La situazione di crisi in cui viviamo, tramontata la stagione del glorioso trentennio, ha imposto alla riflessione il tema della declinazione dei diritti sociali e della misura di essi, in assenza di crescita economica. Il predominio assunto, nell’attuale contesto socio-politico, dagli interessi economici, agevolato anche da processi di ricostituzionalizzazione, ha spinto verso un tentativo di subordinazione dei diritti sociali alla disponibilità di risorse e alla discrezionalità legislativa nella destinazione delle stesse.
Nell’ampio dibattito attorno al tema della conciliazione tra benessere e decrescita, è stato da più voci sottolineato il ruolo dei diritti sociali come “diritti abilitanti” all’esercizio di quelli civili e politici, precondizioni dell’autodeterminazione e dell’esercizio delle libertà.
Il diritto a un reddito di base chiama in causa il diritto ad un’esistenza dignitosa, in una dimensione non solo di contrasto alla povertà ma di costruzione, sulla base del collante della solidarietà, delle precondizioni per l’esercizio dei diritti fondamentali.
Nel libro di Giuseppe Bronzini, “il diritto a un reddito di base”, espressione che compone il titolo, non ha alcun carattere di astrattezza né si muove in una sfera utopica, dove si cerca, specie in Italia, di relegarlo, ma è descritto con estrema concretezza, attraverso le sue radici storiche, le solide basi nelle Carte europee, le realtà di tanti Paesi, e persino attraverso una quantificazione delle risorse necessarie, ben al di sotto di quelle stanziate in recenti manovre di sostegno all’occupazione.
L’ampiezza del panorama culturale che l’autore è riuscito a racchiudere nelle poco più di 150 pagine ci riporta all’idea di giustizia sociale di Thomas Paine, alla teoria della terra come bene dell’umanità e all’obbligo di alcuni, correlato all’appropriazione di porzioni di terra, di garantire agli altri i mezzi di sostentamento come ristoro della perdita. Diretto è il collegamento con la riflessione sui beni comuni e con gli studi, proprio della rete mondiale del basic income earth network, di una tassazione sui consumi delle risorse naturali quale risarcimento generalizzato per l’appropriazione privata di fonti di ricchezza collettiva.
Ancora più suggestivo è il riferimento nel libro al Frammento sulle macchine di Karl Marx, reinterpretato alla luce della rivoluzione informatica. Allora, alla base della riflessione era l’idea della liberazione dell’uomo dal lavoro, oggi è la prospettiva di una società senza lavoro, quale conseguenza della rivoluzione tecnologica e della robotizzazione. Non solo, vi è al fondo l’idea di un sistema di produzione che si serve prioritariamente delle «reti di comunicazione, informazione e conoscenza prodotte dal sapere umano, dall’intelligenza collettiva, dalla cultura, che si sviluppano in larga parte spontaneamente (…) e il cui vero titolare (…) è l’umanità nel suo insieme». In quest’ottica, il reddito di base si pone come strumento di remunerazione, risposta, moneta, per l’appropriazione del sapere collettivo.
Dai riferimenti storici all’attualità, il diritto a un reddito di base è costruito attraverso passaggi rigorosi. Il punto di arrivo non è il reddito minimo garantito (RMG), parte del patrimonio dei fundamentals rights degli europei, sancito dall’art. 34, comma 3, della Carta dei diritti dell’Ue come misura volta a «garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti” e quindi concepito al “fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà».
L’opzione chiara nel libro è per un reddito di base, traduzione del termine inglese basic income, assimilato ad un «diritto di libertà, volto a irrobustire e fortificare l’autodeterminazione del soggetto in tutti i campi, ivi compresa la dimensione lavorativa, evitando di cadere in una logica di mera lotta alla povertà o di inserimento amministrativo al (poco) lavoro oggi disponibile». Una misura, per ripetere le parole di Stefano Rodotà, che libera «dall’angustia della disoccupazione» e insieme «dal ricatto del lavoro, dall’obbligo di accettare qualsiasi condizione pur di ottenere risorse necessarie per la sopravvivenza». I condizionamenti sono descritti come attentati a quella dignità che la misura stessa mira a tutelare.
L’autore calca la mano sullo sconsolante scenario italiano sul fronte della lotta per l’inclusione sociale. Insensibile alle indicazioni sovranazionali, l’Italia detiene un triste primato, tra gli Stati europei. Più alto (insieme a Estonia e Romania) è stato l’aumento, in questi anni di crisi, del numero dei poveri, dei giovani disoccupati e dei neet, giovani che non studiano, non lavorano e non sono in formazione; alto il numero di working poor, che non possono contare neanche su un salario minimo legale.
Le iniziative in materia di lotta alla povertà e contro il rischio di esclusione sociale, fatta eccezione per la breve esperienza del reddito minimo di inserimento (RMI) all’epoca del governo Prodi e per gli istituti introdotti nella regione Lazio, in Val d’Aosta o nelle province di Trento e Bolzano, hanno assunto sembianze solo caritatevoli, come la social card dei governi di centrodestra, e si sono scontrate con mille ostacoli, come i vincoli di bilancio e la divisione di competenze tra Stato e regioni. Il reddito di inclusione (REI) introdotto nel 2018 è una misura di contrasto alla povertà non un reddito per garantire dignità e autodeterminazione nelle scelte di vita e di lavoro.
Vi è poi una prospettiva importante, che il libro percorre e approfondisce, che passa attraverso l’analisi della, più o meno recente, destrutturazione del lavoro fino alle nuove forme di lavoro digitale.
La disarticolazione spazio temporale della prestazione lavorativa ha decisamente messo in crisi l’assetto tipologico fondato sul binomio lavoro subordinato e lavoro autonomo e l’ulteriore suddivisione, recentemente introdotta, tra lavoro coordinato ed etero-organizzato ha ulteriormente messo in evidenza la necessità di un approccio che sappia fornire tutele ai bisogni di protezione sociale, a prescindere dall’incasellamento delle modalità in cui la prestazione lavorativa è resa e secondo gli obiettivi di solidarietà, equità e giustizia sociale propri del sistema giuslavoristico.
Da questo punto di vista, il proposito del legislatore del Jobs Act di spostare le tutele dal rapporto di lavoro al mercato, realizzato attraverso la sostanziale liberalizzazione dei licenziamenti per ragioni economiche ed un riordino dei trattamenti di disoccupazione involontaria (Naspi, Dis-coll), ha prodotto un saldo decisamente negativo, e ciò, secondo l’autore, non solo per la scarsità delle tutele welfaristiche approntate ma «soprattutto per l’assenza di un pilastro essenziale delle flexicurity, cioè il reddito minimo garantito, che l’Italia continua a ignorare».
La necessità di garanzie di carattere universale che stiano fuori dal rapporto di lavoro si avverte in misura ancora più impellente se si osservano le nuove forme di lavoro variamente definite come crowd work, lavoro tramite piattaforme, sharing economy, gig economy etc. a cui il libro dedica molta attenzione, idonee a scompaginare tutti i riferimenti soggettivi e oggettivi del diritto del lavoro.
La pretesa di concedere tutele solo attraverso lo spiraglio del lavoro subordinato si rivela, secondo l’autore, «una strada impercorribile nel suo ideologico e nostalgico conservatorismo che distrugge ogni potenzialità di questa nuova frontiera produttiva, mortificando le stesse aspirazioni di soggetti che dovrebbero essere protetti attraverso misure calibrate su ciò che sta accadendo e non sul mondo di ieri».
In altri Paesi, tra questi la Francia, si sono adottate misure interessanti, capaci di interagire con le novità in campo produttivo, come la «responsabilità sociale delle piattaforme», prevista nella Loi Travail, che riconosce ai lavoratori una serie di diritti sociali, come l’assicurazione in caso di malattia, infortunio, il diritto alla formazione e alla certificazione delle competenze, diritti collettivi e di organizzazione sindacale, indennità di disoccupazione se si perdono le chances di prestazione.
L’Italia non è stata finora in grado di misurarsi con il nuovo. Non ha introdotto un salario minimo legale, strumento indispensabile per arginare forme di sfruttamento che, nel lavoro digitale, prendono il nome di clausole vessatorie unilateralmente imposte dalla piattaforma.
Unico rispetto agli altri 27 Paesi dell’Unione, l’Italia non si è neanche dotata di quel RMG, diritto fondamentale di matrice europea, «presupposto per una libertà di scelta e di autodeterminazione nel lavoro e strumento di inclusione nel welfare, essenziale per ogni cittadino laborioso in tempi in cui il lavoro è divenuto bene scarso, instabile e non sempre sufficiente per una vita libera e dignitosa».
Ma lo sguardo all’Europa conduce l’autore ad affrontare, in chiusura, quella che viene definita la nuova questione sociale europea. La possibilità di riconciliare i cittadini col progetto di integrazione europea passa attraverso un cambio di passo del modello sociale europeo che, preso atto degli effetti disgreganti delle politiche di austerity finora imposte, sappia cimentarsi nella creazione di una base sociale minima per tutti i cittadini dell’Unione, sulla scia di quanto emerso nella consultazione promossa dalla Commissione sull’european social pillar. Un welfare europeo, che comprenda la generalizzazione di sistemi di salario minimo legale, una disciplina comune sulla disoccupazione e sul lavoro tramite piattaforma, l’introduzione di un reddito minimo garantito, finanziato almeno in parte dall’Unione e in grado di ricucire il clima di fiducia tra le istituzioni europee e il demos.
Se è vero che la solidarietà è un pilastro delle Costituzione italiana ed europea, ove essa manchi e manchi coesione sociale, ne va della stessa legittimità delle istituzioni pubbliche e del carattere democratico dei sistemi in cui esse operano e non vi è tempo di aspettare che siano i robot a marciare per il diritto degli umani allo ius existentiae.