È del 21 novembre 2016 il libro bianco pubblicato dall’Unione delle camere penali sull’informazione giudiziaria in Italia, con il quale i penalisti tornano a denunciare il “circo mediatico giudiziario” e l’impostazione “apertamente colpevolista” dell’informazione giudiziaria, riscontrata nel 29% delle testate monitorate, a fronte del 3% di quelle “apertamente innocentiste”, nonché nel 40,2% dei titoli, mentre il 48,9% è neutro, anche se la neutralità comunque manderebbe, sia pure non intenzionalmente, un messaggio di implicita responsabilità dell’imputato.
Questa ”impostazione colpevolista” dell’informazione giudiziaria sarebbe frutto della “contaminazione” negativa tra procure e stampa. Un punto di vista piuttosto diffuso e sintetizzato da Luciano Violante con una ormai famosa battuta: “La vera separazione delle carriere da fare sarebbe quella tra pm e giornalisti”.
Giusta o sbagliata che sia questa analisi – che forse tradisce essa stessa un’impostazione colpevolista – non vi è dubbio che magistratura e stampa siano due poteri che si qualificano essenzialmente per la loro indipendenza (il concetto di libertà di stampa implica infatti anche quello di indipendenza). E l’indipendenza, a sua volta, si qualifica attraverso la professionalità e la responsabilità.
È questo che fa della magistratura e della stampa, non solo due pilastri dello Stato costituzionale di diritto, ma anche due protagoniste fondamentali della contemporaneità. E uso questa parola – protagonista – nel suo significato proprio, cioè di chi svolge un ruolo di primo piano nelle vicende della vita, e non nel significato deteriore di protagonismo, inteso come atteggiamento presenzialista per motivi di immagine personale. Due significati opposti, che tuttavia hanno finito per confondersi nella percezione (negativa) dell’opinione pubblica, per molteplici ragioni, tra le quali c’è anche quella (sostenuta appunto dalle Camere penali) di un rapporto non sempre chiaro tra questi due poteri “indipendenti”, che non dovrebbero “contaminarsi” l’uno con l’altro ma mantenere una “giusta distanza”, come avviene rispetto al potere politico e a quello economico-finanziario.
Esiste, però, anche una “contaminazione positiva” tra magistratura e media o, se si preferisce, tra giustizia e comunicazione. Ed è di questa che vorrei parlare.
Una contaminazione “necessaria” e “doverosa”, perché la giustizia – per come spesso viene rappresentata e per come si rappresenta – non suscita nell’opinione pubblica quel sentimento di fiducia, che è un bene vitale per una democrazia moderna, al di là delle critiche che ad essa si possono muovere come potere, come servizio, come funzione.
Prevalgono sentimenti e atteggiamenti diversi che vanno dalla santificazione alla denigrazione; ma soprattutto, prevale il senso di estraneità, particolarmente pericoloso in un passaggio storico come quello attuale, di generale disorientamento politico-istituzionale, che è poi la fonte del populismo dilagante.
Di questa realtà la magistratura deve farsi carico, non certo per strizzare l’occhio al consenso popolare ma per “dovere istituzionale”. Non può fare spallucce o semplicemente delegare ad altri (i media) il compito di comunicare, inteso come dovere alla trasparenza e alla comprensibilità del proprio agire.
Di qui la sua necessaria “contaminazione” con la comunicazione.
Di questa necessità, lo voglio dire, Bruti Liberati ha saputo farsi interprete nei diversi ruoli che ha svolto durante la sua lunga carriera in magistratura. E lo ha fatto senza mai abdicare al suo ruolo istituzionale, ma con la consapevolezza di svolgere anche un ruolo sociale.
Vorrei ricordare, in proposito, le parole di Pino Borrè, un magistrato che, al di là degli incarichi ricoperti, è stato un grande protagonista nella formazione culturale della magistratura in funzione di quel “ruolo sociale” che, già negli anni ’50, Piero Calamandrei considerava centrale, chiamando il giudice ad essere partecipe e interprete della società in cui vive e della complessità dei suoi problemi.
Scriveva Borrè, nel gennaio del 1986: “La professionalità del magistrato è funzionale al corretto esercizio dell’indipendenza… è antidoto contro le tentazioni di scorciatoie e contro i pericoli di casualità e soggettivismo… è condizione perché i provvedimenti giurisdizionali , anche i più coraggiosi ed innovativi, non siano sterili fughe in avanti e possano aspirare all’accettazione sociale… esige che l’operato dei magistrati sia socialmente comprensibile, trasparente e controllabile e infine che l’impegno non si trasformi in protagonismo…; la professionalità è capacità di rispetto delle regole procedimentali, è misura, garanzia di razionalità, coscienza del limite…”.
Ecco, queste parole – che fanno leva sulla professionalità – sintetizzano efficacemente i doveri di una magistratura indipendente, consapevole di svolgere un ruolo sociale; che non vive in un iperuranio imperscrutabile né si percepisce come casta ma semmai come servizio e funzione, oltre che come potere; che non rincorre il consenso popolare ma si fa carico dell’accettazione sociale delle proprie decisioni per scongiurare il pericolo di una giustizia fai da te, e che al tempo stesso ha piena contezza della necessità di essere comprensibile, trasparente e controllabile, affinché il cittadino non si senta, rispetto alla giustizia, uno “straniero”, come il Mersault dell’omonimo libro di Camus, ma sviluppi un senso di appartenenza che gli consenta di farsi un’opinione, se del caso anche critica, ma il più possibile “informata”.
La professionalità è certamente la chiave per assolvere questo compito, anzi: questo dovere di comunicare. Che non è, quindi, soltanto “affar nostro”, cioè di noi giornalisti, anche se ovviamente il nostro ruolo è tutt’altro che secondario o subordinato (ne parlerò brevemente dopo).
Ecco perché, secondo me, il tema della comunicazione della giustizia sulla giustizia è un tema ineludibile, finora troppo sottovalutato o temuto, con il quale ogni magistrato – giudice o pm - deve misurarsi, non solo con gli strumenti “ordinari”, a cominciare dalla motivazione dei propri provvedimenti, ma anche attraverso altre forme di comunicazione che, a prescindere da quella veicolata dai media, raggiungano in modo corretto l’opinione pubblica.
Non è un parlar d’altro, se è vero – com’è vero – che in altri Paesi (dal Belgio alla Romania) il dovere di comunicare è considerato ormi una specifica competenza del magistrato, più che mai del magistrato dirigente. Quindi è stato istituzionalizzato.
In Italia, però, è un terreno scivolosissimo e me ne sono accorta da quando – ormai tre anni fa – ho cominciato ad occuparmene in varie sedi (compresa la Scuola superiore della magistratura), riscontrando resistenze e diffidenze da parte dei magistrati, soprattutto giudici. In parte come reazione alla sovraesposizione del ventennio berlusconiano, in parte come chiusura corporativa rispetto ad un ambito non considerato “proprio”.
Non a caso, un sondaggio commissionato dalla Scuola della magistratura rivela che soltanto il 20% dei magistrati intervistati considera la comunicazione una competenza da acquisire o da approfondire…
Quindi, la strada è ancora lunga e difficile, tanto più in questa fase storica, nella quale – come ha osservato lo stesso Bruti Liberati – “soffia di nuovo un vento di chiusura corporativa, pericolosamente coniugato al populismo giudiziario”.
Eppure, proprio questa fase storica chiama di più alla responsabilità di comunicare.
Pensiamo solo alla grave crisi economica che sta attraversando il nostro Paese ormai da anni. I magistrati sono chiamati direttamente in causa su più fronti, la sovraesposizione è inevitabile e il rischio di strumentalizzazioni, polemiche o semplicemente di confusione e disorientamento è elevatissimo.
La crisi li interroga, ad esempio, sul rapporto tra crescita economica e livello di protezione dei lavoratori, su quale debba essere il punto di equilibrio tra tutela della libertà di impresa e diritto alla salute. Già in occasione di provvedimenti di sequestro preventivo riguardanti grandi imprese o di pronunce di enorme impatto sulle finanze dello Stato – come quelle della Consulta sulla legittimità costituzionale del blocco dell’indicizzazione delle pensioni – si è discusso delle loro ricadute economiche e finanziarie, non senza polemiche. Uno dei temi del dibattito pubblico, sollevato anche in sedi istituzionali, è quello delle compatibilità economiche, cioè dell’esigenza che il giudice si faccia carico delle conseguenze sistemiche delle proprie decisioni. Diventa poi sempre più pressante il problema della velocità dell’economia e della lentezza della giustizia. Di quale sia l’impatto sull’economia e sulle imprese, in un sistema in crisi di competitività, di una giustizia che riesce ad essere incisiva solo in sede cautelare, nell’ambito di un processo infinito e in presenza di un alto tasso di imprevedibilità delle decisioni.
Così come resta aperto il fronte della lotta alla corruzione, dei rapporti tra prevenzione e repressione. Per non parlare delle “nuove disuguaglianze” generate dal nuovo assetto economico e sociale, tema al quale Magistratura democratica ha dedicato il suo ultimo Congresso nazionale e sul quale c’è un’ampia letteratura, tra cui voglio ricordare il libro pubblicato nel 2012 dal politologo Vittorio Emanuele Parsi, intitolato La fine dell’uguaglianza. Come la crisi economica sta distruggendo il primo valore della nostra democrazia. Ecco: quale ruolo avranno i giudici per bloccare la crescita delle disuguaglianze?
Qualunque siano le risposte – e solo a voler considerare questo specifico contesto – dovranno essere – in ogni ambito, da quello associativo, più politico, a quello giurisdizionale, peraltro anch’esso politico sia pure in un senso diverso – comprensibili all’opinione pubblica, al di là della mediazione giornalistica.
Quindi, la “comunicazione giudiziaria” avrà un ruolo sempre più centrale nella vita democratica del nostro Paese. E dovrà misurarsi con modalità, tempi e linguaggio diversi da quelli cui è abituata.
Ovviamente non voglio eludere il tema del ruolo, della qualità, e della responsabilità di chi, per mestiere, fa informazione, in particolare informazione giudiziaria, cioè di come i media restituiscono all’esterno la realtà complessa della giustizia: delle manipolazioni, forzature, strumentalizzazioni, e quant’altro.
Dico spesso che è il tono che fa la musica, e non c’è dubbio che l’intonazione mediatica sulla giustizia risenta, nella migliore delle ipotesi, di una semplificazione dello spartito giudiziario più funzionale alle leggi del mercato che a quelle dell’informazione.
A ciò non è estraneo lo sviluppo delle tecnologie, in sé positivo per la diffusione dell’informazione, e quindi per il suo potenziale di libertà, ma spesso foriero, purtroppo, di manomissioni della realtà, come già rilevava negli anni ’60 Hanna Arendt nel saggio Verità e politica.
La velocità con cui oggi viaggia l’informazione sulle più diverse piattaforme, e il linguaggio imposto da alcune di esse, ha, di per sé, un potenziale distorsivo e distruttivo della verità dei fatti e della loro complessità, che non va sottovalutato. Oggi la comunicazione vive più che mai dell’istante e rinuncia all’argomentazione oltre che alla riflessione. Ma nella velocità si consuma troppo spesso la manipolazione.
Bisogna poi fare i conti con una deriva populista del linguaggio, politico e mediatico, che rende più difficile distinguere tra realtà e finzione e quindi la conoscenza e il formarsi di un’opinione libera, perché informata.
Tutto questo – al di là delle accuse di contiguità – implica una seria autocritica da parte di chi fa informazione, proprio per non abdicare a quel ruolo di “protagonista della contemporaneità” di cui parlavo all’inizio. Un ruolo che io rivendico in pieno, respingendo la rappresentazione dei media come resocontisti o, peggio, come raccattacarte.
L’informazione è testimonianza e narrazione. Ma richiede un approccio culturale che va oltre il resoconto e che implica capacità critica, poiché i suoi obiettivi sono la conoscenza e la comprensione dei fatti.
In un libro pubblicato da Einaudi qualche tempo fa e intitolato Fondata sulla cultura, Gustavo Zagrebelsky scrive che “la conoscenza delle cose apre alla loro interpretazione, ma l’interpretazione dà un senso alle cose stesse, le fa conoscere come manifestazioni di senso. Per questo, interpretare è sempre prendere posizione”.
Il giornalista, quindi, è interprete dei fatti, perché deve dare un senso ai fatti.
L’interprete, spiega sempre Zagrebelsky, “ha occhi per ciò che è stato, per ciò che è, e per ciò che sarà, e in questa sequenza sta il suo prendere posizione”. Ebbene, in questa sequenza sta anche “il prendere posizione” dell’informazione.
È un punto delicato, poiché solitamente dal giornalista si pretende il contrario, cioè di non prendere posizione. Gli si chiede di essere neutrale, per non correre il rischio di essere, o apparire, fazioso, tifoso. Ma “prendere posizione” e “tifare” non sono la stessa cosa. E la pretesa di neutralità – che talvolta è anche una rivendicazione di categoria – rischia spesso di essere un alibi, un’ipocrisia o addirittura un’intimidazione indiretta per sottrarci o farci sottrarre alle nostre responsabilità. Che però presuppongono professionalità, rigore e spirito critico. Questi sono i nostri strumenti del mestiere, cioè di una corretta informazione giudiziaria che non cerca sponde – né fa da sponda a nessuno – ma, semmai, interlocutori. E che si pone essa stessa come interlocutrice autorevole.
Il rischio di un approccio diverso è il conformismo e l’autoreferenzialità. Un “conformismo di casta”, certamente rassicurante, ma deleterio per l’opinione pubblica e, dunque, per la qualità della democrazia, che dipende anche dalla qualità dell’informazione.
In questo senso, stampa e magistratura corrono lo stesso rischio.
E in tempi di “crisi” – economica, politica, istituzionale, etica, di legalità – questo è un rischio che la democrazia non può permettersi.
L'intervento è stato tenuto nel convegno Magistratura e società svoltosi in occasione della premiazione di Edmondo Bruti Liberati come laureato benemerito del 2016 dell'associazione Algiusmi (Milano, 28 novembre 2016)