gerarchia aveva avuto la meglio sugli indirizzi giurisprudenziali più innovativi (per esempio nel campo del diritto del lavoro o dell’ambiente) o semplicemente sulle indagini scomode nei confronti degli esponenti del potere economico e politico» [3].
Ma la questione era più ampia: riguardava il ruolo del corpo giudiziario nella società. Stava cambiando la composizione sociale della magistratura. Cito ancora Antonella Meniconi: «Il clima cambiò molto come effetto anche della nascita di Magistratura democratica. Certo è che da allora il confronto-scontro tra le correnti dell’Anm si ispirò a livelli ideali prima sconosciuti. Le correnti diventavano il terreno fertile per l’elaborazione culturale di nuovi modelli di magistratura e di giurisdizione. L’orizzonte ideale entro il quale si muoveva Md delle origini era, infatti, il tema della giurisdizione… Allora, l’obiettivo che si ponevano quei giovani magistrati era chiaro: quello di inverare la Costituzione…» [4].
Ricordo l'eco delle polemiche suscitate dal conflitto ideale che aveva percorso e diviso il Congresso nazionale dei magistrati svoltosi a Gardone nel novembre del 1965: da un lato i sostenitori della tesi secondo la quale i giudici debbono essere interpreti e garanti dell'indirizzo politico fondamentale incorporato nella Costituzione (costituito da un insieme di valori elevato a finalità di tutto l'ordinamento e da un correlativo sistema di garanzie essenziali, che non può essere modificato dalle contingenti maggioranze di governo) e, dall'altro, i sostenitori della tradizionale visione del giudice come mero applicatore delle leggi esistenti (non importa se ispirate a sistemi di valori precostituzionali, come gran parte delle leggi e dei codici allora vigenti), di cui sarebbe vietata ogni interpretazione “evolutiva”, di adeguamento ai valori costituzionali, pena lo sconfinamento nell'ambito riservato al potere politico.
La maggiore indipendenza formale dei magistrati conquistata con le prime riforme dell’ordinamento giudiziario diede ben presto i suoi frutti anche perché in quegli stessi anni si apriva nel Paese una straordinaria stagione di riforme: nel solo anno 1970 vengono approvate le leggi sul divorzio, sul referendum, sullo Statuto dei lavoratori, sull’attuazione dell’ordinamento regionale, sui termini massimi di carcerazione preventiva. Seguono le leggi sul nuovo processo del lavoro, sull’interruzione volontaria della gravidanza, sul nuovo diritto di famiglia: una stagione riformatrice che introduce nuovi diritti e nuovi valori nell’intero ordinamento. Nello stesso periodo una società civile straordinariamente vivace e attenta alle vicende politiche e istituzionali segue con interesse il funzionamento degli apparati pubblici e in particolare della giustizia.
Ben presto tuttavia il quadro politico cambiò radicalmente. Cito ancora la professoressa Meniconi: «Il clima e le speranze suscitate dal movimento del ’68, e più in generale dal trascorso decennio riformista, furono spesso vanificati dall’irrigidimento repressivo, che costituì la risposta alla strage di piazza Fontana… Anche all’interno della magistratura il conflitto si fece in quegli anni durissimo: si registrò infatti una vera e propria ‘epurazione’ di magistrati democratici ‘estromessi collettivamente’ dalle funzioni penali e specialmente da quelle di giudici del lavoro, un campo nel quale l’applicazione dello Statuto dei lavoratori dava luogo a tensioni con il padronato dall’immediata eco politica» [5]. Ma il Csm non diede quasi mai seguito alle scelte discriminatorie dei capi degli uffici. Ricordo di aver contribuito a difendere, nel 1972, davanti alla sezione disciplinare, cinquantotto magistrati che avevano sottoscritto un documento di protesta contro il presidente della Corte d’appello di Roma, perché era intervenuto ingiustamente nei confronti del pretore Gianfranco Amendola, pretendendo di interferire nelle sue decisioni. Fu l’unico caso che io ricordi in cui mi fu rivolto un gesto di palese maschilismo: ero incaricata di esporre l’arringa difensiva concordata con gli altri difensori e, quando mi accinsi a prendere la parola, il presidente della sezione, vicepresidente del Consiglio, Giacinto Bosco, personaggio di spicco della Democrazia cristiana, mi interruppe per chiedermi «signora o signorina?», io risposi che il mio stato civile non riguardava la sezione disciplinare più di quello del suo presidente, e pronunciai la mia difesa. Devo dire che affrontavamo quei processi con spirito molto combattivo, certi delle nostre buone ragioni. Ancora, nel 1976, ho difeso con successo tre pretori del lavoro di Milano sottoposti a processo disciplinare per il contenuto delle loro decisioni: in particolare per aver adottato nelle loro sentenze, emesse in applicazione dello Statuto dei lavoratori considerazioni, cito testualmente, «improntate ad ideologie riformiste»!
L’affermazione dell’indipendenza dei magistrati è l’effetto di un processo lento e contrastato. All’interno della stessa magistratura lo scontro riguarda anche la sorte delle inchieste più delicate, a partire da quella sulla strage di Piazza Fontana − che aveva segnato il culmine della strategia della tensione − sottratta a Milano per “legittima suspicione”, transitata per Roma e infine assegnata a Catanzaro; così come vengono sottratte a Torino e a Padova inchieste sulle trame nere che finiscono in nulla a Roma, chiamata allora “il porto delle nebbie”.
Altre gravi vicende creano analoghi contrasti all’interno della magistratura e soprattutto con esponenti politici.
Ha scritto Alessandro Pizzorusso: «Uno dei primi successi conseguiti dai pochi magistrati che già qualche decennio fa avevano cominciato a formarsi alla cultura dell’indipendenza fu rappresentato dalla scoperta, compiuta nel 1974 da tre pretori genovesi, degli accordi intervenuti fra gli industriali del petrolio e i partiti di governo per l’approvazione di alcune leggi che avevano assicurato ai primi considerevoli entrate, una parte delle quali era stata poi riversata ai secondi. La vicenda determinò una serie di reazioni da parte di uomini politici, la più vistosa delle quali fu l’elaborazione di un progetto di legge costituzionale per invertire il rapporto fra politici e magistrati nel Consiglio superiore… Il progetto di legge costituzionale non ebbe seguito, ma i responsabili furono ben presto amnistiati…» [6].
La bancarotta della Banca privata italiana di Michele Sindona vede il liquidatore, l’avvocato Giorgio Ambrosoli, opporsi ai tentativi di salvataggio del bancarottiere a spese della collettività: l’11 luglio 1979 Ambrosoli viene assassinato a Milano per mandato di Sindona. L’11 marzo 1981 i giudici istruttori di Milano che indagano su Sindona scoprono durante una perquisizione gli elenchi degli affiliati alla Loggia massonica “coperta” P2, con le quote versate, le matrici delle ricevute ecc. Fra gli affiliati appaiono tre ministri della Repubblica, il capo di stato maggiore della difesa, il capo dei servizi segreti, ventiquattro fra generali e ammiragli delle tre armi, il comandante e quattro generali della Guardia di finanza, due generali della Polizia, alti funzionari dei ministeri, il segretario del Psdi, parlamentari di vari partiti (esclusi comunisti e radicali), il direttore del Corriere della sera, il direttore del TG1, professori, dirigenti e banchieri e diciotto magistrati. Questi ultimi alla fine risultarono gli unici sottoposti a severe sanzioni disciplinari, fino all’espulsione. Seguì, dopo qualche tentativo di mettere le cose a tacere, un terremoto negli ambienti politici, la caduta del Governo in carica, l’istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta, mentre andava maturando una forte reazione contro quei settori della magistratura capaci di esercitare coerentemente le loro funzioni anche in presenza di sistemi di potere che tentavano di intimidirli o coinvolgerli. L’arresto del banchiere Calvi e di altri esponenti dell’economia e della finanza acuì le tensioni: accusati di “fare politica” e di “sfasciare l’economia” sono ora i pubblici ministeri e i giudici istruttori. Ancora una volta le inchieste della P2, come quella di poco successiva, sui fondi neri dell’Iri, nate a Milano, vengono trasferite a Roma, dove si dissolvono.
Ma il “porto delle nebbie” non sopravvivrà a lungo: sotto la presidenza di Sandro Pertini (1978-1985) il Csm diventa sempre più organo di tutela dell’indipendenza della magistratura e riuscirà a disinquinare i più importanti uffici giudiziari dalle influenze di gruppi di potere più o meno occulti.
Nel frattempo altre, e ben altrimenti drammatiche vicende influivano sul ruolo della magistratura nel Paese. Dal 1976 il terrorismo rosso aveva fatto vittime illustri, soprattutto fra esponenti delle istituzioni, fino a giungere al sequestro e all’assassinio di Aldo Moro. La risposta delle istituzioni, dapprima debole e confusa fino all’ambiguità, venne quindi interamente delegata alla magistratura ordinaria: saggiamente si evita l’istituzione di speciali strutture giudiziarie “antiterrorismo”, anche se non può essere evitata una legislazione di emergenza che prima inasprisce le pene e la custodia cautelare e poi introduce la discussa legislazione sui pentiti. La magistratura ordinaria, inizialmente impreparata ad affrontare un compito così nuovo e rilevante, si attrezza progressivamente. Crescono i mezzi a disposizione delle procure, aumenta la collaborazione della polizia giudiziaria, si affinano le professionalità degli inquirenti, si istituiscono forme di coordinamento fra gli uffici che si occupano di indagini antiterrorismo. I magistrati – individuati dai terroristi come i “nemici” più pericolosi – pagano un prezzo elevatissimo in termini di vite umane, (e qui a Milano ne sappiamo qualcosa!) ma, anche per questo, acquistano credito e legittimazione popolare.
Nei primi anni Ottanta, quando il terrorismo rosso ormai è sconfitto, il ruolo della magistratura è mutato agli occhi dei cittadini e ora viene ampiamente riconosciuto; cresce notevolmente la sua capacità di indagine, anche perché, di fronte all’emergenza, cadono in parte anche i vecchi vincoli gerarchici all’interno degli uffici per far posto a chi ha capacità e coraggio.
Questa accresciuta capacità di intervento si rivela successivamente preziosa nel contrastare la mafia, la criminalità organizzata, la corruzione.
Ma ancora una volta occorre misurarsi con gravi problemi. La vasta indagine della magistratura napoletana sulla camorra coinvolge il popolare presentatore televisivo Enzo Tortora, condannato in primo grado e poi definitivamente assolto. Il caso Tortora provoca lacerazioni e riflessioni autocritiche all’interno della magistratura e offrirà l’occasione per i referendum sulla giustizia, caricati di un significato di plebiscito contro la magistratura. L’amplissima vittoria del “sì” all’abrogazione delle norme di tutela dei giudici nei confronti dell’azione di responsabilità civile dimostra anche una vasta insofferenza nei confronti delle disfunzioni dell’amministrazione giudiziaria. Vengono introdotte nuove norme che attribuiscono al ministro della giustizia nuovi poteri di ispezione negli uffici giudiziari che negli anni Novanta, nel periodo di “Tangentopoli” saranno clamorosamente utilizzati nei confronti della Procura di Milano.
Riprende il cammino anche la riforma penitenziaria, che umanizza il trattamento dei detenuti, attribuendo però nuovi compiti ai magistrati senza che, come al solito, si predispongano provvedimenti per adeguare i mezzi ai fini. Soprattutto, riprende l’iniziativa di riforma del codice di procedura penale, che modifica il sistema processuale e l’ideologia che vi era sottesa. Al processo penale inquisitorio, rimasto in vigore fino al 1989, viene sostituito un modello di tipo accusatorio, senza tuttavia adottare per intero il sistema in vigore nel mondo anglosassone. L’impatto sull’organizzazione giudiziaria, lasciata del tutto impreparata, è traumatico. La tradizionale inadempienza del ministero della giustizia rispetto al suo compito costituzionale di “organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia” (art. 110 Cost.), crea ulteriore tensione tra esecutivo e magistratura.
L’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga apre un conflitto senza precedenti con il Csm, pretendendo di avere il monopolio dell’ordine del giorno del Csm, in realtà non volendo che esso discuta dei rapporti fra capi e sostituti nelle procure. Io allora facevo parte del Csm e, non avendo altri mezzi per contrastare una pretesa che consideravo illegittima, mi dimisi per protesta dal Csm. Rinnovato il Csm, Cossiga arrivò al punto di inviare un ufficiale dei carabinieri alla seduta nella quale si sarebbe dovuto discutere di questioni analoghe, sempre riguardanti i rapporti di potere all’interno delle procure. Contro questa iniziativa l’Associazione nazionale magistrati indisse immediatamente, il 3 dicembre 1991, uno sciopero che ottenne una partecipazione altissima.
Nel frattempo, le indagini sulla mafia avevano visto la magistratura (ancora una volta) inizialmente impotente di fronte all’omertà generalizzata, poi sostanzialmente isolata nella repressione del fenomeno criminale, allorché le sue aumentate capacità di indagine avevano ottenuto i primi successi e, insieme, provocato numerose vittime fra i suoi esponenti più coraggiosi. Ma, soprattutto per merito delle grandi capacità di singoli magistrati siciliani e della legislazione sui pentiti, pur fra drammatici contrasti si ottengono risultati rilevanti: cade l’impunità dei boss mafiosi, simbolo del loro potere incontrastato.
Reagisce anche gran parte del mondo politico e si manifesta una forte mobilitazione popolare. Le stragi del 1992 creano una reazione che attenua il rigore garantista del nuovo codice e sollecita un nuovo impegno della magistratura. Non è più tollerata una gestione inefficace degli uffici inquirenti. La repressione dei crimini mafiosi diventa fatto quotidiano in gran parte degli uffici giudiziari competenti.
Nel frattempo il mondo politico ed economico in Italia e in Europa conosce grandi mutamenti. La corruzione politico-amministrativa, che si fondava anche sull’espansione del debito pubblico e su un sistema clientelare diffuso non regge più. L’arresto per corruzione di Mario Chiesa nel febbraio 1992 a Milano dà la stura alle denunce dei cittadini che vedono nei magistrati della Procura di Milano gli unici soggetti capaci di contrastare una corruzione imponente e diffusa, che pesa come un macigno sull’economia del Paese. La debolezza della risposta politica ai fenomeni di corruzione, che non trovano risposta né in leggi né in provvedimenti amministrativi adeguati, esalta impropriamente il ruolo della magistratura, che non può certamente risolvere il problema di una corruzione ampiamente radicata con meri interventi di repressione giudiziaria. Sicché all’esaltazione seguirà la delusione.
Il sistema politico risulta tuttavia sconvolto dall’azione penale nel campo della corruzione: scompaiono antichi partiti e ne sorgono di nuovi.
L’incriminazione del leader del nuovo partito di Forza Italia, divenuto nel 1994 Presidente del Consiglio, porta al culmine la tensione fra potere politico e magistratura. Ero allora presidente dell’Anm e ritengo di averla rappresentata in modo rispettoso dei poteri dello Stato − in primo luogo del Parlamento − e dei diversi ruoli istituzionali, senza venir meno al dovere di argomentare critiche ogni volta che provvedimenti legislativi o governativi minacciassero l’indipendenza e l’efficacia della giurisdizione. Ero di nuovo presidente dell’Anm, allorché, nel 1997, fu varata, dalla Commissione bicamerale voluta dal Governo D’Alema, una proposta di riforma costituzionale che apriva alla separazione delle carriere: anche in questo caso l’azione istituzionale e culturale dell’Anm evitò un rischio per l’indipendenza della funzione giudiziaria. In entrambi i casi fu rilevante il ruolo del Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro nell’assicurare l’equilibrio fra i poteri dello Stato.
Cito per l’ultima volta la professoressa Meniconi, secondo la quale il «nuovo modello di giudice, più calato nella realtà sociale e politica, è stato poi quello che ha fronteggiato le tre grandi emergenze degli anni ’80 e ’90 (il terrorismo, le mafie, la corruzione) svolgendo un ruolo decisivo, ma anche esercitando talvolta una (obbligata) supplenza rispetto ad altre istituzioni. Ed è precisamente da questo nuovo contesto (e da quel nuovo protagonismo) che sarebbe nato il conflitto con la politica, dato caratteristico, quest’ultimo, di una contrastata stagione ancora oggi non risolta» [7].
Non sono qui in grado di ricordare l’evoluzione delle vicende interne dell’Anm, tanto meno di quelle recenti. Posso solo notare come, se pure sono state inevitabilmente influenzate dall’evoluzione politica e culturale del Paese, sono anche state in grado talvolta di contribuire alla crescita della cultura istituzionale della magistratura e non solo di questa, specialmente quando vi è stato un proficuo rapporto con l’intero mondo dei giuristi.
Penso che il vostro lavoro, oggi, sia più complesso di quello dei miei tempi, perché è diventato più complesso il mondo e il diritto, aperto a una dimensione sovranazionale molto significativa, e più complessa è diventata anche la criminalità. Purtroppo, al contrario, sembra che la cultura politica oggi non sia minimamente in grado di affrontare questa nuova dimensione dei problemi e questa nuova complessità. Ne vengono scontri personali, aggravati da una stampa che ama acuirli, ne vengono messaggi semplificatori, banalizzanti, ingannevoli, che non fanno crescere nei cittadini quella consapevolezza della reale dimensione dei problemi, delle sfide da affrontare e delle soluzioni possibili, che è necessaria per una effettiva partecipazione democratica.
Spero che tutto ciò non influenzi anche il dibattito interno alla magistratura e alla sua associazione, anche se non è facile, visto che i magistrati non vengono da Marte ma dal nostro stesso Paese.
Mutuando per concludere le parole che Luigi Ferrajoli ha indirizzato a Magistratura democratica, ma che credo valgano per l’intera Associazione, il ruolo principale di questa è «dare un senso alto, attraverso il confronto e la riflessione collettiva» al lavoro dei magistrati. «Naturalmente nel dibattito interno si manifestano (…) divisioni e divergenze. (…) Ma ciò che ha determinato l’unità del gruppo non sono state l’omogeneità delle opinioni o una qualche identità delle opzioni politiche e culturali. Ciò che ha determinato e (…) determina l’unità è il dibattito medesimo, cioè il fatto di essere accomunati dal bisogno (…) di una riflessione comune (…). L’unità e l’identità (…) non sono date dalle risposte, ma dalle domande che tutti si pongono e avvertono il bisogno di porsi nel confronto con gli altri. Non sono (…) basate su una comune ideologia o su opinioni etico-politiche da tutti condivise, ma sempre e solo nella comune disponibilità e volontà di confrontarsi sul senso della giurisdizione, sul suo rapporto con la società, sulle sue fonti di legittimazione e sulla sua collocazione entro l’assetto costituzionale dei pubblici poteri» [8].
Personalmente, sono d’accordo.
*[Elena Ornella Paciotti, nata a Roma il 9 gennaio 1941, nel 1963 si è laureata in giurisprudenza presso l'Università degli studi di Milano con il massimo dei voti. Dal 1960 al 1967 ha lavorato nel servizio legale di una grande impresa. Nel 1967 è entrata in magistratura, ove da poco erano state ammesse le donne. Ha svolto gran parte della sua attività presso il Tribunale di Milano come giudice civile (nelle materie del diritto del lavoro, del diritto fallimentare e del diritto delle successioni e delle obbligazioni) e come giudice penale (componente e poi presidente di collegi penali e giudice istruttore penale nei processi di terrorismo). Ha svolto poi le funzioni di sostituto procuratore generale presso la Corte d'appello di Milano e in seguito, fino al 1999, presso la Corte di cassazione. Si è dimessa dalla magistratura quando è stata eletta al Parlamento europeo. Dal 1986 al 1990 è stata componente del Consiglio superiore della magistratura (prima donna magistrato a ricoprire questo incarico). Si è occupata di politica della giustizia nell'ambito dell'Associazione nazionale magistrati, di cui è stata Segretaria generale e Vicepresidente nel 1982-1983 e poi per due volte Presidente, nel 1994-95 e nel 1997-98 (l'unica donna ad aver ricoperto questa carica). Dal 1992 al 1996 è stata componente del Comitato per le pari opportunità presso il Consiglio superiore della magistratura. È stata deputata al Parlamento europeo nella legislatura 1999-2004. Nell'ambito del mandato parlamentare, è stata membro titolare della Commissione per le Libertà pubbliche e i Diritti dei cittadini, la Giustizia e gli Affari interni, della Commissione per i Diritti delle donne e le Pari opportunità e membro supplente della Commissione giuridica. Come rappresentante del Parlamento europeo ha fatto parte sia della I Convenzione che ha redatto la Carta dei Diritti fondamentali dell'Unione europea (novembre 1999-settembre 2000) sia della II Convenzione sul Futuro dell'Europa, che ha redatto il progetto di Trattato costituzionale dell'Unione europea (febbraio 2002-luglio 2003). Dal 2007 al 2010 è stata membro del Consiglio di amministrazione e dell'Ufficio di Presidenza dell'Agenzia dell'Unione europea per i diritti fondamentali (Vienna). Dal gennaio 1999 al gennaio 2018 è stata Presidente della Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco (www.fondazionebasso.it). Dal 2006 è responsabile dell'Osservatorio sul rispetto dei diritti fondamentali in Europa promosso dalla Fondazione Basso (www.europeanrights.eu). È autrice di numerosi articoli e interventi in materia di ordinamento giudiziario, di politica della giustizia, di istituzioni europee (N.d.R.)].
[1] A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, Il Mulino, Bologna, 2012.
[2] Cfr. A. Meniconi, La storia dell’associazionismo giudiziario: alcune notazioni, in Questione giustizia trimestrale, 4/2015, http://questionegiustizia.it/rivista/2015/4/la-storia-dell-associazionismo-giudiziario_alcune-notazioni_303.php.
[3] Op. ult. cit.
[4] Ibidem
[5] A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, cit., p. 329.
[6] A. Pizzorusso, La Costituzione ferita, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 150.
[7] A. Meniconi, La storia dell’associazionismo..., cit.
[8] L. Ferrajoli, Associazionismo dei magistrati e democratizzazione dell’ordine giudiziario, in Questione giustizia trimestrale, 4/2015, http://www.questionegiustizia.it/rivista/2015/4/associazionismo-dei-magistrati-e-democratizzazione-dell-ordine-giudiziario_296.php.