Magistratura democratica
Magistratura e società

Dall’operaio massa al lavoratore digitale: quale modello per un nuovo Statuto? Riflessioni a partire da un recente Volume per il cinquantenario della legge del 1970 *

di Giuseppe Bronzini
già presidente di sezione della Corte di cassazione, segretario generale del Movimento Europeo

Un recente volume, a carattere interdisciplinare, La Dignità del lavoro. Nel cinquantenario dello Statuto (a cura di P. Passaniti), Franco Angeli (2021), offre contributi importanti per una riflessione ricostruttiva con finalità prospettiche sul modello regolativo adottato nel 1970, sulla sua perdurante attualità e su quanto possa essere rilanciato nel mondo produttivo di oggi (e soprattutto di domani) ad altissima densità tecnologica. 

1. Dico subito che il Volume[1] di cui qui discutiamo mi è piaciuto molto in quanto si allontana, per profondità ricostruttiva e per capacità di riflettere sulle prospettive, certamente problematiche, per l’avvenire di una disciplina garantista, razionale e compatibile con le linee del costituzionalismo moderno di quel fenomeno che continuiamo a definire “lavoro”, dalle tante celebrazioni un po’ rituali del cinquantennale dello Statuto. Merito anche della felice contaminazione tra storici, giuslavoristi, costituzionalisti, sindacalisti, studiosi dei processi sociali il Volume  finisce con l’interrogarci, nella fusione tra la descrizione rammemorante di un passaggio d’epoca di rilievo straordinario e spiegazione delle metafisiche influenti che lo resero possibile e resistente nel tempo, sui tratti caratteristici di quel modello, sulla sua perdurante  egemonia o sul recupero evolutivo dei suoi principi: alla fine il pensiero radicale e della trasformazione, con Walter  Benjamin, ci ricorda che i processi emancipativi consistono in primo luogo nello scegliersi un exemplum virtutis del passato e nel proiettarlo utopicamente nel futuro. Nello scegliersi, come diceva Hannah Arendt, delle gemme incastonate nel tempo, da trasmettere ad altre generazioni.

Per chi, come me, ha iniziato a fare il Giudice nel 1978, proprio nel periodo in cui il sistema statutario, anche grazie  alla riforma del processo del lavoro del ‘73, iniziava a decollare, ed al tempo stesso si manifestavano, con la legislazione della crisi, i primi slittamenti, deroghe e momenti di interruzione di meccanismi ingenuamente dipinti come una rete protettiva a vocazione universale nonostante imbuti selettivi molto significativi (tipicamente per le piccole imprese), fa una certa impressione leggere quell’insieme di episodi, certo già conosciuti ma qui esposti con molto ordine, che mostrano come il passaggio statutario fosse tutt’altro che scontato e che, proprio a sinistra, conoscesse ostacoli e perplessità. Una invenzione creativa più che il punto armonico di arrivo di una lenta opera di sedimentazione di riforme. Dall’astensione del Pci sul voto finale alla legge, all’emendamento- sempre dell’ambiente del PCI- soppressivo dell’art. 28, alle obiezioni garantiste della Rivista giuridica, alla ritrosia dello stesso mondo sindacale, alla fiera avversione della sinistra radicale già organizzata su forme di contropotere alternative, si tratta di  elementi  che, in quella stagione eccezionale di conflitto e lotte sociali con poche analogie,  rischiarono fortemente di fermare il progetto riformista o di bloccarlo nel suo divenire. Qui avvennero due miracoli rievocati nel Volume che guadagnarono al progetto un consenso di base mancante ab origine: da un lato il processo del lavoro che consentì con tempi, all’epoca, ragionevoli di mostrare l’effettività garantista delle norme di protezione individuale (tipicamente quelle sui controlli a distanza e sulle mansioni) e di salvaguardare il potere del sindacato in azienda con l’art. 28 (che divenne il vettore della giurisprudenza progressista nel suo complesso) e dall’altra la scelta strategica e provvidenziale del sindacato di scegliere i consigli come organo di base in azienda allargando in senso pluralista e partecipativo le maglie rappresentative  dello Statuto e portando alla convivenza le varie anime del sindacalismo. Due piani convergenti, a monte ed a valle del sistema, che hanno salvato l’architettura complessiva del Progetto statutario. Emerge dai vari interventi del volume (soprattutto di quelli storico- istituzionali) la decisiva figura di Gino Giugni (figura rara di socialista “eretico”) e del suo approccio, all’epoca  piuttosto isolato, al giuslavorismo, la sua opera di geniale ispiratore di un nuovo modello di relazioni industriali, incentrato su un radicale bagno nel pluralismo giuridico, sul recupero di tradizioni certamente in Italia minoritarie, di lontananza dal dogmatismo giuridico ed insieme dal legi-centrismo italico, che ricorda altre correnti innovative che in quegli anni animavano la cultura giuridica italiana come la Politica del diritto di Stefano Rodotà, Sabino Cassese, Giuliano Amato aperte alla contaminazione  con la common law ed il pragmatismo anglosassone, con il pluralismo degli anni tra le due guerre  di matrice francese incentrato sul droit social ed al costituzionalismo e giuslavorismo weimariani. Senza il faro della nozione di “ordinamento intersindacale”[2] che recepisce nel mondo del lavoro questo tipo di apertura (in cui obiettivamente gioca anche una rilettura del pluralismo di Santi Romano oltre le griglie ideologiche certamente datate) forse lo Statuto non l’avremmo mai conosciuto nella sua originalissima combinazione tra tutele inderogabili dei singoli, poteri di rappresentanza e di contrattazione dei sindacati (“sostenuti” normativamente) e rilievo della contrattazione collettiva come “legge” dei rapporti di lavoro. Forse le varie anime, anche del sindacalismo, sarebbero rimaste divise tra il privilegiare il lato garantista del singolo o le dinamiche collettive: indecise tra legge e contratto, tra il pericolo di istituzionalizzazione della prima o di incertezza e squilibrio del secondo. L’idea regolativa di Giugni sembra in realtà aver dato un decisivo respiro di immaginazione teorica e politica al fenomeno, inedito nel nostro paese, di una parte della società che cerca di autorganizzarsi, offrendo concretezza e forza istituzionale al disegno costituzionale di promozione del singolo attraverso il lavoro nel mondo della produzione. 

A me sembra che questo aspetto di schema di organizzazione per le relazioni di lavoro sia quello principale di quell’esperienza su cui riflettere per valutare se si possa proiettarlo nel mondo ad altissima densità tecnologica cui credo siamo destinati, più che sul connesso profilo della  penetrazione delle libertà  costituzionali oltre i cancelli della fabbrica, come grande riforma istituzionale dovuta al ciclo di lotte del biennio rosso (insieme a Regioni, divorzio, scuola etc.), in funzione di modernizzazione  e democratizzazione del sistema giuridico , se vogliamo più scontato anche se certamente vero. 

 

2.  Una importante, successiva, letteratura ha poi assunto gli esempi virtuosi italiani di contrattazione collettiva dinamica e progettuale per contenuti, ma anche radicata saggiamente nell’ordinamento costituzionale, in modo da tenere sotto controllo i pericoli di istituzionalizzazione dei sindacati via legislazione di sostegno (equilibrio non sempre facilmente raggiunto nella storia applicativa dello Statuto, soprattutto in relazione al suo articolo 19) come case study di una proposta teorica importante nel dibattito anni degli anni ‘80 sulla cosiddetta “colonizzazione dei mondi vitali“ (forse l’ultima discussione filosofica a tutto tondo sulla modernità) aperta con l’attualizzazione di alcuni temi della Scuola di Francoforte (in particolare quelli sulla “società totalmente amministrata”) da Jürgen Habermas nel suo capolavoro[3] in ordine ai crescenti pericoli di una giuridificazione dei rapporti sociali eccessiva o incontrollata indotta dal welfare contemporaneo che imporrebbe ai singoli, pur di essere protetti (soprattutto come lavoratori, onde accedere al pianeta delle tutele dello stato sociale), di recepire stereotipi comportamentali, stilemi di vita (la cosiddetta “colonizzazione”) che mortificano le capacità progettuali individuali e collettive (nella visione habermasiana tendenza contrastata  solo dai cosiddetti nuovi movimenti culturali ed estetici europei). La gabbia d’acciaio weberiana si stenderebbe proprio sul sistema di rimedi e di compensazioni che la democrazia ha introdotto per mitigare la durezza ed eteronomia dei processi produttivi e il carattere irreggimentato del lavoro “in fabbrica”. Il medium giuridico utilizzato dal sistema della sicurezza sociale non sarebbe neutrale portando ad una nuova alienazione che “raddoppia” quella produttiva: il singolo “garantito” verrebbe irretito negli schemi automatici e assicurativi della burocrazia: per il filosofo francofortese la parola d’ordine diventa, allora, quella di “domare socialmente lo stato sociale”. La risposta ai dilemmi habermasiani della cosiddetta Scuola del diritto riflessivo promossa dal sociologo Gunther Teubner, a lungo docente all’IUE di Fiesole[4] cerca di offrire una via di mediazione tra Luhmann e Habermas (convergenti circa l’espandersi tecnocratico a livello istituzionale) per mitigare la paura di una elefantiasi della burocrazia concepita weberianamente. Teubner propone l’adozione, il più possibile, di meccanismi di regolazione finalizzati ad espandere le capacità di “autoregolazione” di sfere sociali particolari nelle quali il diritto si plasma ad essere rimodulato dagli stessi attori senza essere irrigidito in regole fisse ed immutabili. La legge si limita a fissare i diritti partecipativi di ognuno al gioco auto-regolativo, predispone principi di fair representation, fissa le compatibilità generali tra le norme finali e i principi generali (di compatibilità con gli altri sub-sistemi, a carattere costituzionale), stabilisce i termini di obbligatorietà dei negoziati finali. Lo scopo è di evitare il cosiddetto trilemma regolativo, l’ipersocializzazione del diritto (il diritto viene catturato dalla sua dimensione contenutistica senza riuscire a darle alcun ordine), l’ipergiuridificazione della sfera sociale (il diritto invade con le sue categorie la realtà regolata soffocandola), il mutuo rifiuto  per cui le dinamiche sociali procedono per proprio conto, ignorando il sistema giuridico che diventa pletorico. La contrattazione collettiva nei paesi del nord Europa (o anche il modello di co-determinazione tedesco) diventa un  case study[5] di modelli garantisti di regolazione efficaci ma non invadenti, quella italiana degli anni ‘70 oggetto di particolare attenzione per coloro che interpretano radicalmente il modello teubneriano (visto che dell’esperienza dei consigli non sono i sindacati ma le coalizioni dei lavoratori i protagonisti); un esempio, forse, di un diritto che sa recepire le istanze dal basso senza snaturarle[6]. Più tardi lo stesso modello adattato viene utilizzato per difendere le potenzialità della governance sociale europea (in particolare le procedure dell’open method of coordination) espressione anche questa di contaminazione tra ordinamenti diversi e di pluralismo pragmatico[7] che mostra la possibile convivenza tra interventi di soft law e di  hard law, tra  meccanismi di scambio comunicativo di best practices basate sull’innovazione istituzionale, negoziati e interventi di tutela dei “diritti fondamentali” multilivello, che valorizza il ruolo della moral suasion sugli stati membri indotta da un mix tra aspetti normativi e cognitivi su cui si è molto esercitata la scuola neo-habermasiana della deliberative democracy[8]. Un’esperienza  oggi rilanciata, mi pare, anche nell’European social pillar che vorrebbe ampliare il capitolo sociale dell’Unione e cioè l’insieme delle norme inderogabili sovranazionali  ma al tempo stesso indurre gli stati a perseguire un sistema di protezioni più ampio (al di là delle competenze formali attribuite dai Trattati) sulla base delle indicazioni strategiche comuni offerte dall’Unione, in particolare sui fronti della digital economy, della sostenibilità ambientale e dell’inclusione sociale ( i tre pilastri del Recovery Plan e della condizionalità “ buona” dei progetti nazionali finanziati dal primo). 

 

3. Riassumendo, si può senz’altro affermare che nel “modello statutario” inteso come “idea regolativa”, al di là delle sue dinamiche più legate alle stagioni politiche dei decenni trascorsi e delle  “forzature  subite”   per via dei diversi rapporti di forza[9] è incastonata la gemma preziosa, per riprendere l’immagine della Arendt, della reciproca implicazione tra presupposti di tutela sostanziale di garanzia dei minimi e della dignità di base (anche in termini di libertà di espressione) dei partecipanti al gioco contrattuale, procedure aperte, e ragionevolmente attivabili, di contrattazione, ampia  esigibilità dei risultati negoziali. Il modello cerca di chiudere tutti questi lati senza il ricorrente pendolarismo tra una politica dei diritti ed una politica di affermazione tramite contratto, che da sempre connota il confronto sul diritto del lavoro. E’ valida ancora questa prospettiva che coniuga l’autoespressione delle istanze collettive, l’inclusività dei canali rappresentativi ed i minimi di protezione? Non ci sono presupposti sociologici esigenti che oggi dovrebbero essere ridefiniti in modo che renderli coerenti con le realtà produttive egemoni o in corso di affermazione e con le forme di vita contemporanee?  

Se il modello in sé mi pare ancora valido circa i fini ed il metodo, non è detto che sia ancora a lungo praticabile nei mezzi e negli strumenti, cambiando qualche virgola allo Statuto.  La maggioranza dei saggi del Volume accetta questa sfida, solo alcuni interventi appaiono meno disponibili ad una rivisitazione dell’impianto statutario come se non vi fosse un’implicazione vistosa, che ha tracce anche nelle formule adottate, tra la composizione di classe [10] dell’epoca, le modalità di controllo, gli schemi rappresentativi, la natura della professionalità protetta, le possibilità di comunicazione e socializzazione del pensiero nei luoghi produttivi e via dicendo. Ma a parte l’incidenza di questi aspetti l’insieme di garanzie, tutele e procedure statutarie è stata costruita attorno al lavoro subordinato ed alle sue caratteristiche storiche, ai suoi tratti essenziali (gerarchia, direzione aziendale dei processi produttivi, mancanza di libertà nell’esecuzione del lavoro). La dovuta riflessione sul lavoro su piattaforma, sul nuovo nesso con le tecnologie, sull’immaterialità delle prestazioni, sul nuovo spazio virtuale etc., cui pure molti saggi del Volume offrono importanti contributi, dovrebbe portarci ad immaginare finalmente un nuovo modo di essere produttivi, un nuovo rapporto tra tecnologie ed individuo, uno spazio inedito ed ancora indefinito per offrire il “proprio contributo” alla collettività ed alla “riproduzione sociale” (per dirla con Marx). Il nuovo Statuto non può essere riedificato ancora sulla base degli schemi della subordinazione per quanto resa più tollerante e tollerabile, ma deve aspirare ad una maggiore coerenza con quanto sta accadendo. Un recente Volume[11] ha provato ad elencare unitariamente le più importanti “rivoluzioni” degli ultimi decenni: “robotica, droni compresi, quantum computing, guida automatica dei veicoli, stampa 3D, Internet delle cose, tecnologia cloud, intelligenza artificiale, machine learning, realtà aumentata e virtuale, blockchain, nanotecnologie, nanomateriali, mappatura del genoma, space economy, neurobionica”. Non è plausibile che questo insieme di fenomeni non determini la necessità di abdicare a schemi di reclutamento della forza lavoro nei quali i margini di libertà del singolo non rappresentano un elemento significativo, anche se certamente si tratta di una “libertà relativa” perché vissuta all’interno di un sistema capitalistico come ci ricorda Vincenzo Bavaro[12]. Mi chiedo se davvero non abbia qualcosa da dirci la cosiddetta Great Resignation, cioè il fenomeno di massa in USA, ma di una certa consistenza anche in Europa e nel nostro paese, per cui dopo la pandemia si moltiplicano i casi di dimissioni volontarie dallo status di dipendente (35% in più nell’ultimo biennio in Italia). Si tratta di una crisi irreversibile della nozione di subordinazione, non solo per la sempre più ardua opera di qualificazione giuridica di attività che stanno al margine con il lavoro autonomo[13] ma, ci pare, per la mancanza di giustificazione morale e storica dell’utilizzazione del lavoro altrui in queste modalità posto che ormai i processi produttivi non mostrano la necessità di tenere sotto comando diretto e stretta disciplina chi vi partecipa. L’esodo dalla subordinazione, ove percorribile ricercando eventualmente nelle praterie di Internet possibilità di essere attivi con schemi meno asfissianti e soffocanti, sembrerebbe già praticata nonostante i rischi personali che derivano dal deficit di tutele oltre la cittadella sempre più ristretta della dipendenza. E’ su questo piano della “grande trasformazione” che gli studiosi in cooperazione con gli attori sociali dovrebbero cimentarsi: gli indubitabili casi di sottoprotezione e più accentuato sfruttamento che alcune applicazioni delle nuove tecnologie hanno comportato (tipicamente i riders) possono essere anche il frutto dei nostri crampi di immaginazione istituzionale, nella mancanza di individuazione di soluzioni regolative all’altezza dei fenomeni che si vorrebbe disciplinare. Ad esempio quali sono le tutele di cui avrebbe davvero bisogno la cosiddetta “classe creativa”, centrale nella “nuova morfologia sociale che si viene assestando”[14] e cerniera tra l’élite e la neo-plebe (dei perdenti della globalizzazione), per seguire lo scenario proposto da Paolo Perulli in un recente Volume?[15]     

    

4. Certamente sbaglierebbe il legislatore ad intervenire in modo invasivo, senza aver adeguatamente mappato la reale intelaiatura dei nuovi processi produttivi e le istanze delle soggettività collettive (anche delle, ancora isolate, esperienze cooperativistiche del mondo digitale), così come sarebbe errato dismettere in cambio di poco e nulla alcune tutele statutarie perché datate. Oggi per fortuna interventi così delicati possono appoggiarsi anche su quanto emerge dal dibattito europeo e da soluzioni non meramente insulari, come alla fine era quello della legge del 1970 (per quanto i protagonisti fossero molto ferrati sul piano di un’analisi comparatistica), che in genere sono precedute da un lungo ed articolato ascolto delle parti collettive, degli stati e dei parlamenti e sono anticipate da studi ed analisi a largo raggio dei migliori enti di ricerca continentali. L’Europa, nel quadro di un rilancio delle sue policies sociali[16] ci offre con la proposta della Commissione europea del 9.12.2021 di direttiva sul lavoro tramite piattaforma un bell’esempio di processualità razionale che guarda al futuro[17]. Non si mira a “colonizzare” le nuove realtà produttive attraverso l’imposizione generalizzata di principi e criteri propri di altre fasi storiche di sviluppo, ma si cerca innanzitutto di disciplinare i più evidenti e gravi casi di sottoprotezione. Non mi pare vi sia una propensione generalizzata sovranazionale all’inquadramento sotto le vetuste e logore griglie del lavoro subordinato di ogni operatore tramite piattaforma, ma di un favor (in sé accettabile) per una estensione equitativa della nozione di dipendenza a situazioni (soprattutto nella logistica) che si avvicinano, sotto vari profili, ad attività tradizionalmente disciplinate attraverso tale nozione. Per il resto  si introdurrebbero, però, regole piuttosto esigenti in materia di trasparenza e accountability delle procedure decisionali automatiche adottate per via algoritmica aprendo i santuari digitali a meccanismi di verifica e controllo ed anche di contestazione della parti interessate (et audietur altera pars), con possibili importanti ricadute sul piano della tutela di alcuni diritti non solo alla privacy ma anche ad una correttezza e buona fede nella gestione del rapporto (persino in relazione alla sua durata). Finisce l’era dell’insindacabilità del “magico” mondo di Internet[18]: chi vi opera - traendo profitto dalle operazioni che mette in moto - ha delle responsabilità sociali e lavorative.  Al tempo stesso la proposta apre al negoziato sindacale ed al mondo degli autonomi  (attraverso la correlata iniziativa sulla contrattazione collettiva per chi non è subordinato) e, soprattutto con  le norme sulla trasparenza, si comincia a scrivere uno Statuto di diritti che spettano al lavoro, in generale e oltre la subordinazione, non solo a quello assimilabile alle attività tradizionali, che potrebbe così accogliere gli sviluppi, le opportunità e le sfide offerte dall’intelligenza artificiale, volendo riprendere il titolo dell’ultimo volume di Luciano Floridi [19]. Certo c’è ancora molto da fare ma il tema della “libertà di lavorare” di cui all’art. 15 della Carta di Nizza[20] cioè di poter scegliere carichi, tempi e modi di attività (oggi più agibile alla luce delle innovazioni tecnologiche), senza per questo esser privato delle tutele fondamentali, sembra entrato nell’agenda sovranazionale e, crediamo, farà molta strada.

Per concludere: che qualcuno nella Commissione abbia letto Gino Giugni e questo bel libro di cui abbiamo sin qui parlato?           

 

 
[1] Il Volume raccoglie i testi del Convegno tenutosi il 4 e 5 dicembre del 2020. L’Introduzione è affidata al curatore P. Passaniti, seguita da un testo di Maurizio Degl’Innocenti, Premessa. La dignità del lavoro, ed offre gli interventi di R. Voza, L. Gaeta, I. Stolzi, G. Cazzetta, S. Laforgia, U. Romagnoli, S. Camusso, G. Benvenuto, V. Bavaro, A. Allamprese, A. Del Re.

[2] Cfr. la complessa ed impegnata introduzione di Silvana Sciarra Cronologia di un pensiero riformatore  al Volume che raccoglie vari saggi di G. Giugni Idee per il lavoro, Laterza, Roma- Bari, 2020.

[3] Cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino, Bologna, 1081, soprattutto nell’ultima  parte del Volume.

[4] Cfr. G. Teubner (a cura di), Dilemmas onf law in the welfare state, De Groyter, Berlin, 1986;  G. Teubner (a cura di), Juridification in social sferes. A compative Analysis  in the Areas of Labour, Corporate, Antitrust and Social Welfare law, De Groyter, Berlin, 1987 che ospita due saggi, di G. Giugni e di S. Simitis sulla “giuridificazione dei rapporti di lavoro” tradotti e  pubblicati sul Giornale del lavoro e delle relazioni industriali (rispettivamente 1986, pp.317  ss. e 1986 pp. 215 ss.) come ricorda S. Sciarra nella Introduzione prima citata. Per un’applicazione del modello teubneriano alle relazioni industriali v. R. Rogowski, T. Wilthagen (a cura di), Reflexive labour law. Studies in industrial relations and employment regulation, Springer Verlag 1994.

[5] Cfr. l’intervento di G. Teubner, Democrazia industriale per legge? Funzioni sociali della legge nelle innovazioni istituzionali: il caso della Mitbestimmung, nel notissimo Volume (a cura di G. Vardaro), Diritto del lavoro e corporativismo, Franco Angeli, Milano 1988.

[6] Cfr. (a cura di M. Bletcher, G. Bronzini, R. Ciccarelli, J. Hendry, C. Joerges), Governance, società civile e movimenti sociali. Rivendicare il comune, Ediesse, Roma, 2009; G. Bronzini, Welfare state e autoregolazione, in AAVV Ai confini dello stato sociale, Manifesto-libri, Roma, 1995.

[7] Cfr., per il dibattito italiano, i due fondamentali Volumi (a cura di M. Barbera) Nuove forme di regolazione: il metodo aperto di coordinamento delle politiche sociali, Giuffrè, Milano, 1986 e a cura di E. Ales, M. Barbera, F. Guarriello, Lavoro, welfare e democrazia deliberativa, Giuffrè, Milano,2010.

[8] Per una ricostruzione del complesso dibattito europeo cfr. G. Bronzini, The social dilemma of european integration, in Law Critique, 2009  pp. 259 ss.

[9] Su alcuni eccessi, piuttosto innegabili, dell’implementazione giudiziaria dello Statuto cfr. A. Del Re, Impresa liquida e rigidità del lavoro. Una convivenza impossibile?, nel Volume di cui si parla, pp. 185 ss.  

[10] Utilizzo liberamente ed al di là della dogmatica di questa scuola post-marxista tale nozione dell’operaismo italiano di Raniero Panzieri (altro socialista “eretico”)  e Mario  Tronti per cui, nella composizione di classe, si esprime il punto di equilibrio dei rapporto di potere tra chi lavora e chi comanda il lavoro anche  attraverso i sistemi produttivi adottati che appaiono condensare le dinamiche conflittuali e quelle di trasformazione  tecnica come risposta alle prime.

[11] M. Magnani, Making the global economy work for everyone, Palgrave Macmillan, Londra, 2022. Cfr. la recensione al detto Volume di  F. De Bortoli, La transizione interrotta, Il Corriere della sera- economia, 28.2.2022

[12] Cfr. V. Bavaro, Lavoro subordinato e lavoro autonomo nell’era digitale: il problema della libertà del lavoro nel Volume qui recensito pp. 143 ss.

[13] Sul tema A. Perulli, Oltre la subordinazione. La nuova tendenza espansiva del diritto del lavoro, Torino Giappichelli, 2021; (a cura di A. Perulli), Lavoro autonomo e capitalismo delle piattaforme, Padova Wolters Kluwer,  2018.

[14] B. Caruso, A. Alaimo, Recensione al Volume di A. Perulli, Oltre la subordinazione, in RIDL n. 4/2021, p.270  ove si radicalizza  criticamente il tema delle tutele del lavoro autonomo nel prospettare l’esigenza  non solo di una protezione di una forza-lavoro esclusa irrazionalmente dal pianeta delle protezioni, ma quella più radicale di un insieme di regole innovative capaci di accompagnare  “formazioni sociali oltre il capitalismo”, quindi al di là della tradizionale contrapposizione tra datori di lavoro e dipendenti o collaboratori autonomi.    

[15] P. Perulli, Nel 2050. Passaggio al nuovo mondo, Il Mulino, Bologna, 2021.

[16] S. Giubboni, La proposta di direttiva della Commissione europea sul lavoro tramite piattaforma digitale, in Menabò di Etica ed economia, rinvenibile su Internet.

[17] Per un’analisi più accurata cfr. G. Bronzini, La proposta della Commissione europea sul lavoro tramite piattaforma, in corso di pubblicazione sulla Rivista Lavoro, Diritti, Europa.

[18] Su questo aspetto cfr. il saggio di A. Allamprese nel Volume Tempi, luoghi di lavoro e potere di controllo datoriale nella gig economy pp. 159 ss. che ritiene che una serie di tutele dei lavoratori siano già desumibili dal Regolamento  n. 679/2016 , GDPR.

[19] L. Floridi, Etica dell’intelligenza artificiale. Sviluppi, opportunità, sfide, Milano, Raffaello Cortina, 2022.

[20] La versione inglese del diritto “Everyone has the right to engage in work and to pursue a freely chosen or accepted occupation” è certamente più espressiva. 

[*]

Relazione tenuta a Firenze il 14.3.2022 nel corso della presentazione, a cura della Fondazione Filippo Turati, del Volume (a cura di P. Passaniti) La dignità del lavoro. Nel cinquantenario dello Statuto, Franco Angeli, Milano, 2021.

09/04/2022
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