1. Sorteggio, un rimedio peggiore del male
Viviamo i giorni forse più difficili della pur mai “tranquilla” storia del Consiglio superiore della magistratura.
Non era mai accaduto in sessant’anni che, sull’onda dell’emersione pubblica degli esiti di indagini penali, il Cdc unanime dell’Anm e decine di affollate assemblee di magistrati, a volte addirittura autoconvocate, chiedessero, ed ottenessero, di fatto “sfiduciandoli”, le dimissioni di diversi consiglieri del Csm, per condotte – fatte oggetto di immediata urgente iniziativa disciplinare da parte del Procuratore generale presso la Cassazione – certamente idonee, al di là della loro rilevanza penale o deontologica, a ledere gravemente la credibilità dell’organo di governo autonomo e a gettare generale discredito su tutto l’associazionismo.
Inevitabile, in una situazione del genere, che nella crisi di legittimazione del Consiglio e dei consiglieri, si riprendesse a discutere di come li si elegge. E quindi della legge elettorale, da sempre terreno privilegiato di manovra per chi vuole ridimensionare il ruolo del Csm. E quindi del sorteggio, del resto ripreso, come proposta, già nei mesi scorsi, dal Ministro di giustizia.
Meno scontato era che a mostrarsi pubblicamente sedotti dall’idea del sorteggio, addirittura degli eletti, e neanche più solo dei candidati, potessero presentarsi, e su La Repubblica, un autorevole costituzionalista come Michele Ainis ed un grande editorialista come Massimo Giannini, e ancora, su Micromega, un politologo laico, libertario, e certamente parte della cultura della sinistra italiana, come Paolo Flores d’Arcais.
Arrivato il sorteggio a lambire simili templi e simili personalità della cultura democratica e repubblicana, l’allarme, per chi continua a credere nel modello costituzionale di giurisdizione, non può che essere massimo.
In un clima politico che vede una grande accelerazione del tentativo di accantonare e superare non solo le istituzioni ma l’intera cultura politica dello Stato costituzionale di diritto, ritenuto un residuo ed un orpello novecentesco da buttare perché di ostacolo alle magnifiche sorti e progressive della democrazia diretta, l’idea del sorteggio – proposta non a caso per la prima volta dal repubblichino Giorgio Almirante nel 1971– ha infatti da sempre avuto una indiscutibile venatura qualunquista ed è da sempre figlia della cultura della pretesa “apoliticità” di tutto ciò che tocca o riguarda la giurisdizione. Sempre e uno solo il dichiarato obiettivo politico diretto dei suoi sostenitori, costi quel che costi in termini di “effetti collaterali”: cancellare quella che viene chiamata la “politicizzazione del Csm” (espressione di sintesi per indicare gli assunti collateralismi diretti che vi sarebbero tra correnti in magistratura e partiti e fazioni parlamentari), operare tale cancellazione tramite la distruzione delle “correnti” dell’associazionismo giudiziario viste come sentina di ogni male e principio ed origine di ogni problema della Giustizia. Un’idea, coerente con la da anni diffusa avversione culturale per i corpi intermedi, sindacati come partiti, per cui si vuole il sorteggio per abolire la mediazione e la rappresentanza dei gruppi nel rapporto del singolo magistrato con l’istituzione Consiglio. Un’idea, altresì coerente con l’altrettanto diffusa avversione verso le “élites”, verso le competenze in quanto tali viste come “madri” delle caste, verso i politici di professione, ovunque si annidino. Con sottesa la tesi di fondo, sempre ribadita a sostegno del sorteggio, tanto vicina all’”uno vale uno” di certa retorica politica di questi anni, e ahimè ripresa con sciatteria ed approssimazione anche dagli autorevoli commentatori appena citati, per cui poiché al Consiglio non si dovrebbe fare altro che applicare norme di immediata interpretazione, alta amministrazione e non governo autonomo, «ogni magistrato, professionista che dà ergastoli e sequestra per milioni di euro» sarebbe perfettamente in grado se sorteggiato di fare il consigliere superiore da un giorno all’altro.
Insomma, l’idea del sorteggio ha anche in poppa il vento del pensiero politico e delle narrazioni dominanti, e talmente dominanti da toccare come si è detto sponde sinora mai attinte come La Repubblica, Micromega, la cultura dei costituzionalisti.
In più, siamo ad inizio legislatura, in un quadro in cui per una riforma anche costituzionale ci sono anche i tempi tecnici, ed in cui il fronte trasversale agli schieramenti parlamentari che ha già incardinato in Parlamento una riforma della magistratura e del Consiglio si trova servito su un piatto d’argento la “ghiotta” occasione offerta dalla gravissima crisi di credibilità del governo autonomo della magistratura, per i fatti di cronaca nera istituzionale di queste settimane.
Una simile situazione richiede da parte della magistratura associata (e, si direbbe: da parte della migliore cultura giuridica), una risposta forte, decisa, e quindi necessariamente il più possibile unitaria.
La difesa degli assetti costituzionali della giurisdizione deve essere, come si dice in questi casi, “senza se e senza ma”. Sono il bambino da non gettare con l’acqua sporca.
Con l’opinione pubblica, e con tutte le forze politiche, si tratta, come sempre, e come sempre ha saputo fare la nostra Associazione anche nei momenti più difficili, di mettere in campo argomenti razionali e leggibili, di evidenziare vantaggi e danni delle diverse soluzioni, mai da un punto di vista corporativo ma sempre dal punto di vista dell’interesse del cittadino ad una giustizia autonoma ed indipendente.
C’è ancora spazio per farlo? I magistrati sono degli inguaribili ottimisti, e pensiamo di sì.
Si tratta di dire dei “no”, ma anche, questa volta, necessariamente, e soprattutto, di avere capacità di proposta, il presente – e non ci si riferisce al solo sistema elettorale – essendo stavolta assolutamente non difendibile.
Il primo punto di un discorso minimamente razionale non può che essere il no deciso al sorteggio. Dei candidati, ed a maggior ragione degli eletti.
Il sorteggio – va ribadito forte e chiaro, anche da una posizione di difficoltà come l’attuale – è e resta una riforma incostituzionale, irrazionale, dannosa, una proposta in grado di distruggere il ruolo rappresentativo ed istituzionale del Csm. Una pubblica umiliazione/delegittimazione per la magistratura e i singoli magistrati.
L’affermazione può suonare fuori contesto, anacronistica, può perfino far sorridere amaramente, in giorni come questi in cui la credibilità del Consiglio, e la legittimazione dei magistrati, sono ferite da ben altro che non il sorteggio. Ma resta vera: il sorteggio sarebbe propinare veleno ad un corpo già gravemente malato.
Gli argomenti che militano contro il sorteggio anche solo dei candidati al Csm sono noti.
Come per tutti i temi di ordinamento giudiziario, si dispone di una letteratura ampia e di altissimo livello. Non si può dire nulla di nuovo. E anche chi scrive li ha ripetuti una infinità di volte.
La drammatica contingenza non li rende meno veri:
1) il sorteggio anche solo dei candidati (e a fortiori dei componenti al Csm) è innanzitutto radicalmente incostituzionale: e non solo e non tanto per il dato letterale per cui l’art. 104 Cost. parla di membri «elettivi» e di «componenti» «eletti da tutti i magistrati ordinari» (non tra pre-sorteggiati o in altro modo pre-selezionati, ma) «tra gli appartenenti alle varie categorie» e quindi senza eccezioni o limitazioni al diritto di elettorato passivo (che non potrà mai avere un equipollente nel diritto ad essere sorteggiati), ma perché la Costituzione, istituendo a baluardo dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura un consesso presieduto dal Presidente della Repubblica e raccordato agli altri organi costituzionali e al circuito del consenso politico mediante la previsione di componenti eletti dal Parlamento, ne fa intrinsecamente e pacificamente non un Consiglio di amministrazione burocratica del personale (del genere presente in ogni ministero) ma appunto un organo di rilievo costituzionale di governo autonomo della magistratura nelle materie assegnategli, altrettanto intrinsecamente fondato sulla rappresentatività politico-istituzionale dei suoi componenti tutti, derivante dalla elettività della nomina, che non potrà mai essere lesa dall’introduzione, anche solo nella procedura di selezione dei candidati, da un fattore del tutto aleatorio;
2) il Csm, con le attuali attribuzioni, non è e non potrà mai essere il “Consiglio di amministrazione del personale di magistratura”: è titolare di funzioni normative secondarie, e non vi è soluzione a questioni inerenti «le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati» (art. 105 Cost.) che non sottenda scelte tra opzioni politico-culturali diverse ed a volte opposte: al singolo magistrato deve essere dato, e viene dato dalla Costituzione, di partecipare e di scegliere chi “rappresenta” meglio le sue idee e posizioni; ed è stato quindi fisiologico che, parafrasando l’art. 49 Cost., il magistrato abbia avuto ed abbia diritto di associarsi in Anm ed in “correnti” per concorrere a determinare la politica dell’autogoverno, sì che la proposta del sorteggio è in sé un insulto ai magistrati e alla loro capacità di autodeterminarsi e di scegliersi i propri rappresentanti, ed è culturalmente regressiva, rinnegando decenni di pluralismo associativo e non riconoscendo l’importanza che tale pluralismo ha avuto per la crescita complessiva della magistratura e per la qualità della giurisdizione;
3) una legge che prevedesse di sorteggiare anche solo i candidati al Csm danneggerebbe dunque e non di poco la rappresentatività del Consiglio, che vedrebbe fatalmente ridotto il suo peso ed il suo protagonismo istituzionale, finendo secondo ragionevole previsione per essere di fatto egemonizzato dai componenti eletti dal Parlamento, che invece manterrebbero piena la loro rappresentatività;
4) che l’autogoverno non funzioni come dovrebbe, che le correnti spesso facciano altro che non elaborazione politico-culturale è un fatto, come è un fatto che nella più ampia politica sono in crisi Parlamento e organi rappresentativi locali, e partiti, senza che ciò possa essere una buona ragione per vietare i partiti e abolire il Parlamento (o prevederne l’elezione tra candidati sorteggiati); le istituzioni democratiche vanno migliorate, non distrutte; tutti siamo chiamati a migliorare il governo autonomo, e criticarne le degenerazioni è legittimo e sacrosanto, ma deve essere chiaro che distrutto l’autogoverno, c’è l’eterogoverno, e che grande è la responsabilità storica di chi, con il sorteggio, anche tra i magistrati, sta da anni giocando con il fuoco;
5) una legge che prevedesse di sorteggiare anche solo i candidati al Csm sarebbe una pubblica umiliazione per la magistratura, il messaggio all’opinione pubblica sarebbe “non siete in grado di selezionare liberamente e democraticamente i vostri candidati, siete incapaci di gestire la vostra democrazia interna, vi mettiamo sotto tutela, ve li sorteggiamo”: i magistrati ne perderebbero tutti di pubblica legittimazione anche sul lavoro, e che siano anche dei magistrati a proporre una simile pubblica mortificazione della categoria e la sostituzione del diritto di scegliere e di proporsi con quello di essere il numeretto di una riffa in cui si perde comunque appare francamente incredibile;
6) sostenere che qualunque magistrato potrebbe essere da un giorno all’altro un buon consigliere Csm “visto che nel quotidiano distribuisce ergastoli e sequestra milioni e si tratta solo di applicare leggi e circolari” è argomento tanto semplicistico e davvero ideologico quanto coerente allo spirito dei tempi, ricordando il mito leninista della cuoca che bene potrebbe dirigere lo Stato o la scelta di ministri e parlamentari con un sondaggio sul web, perché tanto tutti possono fare tutto: tutti noi sappiamo bene invece di non essere capaci di fare tutto, e che i consiglieri Csm a legislazione invariata hanno plurime e complesse funzioni: chiamati ad applicare norme (spesso di non facile applicazione), sono chiamati anche a crearle, con circolari che spesso sono il cuore delle discipline di ordinamento giudiziario, sono chiamati a prevedere progetti per l’organizzazione degli Uffici, direttive per la Scuola ed in generale per la formazione dei magistrati, prospettive di riforma, a dare pareri su disegni di legge, a disegnare i termini della professionalità (del “buon giudice”, del “buon dirigente”), sono chiamati a prevedere i confini di istituti quali l’art. 2 Legge Guarentigie, a trattare le pratiche a tutela contribuendo a costruire regole deontologiche, sono chiamati a rappresentare il Consiglio nei rapporti con altre istituzioni italiane e dell’Unione Europea, sono chiamati a gestire la comunicazione interna ed esterna del Consiglio. Come per ogni professionalità, accanto ad uno specifico “sapere” e ad uno specifico “saper fare” serve uno specifico complesso “saper essere”, che certo non tutti i consiglieri dimostrano da sempre di avere, anche se eletti, come i fatti di queste settimane dimostrano. Seppure l’affermazione in questi giorni si presti a semplificanti battute, serve una formazione specifica. E così, è lo studio teorico dell’ordinamento giudiziario e la pratica e soprattutto l’esperienza che si può fare per anni nei gruppi, in Anm, negli Uffici, nei Consigli giudiziari, nella Scuola, nel “lavoro sociale” in magistratura, in un confronto pluralistico con chi non la pensa come te (aperto ad università e avvocatura), insieme all’attitudine tutta politica a controdedurre, a mediare e poi a scegliere, che possono “costruire” un buon consigliere parte di un Consiglio forte, non la sorte che costringe a scegliere tra il pm di Roccapietrina e il giudice di Topolinia, selezionati dal caso, magari ottimi magistrati ma persone che per ventura possono essersi costruiti negli anni un profilo non minore, ma semplicemente diverso, più idoneo ad altri incarichi;
7) la perdita di rappresentatività della magistratura discenderebbe per il Consiglio anche dal fatto che ove pure il sorteggio dei candidati riuscisse davvero a spezzare ogni rapporto tra consigliere e corrente, all’interno del Csm si formerebbero maggioranze casuali e in ogni caso, appunto, non rappresentative di quelli che, in un dato momento, sono gli orientamenti presenti tra i magistrati, con la sicura prospettiva di un organismo balcanizzato, pressoché impossibilitato a costruire maggioranze sulle grandi scelte, a esprimere linee progettuali;
8) il consigliere superiore, ove davvero eletto prima perché selezionato dal sorteggio e poi perché votato al di fuori di ogni indicazione di corrente sarebbe una monade svincolata da ogni responsabilità politica e di gruppo, senza retroterra e senza punti di riferimento pubblici e potrebbe rapidamente, e stavolta non più patologicamente ma fisiologicamente, diventare il terminale di una lobby personale, di una rete di relazioni che non facendo capo, in chiaro, ad un riconoscibile e visibile gruppo associativo bensì alla sua persona e/o ai suoi amici e/o al suo territorio e/o a notabilati locali e/o a gruppi di pressione di categoria (dei pm, dei gip, etc. etc.), sarebbe molto più opaca, molto meno leggibile nelle scelte operate nel quotidiano della vita consiliare dell’attuale consigliere “di corrente”: l’affermazione, da parte dei fautori della riforma, per cui con il sorteggio, spezzato il circuito del consenso ed il legame tra eletti a mezzo delle correnti ed elettori, sparirebbero magicamente e in automatico pratiche clientelari, spartizioni lottizzatorie di incarichi e disfunzioni varie derivanti dall’attuale aborrito legame di rappresentanza politica (in senso lato) è tesi del tutto apodittica, ingenua nella fiducia riposta nelle riforme elettorali, e che non tiene minimamente conto del dato di esperienza che evidenzia a chiunque frequenti le nostre stanze come dietro quelle disfunzioni (se non altro perché presenti da sempre con ogni più diversa legge elettorale) non vi sia, quale causa prima, il sistema di voto bensì l’ambizione dei singoli e il conseguente carrierismo che ci corrode come categoria, con cadute di deontologia e di professionalità anche dei consiglieri superiori, nell’oblio del principio per cui i magistrati si distinguono tra loro solo per le funzioni.
Il sorteggio non può essere la soluzione.
Non può essere la proposta di chi pur dichiara, anche in buona fede, di voler difendere l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione.
Può essere dunque un obiettivo solo per chi, consapevolmente, vuole distruggere il governo autonomo per preparare l’eterogoverno, per renderne evidente la necessità di fronte ad un Csm di battitori liberi politicamente irresponsabili, fatto di schegge in ipotesi impazzite, o anche solo inadeguate a sostenere il ruolo, in ogni caso incapaci di porre in essere, sulle grandi questioni, una linea minimamente coerente e leggibile in termini di valori.
Insomma, un disastro peggiore del male che vuole curare.
Ma la peculiarità dell’introduzione del sorteggio dei candidati è che trattasi di riforma tanto comunque dannosa per la giurisdizione ed il suo governo autonomo, quanto sostanzialmente inutile all’obiettivo perseguito di distruggere il potere delle correnti (a volte più presunto che reale, se è vero che i fatti di questo giugno 2019 più che il potere delle correnti mostrano dove può arrivare il lobbysmo personale di singoli magistrati e di singoli politici).
Poiché una legge elettorale fondata sul sorteggio non potrebbe che prevedere la necessità di una dichiarazione di disponibilità del singolo ad essere sorteggiato come candidato o a fortiori come eletto (a meno di una riforma dell’inamovibilità che preveda il dovere d’ufficio del magistrato, se sorteggiato, di trasferirsi forzosamente a Roma al Csm), è prevedibile che le correnti chiederebbero ai loro aderenti (ed otterrebbero) la prova d’amore di massicce dichiarazioni di disponibilità, con l’effetto che vi sarebbero decine se non centinaia di disponibili, che su cento disponibili la maggior parte avrebbe una provenienza dai gruppi, e che per la legge dei grandi numeri tra i sorteggiati vi sarebbero comunque rappresentanti di tutte le correnti. Ancora, le correnti, certo private della facoltà di scegliersi i candidati in assoluto, non sarebbero poi private della facoltà di scegliere, tra i sorteggiati del proprio gruppo, i candidati su cui puntare e fare blocco, candidati che rispetto agli altri sorteggiati, esattamente come oggi, avrebbero il vantaggio, rispetto agli altri, di poter contare su macchine elettorali organizzate.
In sintesi. È vero: il sorteggio dei candidati di sicuro spezzerebbe le aspettative di chi con percorso individuale più o meno dichiarato prepara la candidatura per anni se non per decenni, porterebbe tendenzialmente al Consiglio componenti che non hanno dovuto “lavorare” per anni alla candidatura e al consenso ma che sono stati catapultati in poche settimane in una esperienza ed in una dimensione che non avrebbero mai previsto, e in questo si troverebbero in una condizione forse più “libera”, almeno in partenza (nulla potendo impedire che poi cerchino nei gruppi che li hanno votati idee ed appoggi). Ma non potrebbe spezzare davvero il legame tra componenti del Csm e correnti, almeno nella più parte dei casi.
Quindi, una riforma dannosa, ed anche inutile in relazione all’obiettivo perseguito.
Parliamo d’altro. Di come riformare la legge elettorale.
Perché, come si diceva, dopo quanto avvenuto non basta dire dei “no”, è necessario guardare avanti, e l’associazionismo deve avere capacità di proposta.
2. L’attuale sistema elettorale, da superare
L’attuale sistema elettorale non ha dato buona prova, e ha alla fine presentato puntualmente i difetti sin dall’inizio denunciati dalla parte più avvertita della cultura associativa.
Varato con il dichiarato obiettivo, anche allora, di limitare il ruolo delle correnti, per giudizio generalmente condiviso lo ha al contrario rinforzato, soprattutto ha rafforzato il potere degli apparati delle correnti di selezionare le candidature. E ha reso praticamente impossibile il successo di candidature estranee alle correnti organizzate.
È bene ricapitolare brevemente come la legge funziona, per i colleghi più giovani e per i non “addetti ai lavori”.
Per la legge 28 marzo 2002 n. 44, con la quale si è votato nelle ultime cinque tornate elettorali (2002; 2006; 2010; 2014; 2018), l’elezione dei sedici componenti togati del Csm si effettua: in un collegio unico nazionale, per due magistrati che esercitano le funzioni di legittimità presso la Corte suprema di cassazione e la Procura generale presso la stessa Corte; in un collegio unico nazionale, per quattro magistrati che esercitano le funzioni di pubblico ministero presso gli uffici di merito e presso la Direzione nazionale antimafia; in un collegio unico nazionale, per dieci magistrati che esercitano le funzioni di giudice presso gli uffici di merito. Il sistema, per tutti i collegi, è maggioritario “puro”. Molto semplicemente, vengono eletti i più votati in ciascun collegio, fino al numero di componenti da eleggere. Ogni elettore ha un voto singolo per ciascun collegio. Chiunque può candidarsi, con le firme di almeno 25 e non più di 50 presentatori. Non ci sono “liste” ma solo candidature di singoli. Lo scrutinio è svolto in sede nazionale.
Un sistema che non poteva che produrre quanto ha prodotto: legittime strategie elettorali delle correnti per ottimizzare il risultato elettorale limitando il numero dei candidati, evitando la sicura dispersione che si causerebbe presentandone in numero eccessivo.
Così, se dieci sono i giudici da eleggere e, mettiamo, 7000 gli elettori, da un lato è evidente che con 701 voti si è eletti, e dall’altro è altrettanto evidente che se la corrente dei Gialli ritiene di poter ragionevolmente prendere 2000-2200 voti eviterà di presentare dieci candidati o anche solo sei o sette (col rischio che i 2000 voti si spalmino tra tutti, non facendo rientrare nessuno tra i dieci più votati) ma presenterà non più di tre candidati organizzando il voto nei territori con i propri “apparati” in modo disciplinato se non “militare” per far sì che ciascuno prenda 6-700 voti e venga eletto. Presentandone un quarto solo di fronte alla prevedibile ritenuta possibile espansione del proprio elettorato a 2400-2500 voti. Facendo gli stessi calcoli le altre correnti dei Rossi, dei Verdi e dei Bianchi, l’effetto è che alla fine per dieci posti gli elettori si trovano di fronte se va bene 13-15 candidati nel complesso. O solo 4 per 4 posti, uno per gruppo, come avvenuto per il collegio dei pubblici ministeri nelle elezioni del 2018.
Il sistema ha così fisiologicamente spostato la reale selezione dei candidati ai meccanismi interni delle correnti, ai loro organi direttivi, alle elezioni “primarie” quando organizzate (come avvenuto da parte di tutti i gruppi in sede Anm nel 2014, come avvenuto per AreaDg nel 2010 e nel 2018, invero anche per tali elezioni tra un numero molto ristretto di candidati). Rendendo di fatto molto difficile organizzare una candidatura di successo a chi non può contare sull’appoggio di un gruppo organizzato, atteso anche il collegio unico nazionale e quindi la necessità di raccogliere voti su tutto il territorio nazionale. Con l’ulteriore “difetto” di sostituire la competizione tra “liste” e quindi tra “gruppi”, con i loro programmi e valori collettivi, con una competizione tra singoli, più facilmente permeabile da istanze territoriali, particolari, personali/amicali, di ufficio, di funzione, più facilmente terreno di accordi più o meno in chiaro tra candidati.
Tutto in qualche modo “fisiologico”, alla fine in adesione alla “filosofia” della legge, e non certo quale frutto di riunioni in logge col cappuccio. Legge, varata ritenendosi che la stessa avrebbe determinato il fiorire di dieci, cento, mille candidature, così indebolendo il ruolo delle correnti, e magari l’elezione di consiglieri altrettanto “deboli”, perché poco rappresentativi, perché eletti magari con poche decine di voti, perché rappresentativi di istanze localistiche o di camarille personali. Legge, che ha invece dimostrato per l’ennesima volta come nessun nuovo sistema elettorale potrà mai eliminare il ruolo e le funzioni dei “corpi intermedi” rappresentativi di una comunità, finché tali corpi abbiano un effettivo radicamento, finché i componenti di quella comunità ne riconoscano la funzione e l’utilità, e si riconoscano negli stessi.
L’esito è però stato quello di rafforzare il legame tra il singolo consigliere e il gruppo che lo ha prima selezionato e poi fatto votare in modo organizzato e diretto dall’alto, rendendolo sempre di più rappresentante dei suoi specifici elettori piuttosto che non di tutti i magistrati, come deve essere. Aumentando a dismisura il rischio di un esercizio del mandato condizionato dal meccanismo di elezione, se non addirittura eterodiretto, rendendo quotidianamente al minimo faticoso e difficile un esercizio del mandato invece svincolato dal gruppo da cui si proviene. Aumentando i rischi di scambio clientelare o favoritismo amicale.
L’esito è stato quello di favorire la trasformazione delle correnti da centri di elaborazione di cultura professionale e istituzionale a macchine elettorali neanche collettive, ma a disposizione di singoli.
L’esito, storicamente non negabile, è stato quello di affiancare ad un Parlamento di nominati dalle segreterie dei partiti per effetto della legge elettorale del 2005 (il famigerato porcellum), un Csm di nominati dalle correnti.
Alla fine, una legge che limita, non di diritto ma di fatto, la libertà di scelta degli elettori ed anche la possibilità di candidarsi, che limita l’elettorato attivo e quello passivo. Una legge, i cui effetti negativi vengono oggi dalle forze politiche imputati esclusivamente a quella magistratura associata che però in sua larga parte dal 2002 ne chiede invero il superamento, inascoltata da tutte le maggioranze politiche susseguitesi.
3. I sistemi elettorali “storici”
Nel menu a tendina dei sistemi elettorali disponibili ci sono evidentemente, innanzitutto, quelli “storici”, quelli che si sono susseguiti prima della legge del 2002.
È una storia ricca e complessa, in cui si confrontano diverse concezioni del ruolo del Consiglio e financo della giurisdizione. Una storia in uno scritto come questo non minimamente percorribile in modo adeguato al livello del confronto culturale, e che presenta ampia letteratura [1].
In una discussione sull’attuale “che fare?”, si crede sufficiente ricordare che si sono susseguiti dal 1959 al 1998 quattro diversi sistemi elettorali, corrispondenti a diverse “fasi storiche” dell’attuazione costituzionale in materia di ordinamento giudiziario e anche dell’associazionismo:
- elezioni del 1959 e del 1963: la legge 24 marzo 1958 n. 195 istitutiva del Csm prevede un sistema ancora “figlio” di una concezione pre-costituzionale, “piramidale” e gerarchica della magistratura, con la Cassazione in posizione di supremazia: tanto per rendere l’idea, in una magistratura cui non erano ancora ammesse le donne, dall’elettorato attivo sono nella legge esclusi gli “uditori giudiziari”, magistrati di prima nomina non ancora magistrati di tribunale (seppure abbiano ed esercitino funzioni giurisdizionali), laddove i magistrati di Cassazione hanno invece un voto multiplo. Il voto è separato per categorie. Otto magistrati di merito vengono eletti in quattro collegi territoriali in ciascuno dei quali i magistrati delle due categorie di “tribunale” e di “appello”, votando separatamente, eleggono con metodo maggioritario un magistrato di tribunale ed uno di appello, per un totale di quattro e quattro per ciascuna categoria. I sei magistrati di Cassazione (di cui due con ufficio direttivo) vengono invece eletti in un collegio unico presso la Cassazione stessa dai soli magistrati della suprema Corte, sempre con metodo maggioritario: un sistema irrimediabilmente storicamente datato, innanzitutto nella prevalenza data al ruolo della Cassazione.
- elezioni del 1968 e del 1972: in una fase finalmente di piena attuazione costituzionale, che vede nel 1963 l’ingresso in magistratura delle donne, che vede nel 1965 nascere al congresso Anm di Gardone il pluralismo associativo nella sempre più diffusa comune cultura di inverare i valori costituzionali della giurisdizione, che vede i magistrati strutturarsi in gruppi e l’Anm nel 1964 adottare il sistema proporzionale per liste per l’elezione del suo Comitato direttivo centrale, la nuova legge elettorale 18 dicembre 1967 n. 1198 riduce il peso della Cassazione e il sistema del voto separato per categorie. Le elezioni si svolgono in due fasi, la prima in collegi territoriali che produce una lista nazionale di eleggibili ripartiti per categorie, la seconda in un collegio unico nazionale su tale lista nazionale, sempre con metodo maggioritario (che continua quindi ad ignorare la nuova realtà delle correnti organizzate), sempre con voto di categoria, senza più il voto multiplo per i cassazionisti (come si vedrà, l’idea delle due fasi viene oggi ripresa da una delle proposte di riforma in campo); il sistema porta una corrente, Magistratura indipendente, ad ottenere 13 seggi su 14, uscendone quindi un Csm non rappresentativo dei rapporti effettivi di forza tra i vari gruppi;
- introdotto con il generale consenso della magistratura associata e con legge che trova consensi trasversali agli schieramenti politici, il sistema proporzionale per liste concorrenti viene introdotto con legge 22 dicembre 1975 n. 695 e “governa” le elezioni del 1976, del 1981, del 1986. Ricalcato sul sistema per le elezioni del Cdc in Anm e a ben guardare sulla legge del 1957 per la Camera dei deputati, è il sistema che accompagna quella che forse resta la fase più “affluente” e “ricca” della vita dell’associazionismo giudiziario, della quale è al contempo figlia e forse una delle cause, in un’epoca in cui anche la politica non è ancora associata al malaffare ma produce futuro ed espansione dei diritti, e crede in sé stessa, un’epoca in cui è il democristiano Bosco relatore della legge a valutare positivamente con la migliore cultura giuridica e con tutto l’associazionismo (si pensi alle differenze con la misera attualità dell’odierno discorso pubblico) che con la legge proporzionale per liste «alla contrapposizione fondata su posizioni personali, di natura nazionale o locale, si sostituisce una diversa contrapposizione di natura politico-ideologica», nella «consapevolezza che i problemi della giustizia se hanno, come è ovvio, una dimensione di natura strettamente tecnico-giuridica, non possono trovare adeguata soluzione se non nell’ambito di una prospettazione latu sensu politica...», e che «non trova giustificazione alcuna il sistema di rappresentanza territoriale..., che finisce per limitare la funzione rappresentativa dell’organo, attribuendovi un aspetto in un certo senso corporativo, contro l’imposizione che ad esso è stata data dal sistema della Costituzione Repubblicana...».
La legge introduce un sistema proporzionale con clausola di sbarramento su collegio unico nazionale, che prende finalmente atto del pluralismo associativo e dell’esigenza che il Csm ne sia coerente rappresentazione, per sua maggiore forza e legittimazione. Aumentati i componenti “togati” a venti, gli stessi sono ripartiti tra le categorie di Cassazione (otto), Appello (quattro), e Tribunale (otto), nella approssimata riproduzione della loro consistenza numerica, e con riguardo, dopo le leggi cd. “Breganze” e “Breganzona” sulla progressione in carriera, alla qualifica raggiunta e non alle funzioni svolte. Nel collegio unico nazionale partecipano alla ripartizione le liste che riportano voti validi per almeno il 6% (sbarramento che solo nel 1981 terrà fuori una lista). In ogni lista non può essere inserito più di un candidato appartenente allo stesso distretto. Le minoranze sono tutelate dalla previsione per cui per presentare una lista bastano 150 presentatori. Si esprime il voto di lista ed eventuali voti di preferenza nell’ambito della lista votata, con l’elettore che quindi “vede” e “sceglie” prima la lista e lo schieramento politico-culturale e poi il candidato. In base ai voti di lista si ripartiscono i seggi, con recupero dei resti in sede nazionale. Per ogni lista vengono eletti i magistrati che ottengono più preferenze sino a concorrenza dei seggi ottenuti (due leggi successive operano poi ritocchi che non modificano strutturalmente il sistema: con legge 3 gennaio 1981 n. 1 si riducono a dieci i posti vincolati alle categorie, con legge 22 novembre 1985 n. 655, istituita una riserva di due posti per i magistrati di cassazione con effettivo esercizio di funzioni di legittimità – numero che comunque elimina il peso e l’egemonia della suprema Corte in Consiglio – si svincolano i restanti 18 posti da ogni vincolo di categoria).
È il sistema che storicamente più si è attagliato ad un organismo con riguardo al quale per Costituzione non si pone un problema di governabilità e di meccanismi elettorali che garantiscano una maggioranza bensì una esigenza di rappresentatività del pluralismo culturale che c’è in magistratura. Un sistema che meglio di altri evita eccessivi personalismi e localismi, dal momento che la risoluzione dei problemi della giustizia non può mai perdere una prospettiva complessiva e nazionale;
- il sistema di cui alla legge 12 aprile 1990 n. 74, usato per le elezioni del 1990, del 1994, del 1998, è figlio dei primi anni in cui il patriottismo costituzionale cessa di essere bene condiviso tra tutte le forze politiche diverse dal Msi, dei primi anni in cui processi di mafia e sulla criminalità dei colletti bianchi fanno nascere un partito trasversale ostile al controllo di legalità sui pubblici poteri e quindi ostile all’autonomia ed all’indipendenza della magistratura, ed al suo governo autonomo (è la stagione in cui si comincia a discutere della necessità di una grande riforma anche costituzionale, delle commissioni parlamentari istituite all’uopo, è la stagione del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati utilizzato in chiave propagandistica e di una proposta di altro referendum proprio sulla legge elettorale del Consiglio, dichiarata inammissibile dalla Consulta). Il protagonismo istituzionale del Csm, certo dovuto anche alla rappresentatività garantitagli da anni di sistema elettorale proporzionale, porta a rimettere mano alla legge elettorale, in un’ottica di ridimensionamento del suo ruolo prima ancora che di quello delle “correnti”. Tra plurime proposte, si arriva alla scorrettezza istituzionale di approvare la riforma a procedura elettorale in corso, e ad una riforma abborracciata e contorta nella logica complessiva. Viene previsto un collegio unico nazionale solo per l’elezione di due magistrati di legittimità, per i restanti diciotto di merito (da eleggersi senza riferimento alle categorie) si procede con sistema proporzionale ma applicato a quattro macrocollegi territoriali ciascuno dei quali accorpante più distretti scelti con sorteggio, senza recupero dei resti a livello nazionale, con una altissima soglia di sbarramento, per partecipare alla ripartizione dei seggi una lista dovendo su base nazionale raccogliere almeno il 9%. Il sistema rende più forte la posizione dei candidati che provengono dai distretti più numerosi, danneggia i candidati che, lavorando in distretti piccoli, avrebbero avuto, magari perché noti a livello nazionale, più possibilità nel collegio nazionale. La legge rafforza gli apparati, per la necessità di accordi tra magistrati di distretti accorpati casualmente solo per le elezioni. Ridà fiato ai localismi. Non riesce però nell’obiettivo di scardinare una competizione tra liste e il pluralismo del Consiglio. Nel 1990 la clausola di sbarramento del 9% non scatta per alcuna lista, evidenziandosi un ulteriore difetto della legge, la sovrarappresentazione di chi superi di poco lo sbarramento del 9%, per l’effetto della considerazione dei resti in ciascun collegio e non su base nazionale (meccanismo voluto peraltro in danno delle minoranze).
Il peggio, come si è visto, doveva ancora venire.
4. Le proposte oggi concretamente in campo.
Negli anni dell’attuale legge elettorale, se non è mai cessato il lavorìo di singoli magistrati e giuristi alla ricerca della migliore legge elettorale per il Consiglio, non può francamente dirsi che il tema sia stato mai davvero una priorità dell’iniziativa delle correnti e dell’Anm, pur costantemente critiche nei confronti della legge 44/2002. Che la cosa sia stata dovuta al più o meno consapevole adagiarsi delle correnti ad una legge che di fatto ne rafforza il potere di selezione dei candidati, o al timore di mettere mano ai meccanismi elettorali in una stagione politica, quella degli ultimi vent’anni, mai davvero favorevole a riforme nello spirito della carta del 1948, è difficile dire. Probabilmente hanno inciso entrambi i fattori.
Se i sistemi anni Sessanta sono improponibili, e se nessuno pure ha mai pensato di reintrodurre il sistema degli anni Novanta e di cui alla legge 74/1990, largamente condivisa tra le correnti resta invece l’opinione che il sistema migliore, per quello che è il ruolo del Consiglio, sia il sistema proporzionale per liste concorrenti della legge del 1975.
È una posizione fondata su dati storici indiscutibili.
Nel clima politico attuale, in cui il mantra di tutto il mondo politico indistintamente, e ormai di una parte consistente di magistrati, avvocati e professori è “riduciamo il ruolo delle correnti” quando non “sciogliamole” (non si sa come) o “scioglietele”, la legge del 1975 può bene essere presa dall’Anm come prima proposta di bandiera per aprire la discussione da una posizione di orgogliosa rivendicazione dell’epoca migliore del pluralismo associativo ma appare molto difficilmente praticabile sul piano politico con una qualche probabilità di successo, al punto che verrebbe probabilmente presa per una provocazione, dal momento che la legge proporzionale per liste su collegio unico nazionale “evoca” in modo innegabile quella competizione tra forze politico-associative in funzione del pluralismo del Consiglio che nel regredito odierno discorso pubblico non è più merce spendibile in nessun angolo dell’emiciclo parlamentare (del tutto inefficace apparendo anche rimarcare come, con i quattro gruppi del 2018, tale legge avrebbe portato i magistrati a scegliere tra almeno 40 candidati giudici, 16 candidati pm, otto candidati di legittimità, con un minor potere degli apparati nel selezionare le candidature, con una rivitalizzazione della vita interna dei gruppi, e una nuova sottolineatura del loro ruolo di centri di elaborazione programmatica sui temi della giustizia; apparendo altresì non praticabili emendamenti al sistema proporzionale del 1975 quali il panachage, correttivo del sistema proporzionale per cui si dispone di un voto non di lista per incidere sulle preferenze nella lista altrui, che oggi apparirebbe foriero di accordi di basso profilo tra apparati).
La capacità di proposta dell’Anm per essere efficace, e per avere chance di evitare il disastro epocale del sorteggio, non può allora che partire da questa constatazione.
Due appaiono le principali proposte sinora messe in campo, da cui far partire la discussione.
La prima è quella a suo tempo uscita nel 2016 dalla Commissione ministeriale per le modifiche alla costituzione ed al funzionamento del Csm presieduta dall’ex magistrato e Ministro di giustizia Luigi Scotti, insediata a via Arenula dal Ministro Andrea Orlando durante il Governo Renzi.
Lungo le direttrici di garantire una ampia platea di candidati a prescindere dalle designazioni di corrente, della parità di genere, e della riconoscibilità dei diversi “programmi” per il Consiglio, il sistema prevede una prima fase di tipo maggioritario per collegi territoriali e una seconda fase di tipo proporzionale per collegio nazionale con liste concorrenti.
Il territorio è diviso in tanti collegi quanti sono i componenti da eleggere, formati tenuto conto della consistenza numerica dei distretti, e parificando al massimo i corpi elettorali degli stessi. Con il numero di componenti attuali, quattro collegi per i pm, dieci per i giudici (per la Cassazione si manterrebbe il collegio unico nazionale per due posti di consigliere). Nella prima fase non ci sono liste ma solo candidature individuali, chiunque con un minimo di presentatori si può candidare nella categoria e nel collegio in cui lavora, anche al di fuori quindi di gruppi e liste. L’elettore ha tre schede e vota nelle tre categorie tra i candidati del suo collegio. Il sistema è maggioritario puro, per cui vengono ammessi alla seconda fase un numero di candidati pari al quadruplo dei magistrati da eleggere per ogni categoria, quindi con i numeri attuali otto per la legittimità, 16 per i pm, 40 per i giudici: i più votati. Qualora non sia realizzata la parità di genere, si aggiungono e passano al secondo turno altri candidati del genere meno rappresentato, i più votati tra i non eletti, fino ad identica rappresentazione dei due generi. Il secondo turno si svolge poi con i candidati ammessi che si apparentano e corrono con sistema proporzionale su base nazionale per liste concorrenti, con voto di lista e di preferenza in ogni categoria, con possibilità di una seconda preferenza purchè di genere diverso.
Si tratta di progetto che parte da obiettivi condivisibili (realizzare la parità di genere, dare spazio a candidati indipendenti, creare un’ampia platea di candidati, recuperare al secondo turno la condivisione di progetti e idealità). Ma che dà per scontato ciò che l’esperienza della legge del 2002 dimostra che non è scontato neanche in relazione a collegi territoriali, vale a dire il fiorire di plurime ed indipendenti candidature, con l’effetto che facilmente potrebbero riprodursi i difetti della legge 44 del 2002: pochi candidati, al primo turno candidature organizzate dai gruppi e “blindate”, per garantire alla singola corrente il massimo degli ammessi al secondo turno (né si comprende come il candidato estraneo ai gruppi organizzati riuscito a passare al secondo turno possa avere possibilità di successo senza entrare al secondo turno in una lista per partecipare al voto conclusivo proporzionale su collegio nazionale per liste contrapposte).
Una ulteriore, autorevole, proposta, è stata formulata dal costituzionalista Gaetano Silvestri [2].
Sulla premessa «che non esiste, per l’elezione dei membri del CSM, un sistema ottimale esente da inconvenienti, così come non esiste per qualunque tipo di elezioni», che si «tratta solo di vedere quale potrebbe essere una soluzione equilibrata», e che «il bilanciamento fondamentale» da ricercare «è quello tra conservazione del pluralismo ideale e culturale – esistente nel corpo della magistratura e non esorcizzabile per fortuna con marchingegni elettorali – e valorizzazione delle capacità e dell’indipendenza dei singoli magistrati», il sistema proposto vuole riprendere, espressamente, il vecchio sistema elettorale per il Senato, vigente dal 1957 nella Prima Repubblica. Un sistema che «coniugava visibilità dei singoli candidati e sistema proporzionale temperato nell’assegnazione dei seggi».
Si divide il territorio nazionale in tanti collegi quanti sono i magistrati da eleggere, esclusi quelli di legittimità. In ogni collegio candidature individuali, svincolate dalle categorie professionali requirenti-giudicanti («non previste dalla Costituzione»), collegate ad altre candidature individuali in altri collegi (almeno due), «al fine di costituire un gruppo», «punto di riferimento in sede di distribuzione nazionale dei seggi, da effettuarsi con metodo proporzionale, metodo d’Hondt», quindi senza utilizzo dei resti, così evitandosi «la frantumazione estrema del proporzionale puro». Ottenuti da parte di un gruppo di 14 candidati tra loro collegati in 14 diversi collegi, poniamo, quattro seggi, risultano eletti, nel gruppo, quelli che nel loro collegio hanno avuto la percentuale di voti validi più alta.
Per il professor Silvestri «l’idea di fondo» della proposta è quella della «conciliazione del sistema proporzionale e della valorizzazione della personalità dei candidati, anche al di fuori delle correnti». Il sistema infatti «manterrebbe il ruolo delle correnti, da non demonizzare, anche di fronte» alle «degenerazioni», «escluderebbe la formazione di liste concorrenti nello stesso collegio, evitando la caccia alle preferenze» dei candidati di una stessa lista, «infine metterebbe in primo piano la personalità dei candidati» nei collegi uninominali territoriali, favorendo la presentazione di candidati professionalmente apprezzati e conosciuti per così dire in loco, anche al di fuori dei gruppi.
5. Un meccanismo indiscutibilmente equilibrato
Certo di più di un altro sistema proposto negli ultimi tempi, e che ha fatto capolino in dibattiti associativi, nelle mailing list di magistrati, in sede accademica e politica, sempre nell’ottica dichiarata di togliere peso alle correnti nella selezione dei candidati: tanti collegi uninominali quanti sono i componenti da eleggere (esclusi al solito quelli di legittimità; collegi formati accorpando se necessario distretti e circondari fino ad approssimare un identico numero di elettori nel singolo collegio), votazione con sistema maggioritario puro, viene eletto molto semplicemente il più votato in ciascun collegio.
Proposto dai suoi fautori sempre nell’ottica di favorire candidati noti e apprezzati in sede locale, e al contempo non in grado di cercare consensi e di organizzare il voto in sede nazionale perché estranei alle correnti, il sistema non potrebbe però impedire alla singola corrente il voto organizzato in sede locale, ed appare del tutto inadatto a garantire in Consiglio il necessario pluralismo e quindi la necessaria rappresentatività dello stesso (uno stesso gruppo che dispone di una sicura maggioranza anche solo relativa, poniamo il 30%, in ogni collegio, potendo in ipotesi portare a vincere un suo candidato in ogni collegio, con l’effetto di un Csm monocolore). Inoltre, il meccanismo non garantisce neppure che nel singolo collegio vi sia pluralità di candidature, e non appare neanche idoneo a prevenire localismi nell’impostazione dei programmi, e pratiche clientelari riferite magari non più a “correnti” ma a notabilati e a comitati elettorali locali formatisi ad hoc intorno a singole candidature, non su leggibili istanze culturali e politico-programmatiche sui temi consiliari ma ancora una volta su interessi particolaristici e localistici.
Concludendo questa panoramica. Non si può difendere l’esistente. È politicamente imprescindibile che l’Anm faccia una proposta (che, si può sottolineare: tenga conto anche dell’esigenza di garantire o approssimare la parità di genere). Che al minimo si ponga come sede di un dibattito sereno, razionale, non emotivo, non corporativo, aperto a chi vuole discutere senza cedere al “populismo giudiziario”.
Con due convinzioni di fondo.
La prima, che il lobbysmo evidenziato dall’inchiesta di Perugia, i conciliaboli notturni tra carbonari sono dimostrazione non della forza delle correnti, ma ormai della loro estrema debolezza nell’essere davvero protagoniste delle decisioni del governo autonomo.
La seconda, la convinzione di fondo che se è vero che le leggi elettorali sono in grado di modificare i comportamenti dei gruppi che si muovono in una data comunità, e sono quindi in grado di incidere grandemente sulla configurazione di un “sistema politico”, è vero anche che non vi è ingegneria elettorale o costituzionale che possa cancellare ignavia e faziosità, corporativismo, carrierismo, analfabetismo politico, scarsa consapevolezza istituzionale di singoli e di gruppi, tatticismi, condotte di opaco lobbysmo o anche solo deontologicamente scorrette, sino a quelle illecite. E che quindi solo una nuova collettiva responsabilità culturale e professionale dei magistrati, una nuova collettiva consapevolezza del ruolo che la Costituzione assegna alla magistratura ed al singolo magistrato potrà salvare agli occhi dei cittadini l’utilità del governo autonomo in funzione di una giurisdizione forte ed indipendente.
[1] Per un contributo tanto snello quanto pregnante, si rimanda, anche per le note bibliografiche, al saggio di E. Bruti Liberati e L. Pepino, Autogoverno o controllo della Magistratura? Il modello italiano di Consiglio Superiore, Feltrinelli, Milano, 1998.
[2] Vds. G. Silvestri, Consiglio Superiore della magistratura e sistema costituzionale, in Questione Giustizia trimestrale, Fascicolo 4/2017, http://questionegiustizia.it/rivista/2017/4/consiglio-superiore-della-magistratura-e-sistema-costituzionale_489.php. Il saggio evidenzia ancora una volta il nesso strettissimo tra ruolo che si vuole assegnare al Csm e sua legge elettorale.