Entra oggi in vigore il decreto legge n. 78 del 1° luglio 2013 volto a contrastare, dopo le censure della CEDU, la drammatica situazione delle nostre carceri. Nell’anno di tempo assegnato all’Italia dalla Corte di Strasburgo con la sentenza Torreggiani per rimediare alla perdurante illegalità derivante da un sovraffollamento ormai non più tollerabile, questo sembra un primo timido ma ambizioso passo che tuttavia non raggiungerà in concreto il vero obiettivo e cioè ridurre le presenze dei detenuti al limite regolamentare dei nostri penitenziari ( irca 45.000 posti letto). Le strade da percorrere erano due: o aumentare i posti disponibili di almeno 20.000 unità ovvero ridurre le presenze di un eguale numero.
E’ positivo si sia scelta quest’ultima opzione che, tra l’altro, corregge i paradossi della legge cd ‘ex Cirielli’, finalmente prevedendo che l’esecuzione della pena possa essere sospesa dalla libertà anche nei confronti del recidivo in attesa della decisione della magistratura di sorveglianza e, dal carcere, aumentando le possibili uscite consentendo anche ai recidivi l’accesso alla detenzione domiciliare ordinaria e, anzitempo, ad altri benefici (permessi premio e semilibertà ).
Norme pienamente condivisibili ma purtroppo non sufficienti.
L’intervento viene attuato attraverso un’articolata modifica dell’art. 656 c.p.p. che riporta sostanzialmente la situazione a prima del 2005, introducendo in più un meccanismo di preventivo riconoscimento, in forma ‘virtuale’ da parte del Pubblico ministero già al momento della determinazione della pena residua, del beneficio della liberazione anticipata con conseguente sospensione dell’ordine di esecuzione fino alla decisione che verrà adottata, senza ritardo, dal Magistrato di sorveglianza ai sensi dell’art. 54 o.p.. Permane l’esclusione dei condannati per i reati più gravi ( quelli previsti dall’art. 4 bis o.p. ) per i quali continua a permanere la presunzione di pericolosità, pur se giunti ‘liberi’ al passaggio in giudicato della sentenza, e dunque con immediato ingresso in carcere anche nel caso di residuo di pena inferiore ad anni 3 ed anzi con nuova inclusione nel ‘catalogo’ di due nuovi reati (artt. 572 co. 2 e 612 bis co. 3 c.p.) ma con l’opportuna esclusione, per altro verso, del furto aggravato dalle ipotesi di non sospensione dell’ordine di esecuzione.
Assai rilevante è poi la possibilità per il PM, introdotta con una modifica del comma 5, di sospendere l’esecuzione anche quando la pena da espiare non superi gli anni 4, anche se per gravi reati, nei casi della detenzione domiciliare c.d. ‘speciale’ dell’art. 47 ter co. 1 o.p. (madri o padri con prole, persone gravemente ammalate, inabili ultrasessantenni e infraventunenni con gravi esigenze) e ciò prima che tali condizioni siano verificate dalla magistratura di sorveglianza e pertanto risparmiando a tali soggetti, anche solo per poche ore, l’ingresso in carcere.
Diminuendo le preclusioni ai benefici penitenziari (importanti le soppressioni degli artt. 30 quater e 50 bis o.p. in materia di permessi premio e semilibertà che avevano introdotto irrazionali limiti temporali di ammissibilità per i recidivi, del comma 7 bis dell’art. 58 quater o.p. che poneva un divieto di doppia concessione di misura alternativa ai recidivi e del comma 9 dell’art. 47 ter o.p. che obbligava alla revoca della misura domiciliare anche per minimi allontanamenti dal domicilio, sostanzialmente parificando il reato di evasione ai più gravi delitti) e rafforzando alcune misure alternative (in particolare la detenzione domiciliare ), e ciò anche in parallelo al disegno di legge in discussione alla Camera sulle pene alternative domiciliari, le norme emanate oggi si iscrivono in un complessivo ripensamento dell’indirizzo sostanzialmente abrogativo della legge Gozzini con l’introduzione di preclusioni pressochè invincibili e rigidi vincoli alla discrezionalità della magistratura di sorveglianza ( laddove viceversa in analoghi casi di pericolosità in fase cautelare è lasciato al giudice delle indagini preliminari ampio margine di discrezionalità nella scelta delle misure restrittive ).
Sotto il profilo più strettamente penitenziario è opportuno l’allargamento del lavoro all’esterno ai lavori di pubblica utilità, cioè a carattere volontario e gratuito, sebbene susciti qualche perplessità la prestazione di attività non retribuita in un ambito che rimane detentivo e dunque all’infuori di una misura alternativa che preveda, tra le altre cose, azioni riparatorie (come ad esempio nel caso di affidamento in prova al servizio sociale). Peraltro ove non si prevedano forme di sovvenzionamento di dette attività nei casi di detenuti nullatenenti (cioè la stragrande maggioranza dei reclusi che affollano le nostre carceri) la misura troverà assai scarsa applicazione, preferendo i condannati lavorare all’interno del carcere per conto dell’Amministrazione allo scopo di percepire una qualche retribuzione, seppur modesta. Sarebbe stato preferibile privilegiare gli interventi sul lavoro carcerario con ulteriori incentivi all’assunzione da parte di imprese e cooperative sociali considerato che il lavoro, retribuito, costituisce uno dei più forti antidoti alla recidiva.
Vi è infine l’interessante ampliamento delle ipotesi di lavoro di pubblica utilità del comma 5 bis dell’art. 73 DPR 309/90 (il nuovo comma 5 ter ne consente l’applicazione anche per reati diversi dall’art. 73 co. 5 purchè commessi da soggetto tossicodipendente e con esclusione di quelli previsti dall’art. 407 co. 2 lett. a c.p.p. ): un caso di probation per verità già di scarsa applicazione ma invece opportunamente da incentivare.
In definitiva il decreto segnala certamente un cambio di passo, rafforzando il fine di reinserimento sociale dei condannati attraverso un uso più meditato della sanzione detentiva, che era ed è la finalità precipua della pena nella sua accezione costituzionale, ma non interviene nel senso auspicato dalla CEDU che chiede di operare perché le carceri non continuino a riempirsi in maniera massiccia e comunque tale da rendere contraria al senso di umanità l’esecuzione della pena. Del resto il risultato che viene prefigurato è scarso per lo stesso Ministro, il quale ha ammesso che si attende assai ottimisticamente l’uscita (o il mancato o ritardato ingresso) di non più di 3-4000 condannati: nulla difronte ai 20.000 esuberi attuali.
Il provvedimento è utile per razionalizzare un sistema carcerario che si mantenga in termini fisiologici ma difronte alla vera e propria patologia da affrontare il decreto odierno non è assolutamente sufficiente. Il Governo aveva finalmente l'occasione per voltare pagina, anche eventualmente ( come era stato previsto in una prima versione del decreto) con il rafforzamento – temporaneo ed eccezionale - della liberazione anticipata (che, affidata alla prudente valutazione del giudice caso per caso, avrebbe garantito un certo numero di uscite ‘anticipate’ senza mettere a rischio la sicurezza collettiva) ovvero, come auspicato dalla relazione della Commissione mista del CSM, con una decisa modifica dell'art 4 bis o.p., norma quantomeno da ridimensionare poiché condizionante l’ossatura dell’intero sistema penitenziario o, infine, con l’ampliamento dei limiti temporali, come avviene in molti altri Paesi, della misura-cardine dell’affidamento in prova al servizio sociale, sul solco delle ben note probation e community sanctions.
In definitiva l’intervento del Governo, pur apprezzabile, otterrà tutt’al più il risultato di non aggravare la situazione attuale, già oltre ogni limite, ma intanto l’anno graziosamente concesso dalla CEDU si appresta, tra non più di 10 mesi, a scadere.