Un ricordo
Isola di Gorgona. Alle sette del mattino a Cala Maestra si sentono solo i gabbiani còrsi che pescano e sostano sulle rocce più impervie, alte sul mare. Ho trascorso una breve notte sull’isola-carcere, parlando fino a tardi di questioni giuridiche con gli altri invitati a un seminario sulle misure di sicurezza psichiatriche. L’alba si è fatta strada facilmente, troppo presto, attraverso la finestra dell’alloggio spartano e privo di scuri.
È l’occasione per una passeggiata nelle poche strade dell’isola. Il cimitero nel bosco, con le tombe delle due o tre famiglie che ancora ci vivono, e di chi vi è morto da detenuto. Croci, a volte senza nome. E poi lo sterrato in salita verso lo strapiombo sul mare. Al ritorno i detenuti già lavorano alle arnie e nelle vigne. È l’ottobre del 2014 e noi riprendiamo la giornata di lavori. Un gruppo di giovani ristretti sta studiando fotografia e ci chiede se può esercitarsi su di noi. Difficile e riluttante soggetto. Però hanno intorno questa natura meravigliosa in 2,25 km quadrati di isola, e gli animali. Non potrà mancare loro l’ispirazione.
Isole per non vedere
Le isole hanno ospitato sin dall’antichità luoghi di detenzione e di esilio degli indesiderati. Rappresentano per antonomasia la separazione, e i bracci di mare, spesso quelli più infidi e burrascosi, la più efficace garanzia che nessuno se ne allontani o, se vi si prova, non possa darne testimonianza. Anche l’Italia ne ha conosciute molte, soprattutto in passato: alcune più note, come Pianosa e il suo carcere di massima sicurezza ormai non più operativo (ma un piccolo gruppo di detenuti in lavoro all’esterno vi alloggia ancora), altre invece a lungo dimenticate.
Ricordo la commovente narrazione del confino alle Tremiti di un ampio numero di omosessuali durante il periodo fascista, con le piccole e grandi forme di resistenza di questi giovani, spesso incapaci, per incultura, di concepire un pensiero sulla politica, eppure in grado a modo loro di non piegarsi all’infamia della discriminazione [1].
Più di recente mi è capito di riscoprire, nelle pagine di un libro molto documentato, la vita quotidiana nel confino di Ventotene, che raccolse, come noto, intelligenze politiche lungimiranti come quelle di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni. E l’ergastolo della piccola Santo Stefano, che le sta di fronte, “sempre albergo di pene e di dolori” per Luigi Settembrini, e poi per Umberto Terracini e Sandro Pertini, che lo condivisero con detenuti comuni per omicidi ed altri gravi delitti, testimoniandone in seguito con parole vibranti le disumane condizioni di vita, e i veri e propri crimini visti e subiti [2].
Ci vogliono spesso difficili ricerche d’archivio per riportare alla luce frammenti di queste storie impolverate dal tempo passato. È così che scopro l’esperienza luminosa di un direttore di penitenziario come Eugenio Perucatti, che tentò di riformare l’ergastolo di Santo Stefano, rendendolo innanzitutto un luogo dove la pena potesse espiarsi in modo dignitoso ed umano, ma subì l’ostracismo di chi aveva paura di cambiare passo. L’articolo 27 della Costituzione era già vigente, ed era stato pensato sulla scorta degli insegnamenti maturati dai nostri Costituenti anche nelle maleodoranti celle e negli insalubri ricoveri di quelle isole, eppure non fu sufficiente a impedirne una rapida rimozione.
L’isola per ricominciare
E poi c’è un’altra storia, in cui un’isola non è fatta per dimenticarsi di chi vi è ristretto, e la separazione contribuisce a creare un microcosmo naturale originalissimo rispetto alla terraferma. Un luogo dove sperimentare storie di speranza. Quest’isola è Gorgona e lì occorre far ritorno.
È stata la lettura di Salvati con nome a riportarmi, dopo quattro anni dalla breve visita di cui ho scritto, su quello scoglio fecondo al largo delle coste toscane. Il libro è un racconto a molte voci, tessuto con sensibilità da Silvia Buzzelli e Marco Verdone. Vi si racconta la specialità del progetto rieducativo che vi si è a lungo condotto e che, anche se l’attualità sembra segnare tristi arretramenti, merita invece di essere proseguito e replicato altrove. I detenuti lavorano da molti anni sull’isola a contatto con lo splendido ambiente naturale, nelle coltivazioni e nell’allevamento degli animali. Non è facile, perché le famiglie sono lontane e, specialmente d’inverno, le cattive condizioni atmosferiche possono privare l’isola per giorni di collegamenti con la terraferma. Però c’è il lavoro e, appunto, lo si svolge a contatto con la natura ed in particolare prendendosi cura dei molti animali. C’è un macello sull’isola. I cammini di vita che affiancano i detenuti agli animali di cui si prendono cura terminano inevitabilmente lì, per consentire la vendita di carne e anche il ricambio degli esemplari ormai non in grado di produrre più latte. Le idee di Carlo Mazzerbo, direttore allora dell’istituto penitenziario, e del veterinario Marco Verdone, il contributo di idee e di lavoro di molti, producono progressivamente uno stile ben preciso nell’approccio all’allevamento, rispettoso ed ecocompatibile, e il decisivo cambio di passo diviene, infine, la sospensione delle attività del macello.
Se il reato è nel suo fondo cecità all’altro e ai suoi bisogni, la pena deve avere l’obiettivo primario di condurre la persona condannata a scoprire il valore del diverso da sé. Il rapporto con le coltivazioni e con gli animali, la necessità della cura quotidiana e costante, l’impegno senza alibi richiesto da chi dipende da te, che significa responsabilità e maturità, diventano ingredienti essenziali per riempire di senso il tempo della pena. E allora non sembra esserci spazio, a Gorgona, dove i ritmi della produzione rispondono, più che al mercato, alla funzione costituzionale della pena, per un macello come capolinea delle storie di accudimento.
Qualunque opinione possa aversi sul tema al di fuori del contesto carcerario, la peculiarità di Gorgona impone una riflessione aggiuntiva, poiché qui il valore di ogni persona umana, a prescindere dai crimini che ha commesso, ci spinge a rifiutare con Bauman una moderna logica dello scarto. Qui salvare un maiale dal suo destino già scritto, su richiesta dei bimbi di una scuola, e dargli un nome, e quindi una identità, assume un significato di grazia capace di ridare luce – e salvezza – agli ultimi della società.
Nei primi capitoli del libro, prima di raccontare polifonicamente questa storia, che oggi sembra interrotta, con molti suoi protagonisti ormai lontani dall’isola, si riparte ancora una volta dalla funzione assegnata alla pena dall’articolo 27 della Costituzione, e si rivolge poi l’attenzione all’articolo 3, consegnandone una lettura che consente di concepire il carcere come legittimo soltanto quando favorisca il pieno sviluppo della persona, ponendo dunque una serie di limiti stringenti e di obbiettivi di lavoro insieme ambiziosi e necessari.
Si tratta in questo senso del binomio rieducazione-non violenza di cui ci parla Silvia Buzzelli che, nel richiamare il lavoro complesso e ricco degli Stati generali dell’esecuzione penale, ci conduce a rileggere le parole e le metafore che accompagnano la pena, valutandone pienamente l’alto potere performativo, e ce ne suggerisce una bonifica alla luce delle Regole penitenziarie europee, che sia anche occasione di un serio ripensamento sui messaggi contraddittori che l’istituzione finisce per inviare alla persona ristretta. Come quando si chiede un prendersi cura che poi conduce al macello, mimando un uso dell’altro da sé invece di evocare un percorso di rispetto dei suoi diritti e delle sue aspirazioni.
E così, attuando modalità rispettose nel rapportarsi al contesto ambientale, vivendo in sintonia con il luogo dove si è costretti a restare, dando vita libera e morte naturale, sull’isola, agli animali considerati solo “da reddito”, tutto il resto acquista un valore nuovo, che mette in luce la dignità del custode, e cioè la persona ristretta.
È il moltiplicatore positivo per il quale un sistema penitenziario che consente percorsi di reinserimento sociale efficaci e una detenzione in condizioni umane, dà centralità all’impegno e migliora la vita anche di chi vi lavora: gli educatori, gli assistenti sociali e la polizia penitenziaria. Il capitolo del libro che esplora i tanti percorsi che in altre realtà penitenziarie si vanno sviluppando a somiglianza, nel loro piccolo, del modello Gorgona, ne è una ricca testimonianza. Il valore profondo degli ultimi, dà senso a tutto il resto, come le urla dei gabbiani, mi viene da dire, bastano a giustificare la bellezza di Cala Maestra.
Avrebbe condiviso, credo, i silenzi e i significati dell’isola, ben al di là delle mode dominanti, ben piantata in un senso pieno della dignità dell’essere umano, Anna Maria Ortese. Così scriveva: «Ci sono momenti in cui un albero ci si mostra improvvisamente umano, stanco. Altri momenti che un’umile bestia (o ciò che crediamo tale) ci guarda in modo tanto quieto, benevolo, profondo, tanto puro, consapevole, divino, da farci balenare l’idea di una Casa Comune» [3].
[1] Vds. G. Giretti e T. Giartosio, La città e l’isola. Omosessuali al confino nell’Italia fascista, Donzelli, 2006.
[2] Cfr. P.V. Buffa, Non volevo morire così. Santo Stefano e Ventotene. Storie di ergastolo e di confino, Nutrimenti, 2017.
[3] Ma anche una stella per me è natura, in Tuttolibri, 18 febbraio 1984 (leggibile ora anche in Le piccole persone, Adelphi, 2016).