1. L’art. 26 del disegno di legge recante delega al Governo (tra l’altro) per la riforma complessiva dell’Ordinamento giudiziario prevede nello specifico la riforma del sistema di funzionamento del consiglio giudiziario, delle valutazioni di professionalità e della progressione economica dei magistrati e recita:
«1. Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 23, il decreto o i decreti legislativi recanti modifiche al sistema di funzionamento dei consigli giudiziari e delle va-lutazioni di professionalità sono adottati nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi:
- introdurre la facoltà per i componenti avvocati e professori universitari di assistere alle discussioni e deliberazioni relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 15, lettera b), del decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25;
- prevedere che la relazione di cui all’articolo 11, comma 4, lettera b) del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160 contenga esclusivamente i dati conoscitivi sull’attività giudiziaria svolta dal magistrato, indispensabili alla valutazione di professionalità, e che sia redatta secondo le modalità e i criteri definiti dal Consiglio superiore della magistratura;
- semplificare la procedura di valutazione di professionalità con esito positivo, prevedendo:
- che, quando i capi degli uffici ritengano di confermare il contenuto della relazione del magistrato di cui all’articolo 11, comma 4, lettera b) del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, il rapporto esprima tale valutazione di conferma, senza ulteriore motivazione, e sia limitato alla espressione del giudizio positivo con riferimento ai requisiti di indipendenza, imparzialità ed equilibrio e ai parametri della capacità, laboriosità, diligenza e impegno;
- che il consiglio giudiziario, quando ritenga di recepire il rapporto dei capi degli uffici contenente il giudizio positivo, formula il parere di cui all’articolo 11, comma 6, del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160 richiamando il suddetto rapporto, senza ulteriore motivazione;
- che il Consiglio superiore della magistratura, quando ritenga di recepire il parere del consiglio giudiziario contenente la valutazione positiva, esprime il giudizio di cui all’articolo 11, comma 15, del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160 con provvedimento che richiama il suddetto parere, senza ulteriore motivazione;
- che il giudizio espresso dal Consiglio superiore della magistratura di cui al precedente numero 3), sia basato, oltre che sul parere del consiglio giudiziario, sulle statistiche comparate, sui provvedimenti estratti a campione e su quelli spontaneamente prodotti dall’interessato;
- prevedere che il Consiglio superiore della magistratura, nella valutazione di professionalità, laddove emergano situazioni concrete e oggettive che inducano a dubitare del requisito dell’equilibrio, possa disporre approfondimenti istruttori, anche avvalendosi del contributo di psicologi esperti di comprovata professionalità, assicurando in ogni caso adeguate garanzie all’interessato».
Nel complesso, può dirsi che la riforma mira da un lato a semplificare il procedimento di valutazione di professionalità del magistrato (come si evince dalla lettera c), implementando dall’altro le fonti di conoscenza e aggiungendo significativamente la possibilità di un esame psicologico ai fini dell’accertamento del requisito dell’equilibrio. Ma non è questo l’oggetto di queste note.
2. Il primo decennio di applicazione del “nuovo” Ordinamento giudiziario ha messo in luce la necessità di porre mano al procedimento di valutazione per asciugarlo (nei limiti del possibile) dalle superfetazioni burocratiche, a favore dell’acquisizione di dati significativi sull’attività giudiziaria del magistrato.
L’art. 26 del ddl si apre con l’introduzione della facoltà per i cd. componenti laici dei consigli giudiziari (avvocati e professori universitari) di assistere alle discussioni e deliberazioni relative alle valutazioni di professionalità dei magistrati.
Va dunque immediatamente sottolineato che questa disposizione non attribuisce ai cd. membri laici il diritto di voto, limitandosi a prevedere che essi possano assistere alla discussione e deliberazione. È finanche esclusa la loro facoltà di partecipare attivamente al dibattito, fermo restando che, con questa modifica, il legislatore intenderebbe assicurare un “diritto di tribuna” agli avvocati e ai professori universitari componenti dei consigli giudiziari.
Verrebbe da dire nihil novi sub sole, se è vero che alcuni consigli giudiziari, mediante norma regolamentare, già prevedono questa facoltà (si tratta dei consigli giudiziari dei distretti di Milano, Brescia, Bari, Venezia, Trieste, L’Aquila, Campobasso e Salerno).
Dunque, anche in questo caso, il legislatore si limiterebbe a recepire ciò che in alcuni distretti della penisola già esiste, con risultati certamente non negativi, almeno stando a quanto afferma chi in quei consigli opera.
3. Sappiamo bene che la valutazione di professionalità dei magistrati è un tema nevralgico per le sue implicazioni e le sue ricadute, onde ogni operazione che favorisca la trasparenza e l’interlocuzione tra i componenti dell’autogoverno non potrebbe che essere salutata con favore.
Non si può disconoscere che la riforma dell’Ordinamento giudiziario del 2006, come modificata nel 2007 dalla legge 30-7-2007 n. 111 (cd. legge Mastella), nella sua applicazione concreta, non ha corrisposto alle aspettative di cambiamento suscitate da quell’intervento legislativo.
Nonostante la periodicità ravvicinata delle valutazioni (ogni quattro anni), la campionatura dei provvedimenti e dei verbali delle udienze, l’analisi di una sequela di parametri e di indicatori, la possibilità per i consigli dell’Ordine degli avvocati di segnalare fatti specifici incidenti sulla professionalità, i risultati di questa attività sono pressoché analoghi a quelli delle valutazioni operate con il vecchio sistema.
Il cambiamento si è – sostanzialmente – tradotto nell’adozione di una nuova modulistica estremamente dettagliata che, nelle intenzioni, aveva l’ambizione di fotografare più da vicino l’operato del magistrato, finendo però di fatto per scadere in un inutile appesantimento burocratico.
Infatti, gli estensori dei rapporti e dei pareri devono confrontarsi con un rosario di indicatori, astrattamente idonei a tratteggiare l’esistenza (o la carenza) dei parametri indicati dalla legge: capacità, laboriosità, diligenza e impegno. Nella pratica – anche oggi – si tratta di giudizi aprioristici (più o meno) corroborati dai prospetti statistici e, nella migliore delle ipotesi, dalla lettura dei provvedimenti campionati o prodotti dall’interessato.
Dal 2008 a oggi la quasi totalità delle valutazioni di professionalità è stata di segno positivo: come avveniva sotto la vigenza del vecchio ordinamento, i pareri non positivi o negativi sono una percentuale insignificante.
Se dovessimo prestare fede a questi dati dovremmo concludere che va tutto bene e che – evidentemente – l’intero corpo dei magistrati è meritevole di valutazioni positive, quando non anche lusinghiere (peraltro, fortunatamente, la grande maggioranza dei magistrati merita davvero valutazioni positive, sotto il profilo della capacità, della diligenza e della laboriosità).
Nondimeno, onestà intellettuale impone di riconoscere che, sia pure limitatamente a una minoranza di casi, questo giudizio non è fedele, in quanto neppure l’attuale sistema è in grado di fare emergere opacità o criticità dei magistrati in valutazione.
Del resto, l’esame dei provvedimenti a campione ben di rado può dare luogo a giudizi negativi. Ciò (almeno) per due ragioni: da un lato per la difficoltà di valutare l’attività del magistrato nell’interpretazione delle norme di diritto ovvero nella valutazione dei fatti e delle prove senza sconfinare in una sorta di sindacato sul giudizio di merito, e, dall’altro, per la difficoltà di valutare il modus operandi del magistrato sulla base di provvedimenti che, il più delle volte, sono (giustamente) routinari o scarsamente significativi del livello di professionalità raggiunto.
Sul versante dei rapporti dei dirigenti, poi, per quanti sforzi siano stati fatti per abbandonare la vecchia abitudine di infiorare i pareri con termini e aggettivazioni superlative o roboanti, spesso disancorati da elementi oggettivi o dati concreti (e, in quanto tali, non controllabili o verificabili), è tutt’altro che infrequente la lettura di profili ridondanti di apprezzamenti lusinghieri, non sempre motivati.
Dunque, su questo fronte, nonostante lodevoli eccezioni, si registra una sostanziale continuità col passato: ancora troppi dirigenti redigono i loro rapporti con la preoccupazione di non deludere le aspettative del magistrato in valutazione, anche a costo di tacere circostanze importanti ovvero edulcorando la realtà.
4. Un valido antidoto a questo modus operandi potrebbe venire dalla emersione, in seno al consiglio giudiziario, di elementi di fatto di carattere oggettivo, in grado di mettere tale organo nella condizione di compiere attività istruttoria sentendo persone informate o acquisendo ulteriore documentazione.
L’aspetto di maggiore insoddisfazione dell’attuale sistema di valutazione è dato dal fatto che raramente è in grado di intercettare le condotte sintomatiche di mancanza di equilibrio del magistrato ovvero gravemente pregiudizievoli per il corretto esercizio delle funzioni giudiziarie.
Tenendo conto dei fondamenti della legittimità della giurisdizione, ricordiamo qui le acute osservazioni di Luigi Ferrajoli, secondo il quale: «Se è vero che la legittimazione della giurisdizione e il valore politico e intellettuale della professione del giudice risiedono nel corretto accertamento del vero e nella tutela delle libertà fondamentali, allora è questa duplice funzione garantista che impone ai giudici e ai pubblici ministeri la consapevolezza della relatività dell’imperfezione e della loro stessa legittimazione: per il carattere comunque opinabile della verità giuridica e probabilistico della verità fattuale, che deve suggerire tolleranza per le controverse ragioni, attenzione e controllo su tutte le ipotesi e contro-ipotesi in conflitto, imparzialità rispetto alla contesa, prudenza, equilibrio, ponderatezza e, soprattutto, l’assunzione del dubbio come abito professionale e come stile intellettuale. Sia i giudici che i pubblici ministeri – questa è un’altra essenziale regola deontologica della loro professione – dovrebbero essere consapevoli che l’accertamento probatorio è sempre frutto di induzioni, e mai di deduzioni, e che perciò nel loro lavoro è sempre possibile l’errore. Al contrario, è la sicumera del giudice che genera arbitri e soprusi e, al tempo stesso, sfiducia nella sua funzione».
Orbene, con riferimento a questi profili l’attuale sistema di valutazione non ha consentito di fare significativi passi avanti.
Soprattutto, non si preoccupa in modo sufficiente di ricercare elementi in grado di suffragare se il magistrato in valutazione abbia osservato la «prima regola deontologica che deve presiedere all’esercizio della giurisdizione» ossia «il rispetto nei confronti delle parti in causa a cominciare, nel processo penale, dalla persona dell’imputato»[3]. Certamente, se i rapporti dei dirigenti fossero meno reticenti e se i consigli dell’Ordine degli avvocati approfittassero della possibilità loro offerta di segnalare situazioni concrete e oggettive di esercizio non indipendente della funzione ovvero comportamenti che denotino evidente mancanza di equilibrio o di preparazione giuridica (art. 11, comma 4, lett. f, decreto legislativo n. 160/2006) si potrebbero conseguire notevoli miglioramenti anche su questo versante.
Occorre però riconoscere che sinora ciò non è avvenuto e che il rispetto di questa prima regola deontologica non è stato sufficientemente scandagliato.
Già nella prefazione al vademecum del 2007 sui consigli giudiziari del Consiglio nazionale forense, il presidente pro-tempore, dopo aver sottolineato l’importanza della riforma, scriveva: «si tratta, innanzitutto, di una grande innovazione di natura simbolica, perché implica la trasparenza delle attività di gestione degli uffici e di valutazione dei magistrati, ampliando, quindi, a una categoria professionale che condivide con quella dei magistrati la funzione essenziale della giustizia, la conoscenza e la valutazione di una serie di attività che, altrimenti, avrebbero potuto presentare una nota per così dire chiusa in se stessa e, quindi, corporativa. Ma si tratta di una innovazione di grande momento anche dal punto di vista dell’efficienza della macchina della giustizia, poiché finalmente, in modo formale e strutturale, si può esprimere la voce dell’avvocatura, e dare, quindi, un fattivo contributo all’intero sistema»
Insomma, dopo oltre un decennio dall’entrata in vigore del “nuovo” ordinamento giudiziario, non sarebbe giunto il momento di abbandonare ogni residua resistenza o diffidenza per consentire anche ai cd membri laici di tutti i consigli giudiziari di assistere alle valutazioni di professionalità dei magistrati, così da poter dissipare ogni cono d’ombra e assicurare l’interesse di tutti gli operatori di giustizia – e in primis degli stessi magistrati – ad agire nella massima correttezza e trasparenza anche nel momento valutativo, soprattutto in ordine al rispetto della “prima regola deontologica” dell’imparzialità, dell’indipendenza e dell’equilibrio del magistrato?
Pur trattandosi di un piccolo segnale, l’assistenza dei membri laici potrebbe favorire una maggiore ponderazione da parte dei componenti deliberanti, oltre a una valutazione più incisiva , che non si limiti – come spesso è accaduto – ad assicurare sbrigativamente che non vi è «nulla da rilevare», ma giunga a tale conclusione dopo aver esaminato il quotidiano agire del magistrato, sia quando è alle prese con processi importanti (sui quali peraltro già sussiste un controllo mass-mediatico), sia – e soprattutto – quando è occupato dalle vicende umane ordinarie, lontano dai riflettori dei media.
5. Dunque non vi è ragione oggettiva per non aprire le porte della valutazione di professionalità anche agli avvocati e al mondo accademico, in quei distretti ove quelle porte ancora non si sono dischiuse.
Oltretutto, si ripete, non si tratterebbe di un passaggio “traumatico” giacché non verrebbe riconosciuto il diritto di voto ai “membri laici” i quali si limiterebbero ad assistere alla discussione senza poter influenzare la deliberazione.
Nondimeno si tratterebbe di un segnale molto importante per il suo significato simbolico.
Dimostrerebbe che la magistratura non teme di discutere delle proprie valutazioni di professionalità alla presenza del mondo forense e del mondo accademico, che non rifugge la pubblicità (ancorché limitata) in quel peculiare momento, nella consapevolezza che l’importanza e la delicatezza delle funzioni giurisdizionali esigono, in un ordinamento democratico, la massima trasparenza nonché la mutua fiducia e collaborazione tra tutti i componenti dell’autogoverno, così da poter rassicurare l’opinione pubblica (e, in definitiva, quel popolo in nome del quale la magistratura opera) circa la serietà e correttezza di quelle valutazioni.
Oltretutto, tale (limitato) coinvolgimento del mondo forense e accademico nelle valutazioni dei magistrati, potrebbe rivelarsi utile per fugare residue diffidenze o ritrosie reciproche, inducendo i Consigli dell’Ordine a sfruttare meglio gli spazi di interlocuzione (già) previsti dall’ordinamento giudiziario in questa materia (ut supra).
È dunque importante che la magistratura non si arrocchi nella sua torre e non dia l’impressione di rifuggire la trasparenza quando si tratta di decidere sulle sue valutazioni di professionalità.
Non solo. È la stessa magistratura – in tutte le sue componenti – ad auspicare una valutazione di professionalità il più possibile aderente alla realtà dei fatti. Allora non hanno ragion d’essere le preoccupazioni o le reazioni di pregiudizievole ostilità manifestate in questi giorni dai vari gruppi associativi (nessuno escluso) che paiono voler riportare indietro di qualche lustro le lancette dell’orologio, incuranti del fatto che il diritto di tribuna, ove già esiste, alla prova dei fatti, se non ha dato buoni frutti, certamente non ha avuto alcuna delle controindicazioni paventate.
Né la paura di degenerazioni o strumentalizzazioni potrebbe essere un buon argomento per opporsi a questo cambiamento.
L’ordinamento sarebbe infatti attrezzato a fronteggiare questo (remoto) pericolo senza soverchia difficoltà, atteso che i membri laici – come detto – non potrebbero comunque interferire sulla discussione e sulla decisione finale.
6. Ma non basta. Anche relativamente ai pareri per il conferimento di uffici direttivi o semidirettivi, l’esperienza di questi anni porta ad affermare che i risultati raggiunti non sono soddisfacenti. Inoltre, come sappiamo, con l’abbandono del criterio dell’anzianità[6] il parere ha assunto una importanza ancora maggiore nella scelta del candidato da nominare tra vari concorrenti parimenti legittimati.
Non sempre i requisiti del prestigio e delle attitudini funzionali (ovvero la capacità di organizzare, programmare e gestire le risorse) sono apprezzati sulla base di dati concreti, ovvero sulla base di provate e significative esperienze o caratteristiche personali dimostrabili. Talvolta i pareri non intercettano il requisito del prestigio del magistrato, inteso nella sua accezione funzionale, ossia come riconosciuta autorevolezza nell’esercizio delle funzioni da parte dei colleghi, del Foro e del personale amministrativo; al contempo è ancora insufficiente l’attenzione per la capacità dell’aspirante di saper valorizzare le attitudini dei magistrati e dei funzionari con i quali opera e, ancor più, di saperli motivare e coinvolgere nell’attuazione delle previsioni tabellari.
Dunque, anche a queste valutazioni il legislatore dovrebbe estendere il diritto di tribuna.
Stesse conclusioni debbono trarsi con riferimento alla conferma dei magistrati che svolgono funzioni direttive o semidirettive, allo scadere del quadriennio. Pure in questo ambito i pareri negativi contano poche decine: tutti i dirigenti (o i semidirettivi) meritavano davvero di essere confermati?
A ben vedere, neppure l’interpello del consiglio dell’Ordine degli avvocati ha contribuito ad arricchire il momento valutativo di dati concreti o di elementi specifici: infatti i consigli dell’Ordine – di regola – si sono limitati a esprimere un laconico parere favorevole alla riconferma ovvero a comunicare la mancanza di ragioni ostative alla conferma[7].
Insomma, anche per questi importanti snodi valutativi sarebbe utile il coinvolgimento del mondo forense, nell’ottica di una leale collaborazione con gli organi dell’autogoverno, aliena da timori o reticenze.
In definitiva, la timida riforma prospettata nel disegno di legge delega del governo, lungi dal meritare l’alzata di scudi che si è (incomprensibilmente) registrata nei giorni scorsi da parte della magistratura associata, dovrebbe rappresentare l’occasione per rilanciare la necessità di una svolta nell’autogoverno in senso favorevole alle sollecitazioni che provengono dalla società civile, dall’accademia e dal mondo fo-rense, nella più intransigente salvaguardia dell’autonomia e indipendenza della magistratura, quale tratto caratteristico del nostro ordinamento democratico.
Ma, come sappiamo, l’autonomia e l’indipendenza della magistratura non si difendono nel chiuso delle nostre stanze, in preda a ingiustificati timori o anacronistiche gelosie, bensì con la trasparenza e la rigorosa intellegibilità delle nostre decisioni, anche – e soprattutto – quando queste abbiano a oggetto la valutazione di professionalità di quei magistrati legittimati dalla Costituzione ad amministrare giustizia in nome del popolo italiano.
[1] Né possono ritenersi superate le qualità, di matrice illuministica, del buon giudice enumerate da Hobbes. Pertanto, anche oggi non possono non ritenersi qualità fondamentali del buon giudice: 1) un giusto intendimento della legge principale di natura chiamata equità (…); 2) il disprezzo di inutili ricchezze e promozioni; 3) essere capaci, nel giudicare di svestirsi di ogni timore, stizza, odio, amore e compassione; 4) paziente e diligente attenzione nell’ascoltare e memoria per ritenere, ordinare e applicare ciò che si è ascoltato (T. Hobbes, Leviatano, Bompiani, Milano, 2001, XXVI, § 28, p. 459).
Ovvero, parafrasando Lucchini, nessuno può mostrarsi indifferente di fronte a un giudice che manifesta il grave vizio dell’abitudine, la conseguente fossilizzazione intellettuale nonché l’indifferenza e la «perniciosa disinvoltura nel decidere». Così L. Lucchini (Elementi di procedura Penale, Barbera, Firenze, 1895) il quale osservava altresì: «L’insistente e continuata ripetizione degli atti produce un altro fenomeno: l’indifferenza per gli atti medesimi. Così avviene che nel magistrato ufficiale, perennemente applicato a giudicare e, come deve essere il più spesso, a condannare, si forma un costume, un abito, una naturale disposizione o propensione a riconoscere un colpevole nell’imputato e ad essere facile nell’ammettere la prova della reità» (op. cit., 180, ivi pp. 192-193).
[2] L. Ferrajoli, Giurisdizione e consenso, in Questione Giustizia, 2009, fasc. IV.
[3] Ferrajoli, Giurisdizione cit., p. 19, che così prosegue: «Per due ragioni. In primo luogo per quella asimmetria che sempre deve sussistere tra civiltà del diritto e violenza criminale e nella quale risiede la principale forza della prima quale fattore di delegittimazione e di isolamento della seconda. In secondo luogo perché il processo conservi il suo tendenziale carattere “cognitivo” o, come scrisse Beccaria, “informativo”, e non degeneri in “processo offensivo” ove il giudice diviene “nemico del reo” e non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce e di far torto a quella infallibilità che l’uomo s’arroga in tutte le cose” [Beccaria, Dei Delitti e delle pene, XVII, p. 46]. Il giudice non deve perciò inquisire l’anima dell’imputato, ma solo pronunciarsi sulla verità dei fatti a lui contestati. Anche perché soltanto i fatti, e non anche la moralità o il carattere o altri aspetti della personalità del reo sono passibili di prova e confutazione empirica e, conseguentemente di giudizio. Sotto questo aspetto il modello garantista condivide con l’etica cristiana la massima nolite iudicare, almeno se per giudicare si intende il giudizio su “quel che si è”, cioè la valutazione dell’identità immorale o malvagia del soggetto, e non l’accertamento probatorio di “quel che si è fatto” e la sua qualificazione giuridica come reato; con in più una specifica connotazione di tipo laico e liberale che all’insindacabilità giuridica e morale delle coscienze proviene proprio dal principio di stretta legalità: l’uguale dignità delle persone riconosciuta ai rei come ai non rei, il rispetto dovuto anche alla loro identità, nonché il diritto di ciascuno di essere come è».
[4] G. Alpa, p. 8 della prefazione al Vademecum sui consigli giudiziari del Consiglio nazionale forense.
[5] Come prevede il capo III della circolare sulla valutazione di professionalità nel caso in cui sussistano tali condizioni.
[6] Trasformato da criterio di valutazione a criterio di legittimazione.
[7] Già sulla base della risoluzione Csm del 24 luglio 2008, i consigli giudiziari invitano contestualmente il presidente del consiglio dell’Ordine degli avvocati, nel cui circondario è compreso l’ufficio nel quale presta servizio il magistrato da confermare, a far pervenire, entro trenta giorni, osservazioni relative alle disfunzioni organizzative rilevate nel quadriennio, purché formalmente e tempestivamente segnalate al magistrato medesimo ai fini della loro eliminazione. Per gli incarichi direttivi e semidirettivi in uffici con competenza distrettuale l’invito è rivolto al presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati del capoluogo del distretto.