Un film importante come Dogman si presta a essere letto su diversi livelli. Quello socio-culturale è il più diretto. La narrazione ci porta in una orribile periferia romana, ma quello messo in scena potrebbe essere il contesto di una qualunque città del mondo. Il set – ahimè – è reale. Si tratta di un luogo della costa campana nei pressi di Castelvolturno, spettro residuo di uno di quei progetti faraonici di quartieri residenziali, che in Italia finiscono abbandonati a metà per essere poi dominati dalla criminalità. Solo brutture, degrado urbanistico, case e piedi affondati nel fango, ambienti sordidi e violenza. Tanta violenza, tanto fisica quanto morale. Ma il regista Matteo Garrone non ne fa bella mostra, non la espone in vetrina per attrarre sguardi e curiosità morbosi. La tiene per lo più sullo sfondo di un rapporto psicologico tra il toelettatore di cani, il povero cristo Marcello (Marcello Fonte, Palma d'oro all'ultimo Festival di Cannes) e il pericoloso bullo cocainomane Simone (Edoardo Pesce), tra quest’ultimo e l’intero quartiere suburbano, in cui spadroneggia, senza che alcuno trovi il coraggio di ribellarsi alle sue prevaricazioni, né di rivolgersi alla polizia. Lo Stato lì non c’è. Compare solo pochi minuti con le divise dei poliziotti, che non riescono a convincere Marcello, né alcun altro, che ci si può affidare a qualcuno che non sia il proprio aguzzino, che oltre quella miseria morale e materiale può esservi una vita diversa.
Garrone ci indica il punto più basso del “degrado umano”, quello più lontano da “estetica” ed “etica”, per dire che dove non vive l’una non può esservi l’altra.
Poi, a dispetto del degrado umano, c’è l’uomo, con i suoi mille insondabili misteri della mente e del cuore, il rapporto tenerissimo del dogman Marcello con la sua bambina (la piccola Alida Baldari Calabria) e con i cani di cui si prende cura. E con l’uomo c’è il bisogno di sottrarsi alle angherie, di ritrovare dignità e libertà, che in quel mondo sono perdute ancor prima di venire al mondo. C’è la sete di riscatto, sia pure malamente inteso come riconquista del rispetto degli altri più che di sé stesso. E qui, come spesso accade nella storia dell’uomo, il Bene e il Male finiscono per mescolarsi, per perdere a tratti i propri confini... E il giudizio, a quel punto, si fa difficile da formulare.
Della giustizia umana, che pure fu protagonista della vicenda del Canaro − da cui il film è liberamente tratto − non c’è traccia. Eppure mai come in questo racconto essa è inconsciamente evocata come l’unica possibilità dell’uomo per ritrovare la propria umanità.