Sandra, la protagonista dell’ultimo film dei fratelli Dardenne, Due giorni e una notte, ha un marito, due figli, un mutuo da pagare e un lavoro che sta per perdere. A casa da qualche tempo per una brutta depressione, rischia di non poter riavere il suo posto nell’azienda di pannelli solari in cui lavora. I compagni hanno imparato a organizzare il lavoro diversamente e il titolare, su suggerimento del caporeparto, ha proposto a tutti 1000 euro di bonus e il licenziamento di Sandra.
Sandra ha un sabato/domenica di tempo per convincere compagne/i a non cedere al ricatto, a rinunciare ai 1000 euro per permettere a lei di tornare a lavorare. Due giorni e una notte per incontrare tutti e parlare con loro uno a uno, prima della nuova votazione concessa dal titolare per il lunedì mattina. Quello dei Dardenne è un film a tema, tutto è scritto per far riflettere, per far capire quanta violenza c’è nella normalità di una decisione d’azienda. Ogni personaggio interpreta un frammento di società, incarna un modo di vedere, dice qualcosa del pezzo di mondo che si porta con sé. Tutti, a partire dal marito di Sandra, Manu, che è quello che resta del mito di un male breadwinner, silenzioso, solidale, incoraggiante ma anche impotente rispetto a quello che sta succedendo a Sandra, in azienda e dentro di lei. Troppe lacrime, troppi calmanti.
Sandra accetta di fare il giro. Fra mille esitazioni bussa alle porte degli altri operai come lei. Sola, attraversa lo spazio con i mezzi pubblici o nella macchina del marito, continuando a rispondere e a non rispondere all’amica Juliette, che con mille telefonate la sprona, la convince a provarci. Sono campanelli diversi quelli a cui si avvicina, soglie di abitazioni oltre le quali incontra storie tutte diverse e tutte uguali. Molte solitudini, molti guai: doppi lavori, spese da sostenere, debiti, gli stessi debiti per chi tira a campare e chi ristruttura una grande casa. Sul fatto che l’essere indebitati corrisponda a una precisa costruzione della soggettività è stato detto molto negli ultimi anni. Elettra Stimilli nel suo Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo (Quodlibet, Macerata 2011), mostra bene lo stretto legame fra economia, gestione della vita e “governo dei viventi”.
Il debito è “una tecnica privilegiata attraverso cui il soggetto, come tale, si costituisce, dando forma alla sua vita e rendendosi allo stesso tempo disponibile per una modalità di assoggettamento che non lo aggredisca all’esterno ma miri piuttosto a coincidere capillarmente con essa” (Stimilli 2011, p. 117). I “no” che Sandra riceve si iscrivono in questa naturalizzazione del debito come norma e normalità. Avere delle spese da sostenere, figli all’università, case da restaurare, mobili e mutui da pagare, è una spiegazione più che sufficiente per l’indisponibilità a rinunciare ai 1000 euro. Quello che i Dardenne mostrano con insistenza è che Sandra, non può contare su nessuna mediazione che allontani da questa “normalità”, che nella maggior parte dei casi non può dare niente per scontato, nessun sentimento sociale, nessun orizzonte comune. Tutti quelli che torneranno sul voto che hanno già dato, decidendosi per un gesto di solidarietà, sono presi da una crisi. Il giovane collega che Sandra incontra ai bordi di un campo di calcio sta allenando una squadra di quartiere. Scoppia in lacrime solo per avere l’opportunità di poter ri-votare, di liberarsi del senso di colpa: “Chiamo anche Miguel, anche lui voterà per te”. Anche il vecchio operaio cambierà il suo voto ma non senza prendersi un pugno in faccia dal figlio, che come lui lavora in reparto e che vuole “i suoi soldi”, quelli del bonus. Ma sarà una donna quella che cambierà di più in occasione della richiesta di Sandra, liberandosi dall’egoismo del marito – che vorrebbe impedirle di restituire il bonus – e dalla vita con lui per poter scegliere con la propria testa.
Quello che i Dardenne creano come sfondo della vicenda di Sandra e dei suoi compagni è l’immagine di un’Europa impoverita, incattivita, smemorata, in preda agli effetti di trasformazioni non gestite. Quello che i Dardenne mettono in scena è la crisi del legame sociale, il disfarsi dell’idea di una società in cui i singoli sono tenuti insieme da qualcosa che trascende le loro personali esistenze.
Sandra fa tutto da sola, contando su un’amica, un marito, e incontrando la solidarietà solo di quelli che hanno le chiavi –personali – per accenderla dentro di sé.
In un mondo che si pensa così, “senza società”, un mondo in cui tutto è privato e de-privato, l’andare in giro di Sandra finisce per essere un’operazione di ricucitura, un filo riconsegnato alla consapevolezza di esistenze che convivono senza conoscersi e senza condividere il senso del loro essere insieme, nello stesso reparto. Tutto è forte in questi incontri, il peso dell’indifferenza, il cinismo di alcune ragioni, la vergogna di chi continua a votarle contro perché non può far diversamente, ma anche la solidarietà inattesa di chi decide di cambiare idea, di votare non solo per Sandra ma per sé, per un’idea di giustizia di cui ritrova il senso.
Quando arriva il lunedì Sandra perde il posto. I voti sono pari, ma non ci può essere parità per questa decisione.
Quando il titolare le proporrà di rimanere, riconoscendole il merito di una parziale vittoria, le offre il posto di un compagno a cui non verrà rinnovato il contratto, Sandra si rifiuta. Non ha esitazioni, questa volta, ha ben chiaro cosa è giusto fare.
In questo lungo week end sono cambiate molte cose. Fragile, impaurita dalla prospettiva di ricominciare a piangere, di cadere di nuovo nella depressione da cui stava guarendo, Sandra è uscita di casa con troppe pasticche nella borsetta ma fiduciosa di poter fare qualcosa, di cambiare qualcosa. E’ questo che l’ha trasformata, e l’ha resa forte.
Nella scena finale c’è il sole, Sandra esce dalla fabbrica e chiama il marito per raccontargli l’esito della votazione. Sembra sollevata, senz’altro è più forte. La strada su cui cammina non sembra più solo sua, sembra l’inizio di qualcosa.