1. Il diritto costituzionale all’abitazione: riconoscimento e problemi
Dal punto di vista costituzionalistico, inevitabile punto di partenza di ogni discorso in tema di diritto all’abitazione è il silenzio della Carta fondamentale sul punto. Se ne trova un riferimento nell’art. 47, comma 2, Cost., che parla, tuttavia, di «abitazione» non disciplinando il relativo diritto, bensì indicando l’abitazione quale sbocco, per così dire, “naturale” del risparmio privato («La Repubblica … favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione»); e, per di più, unitamente alla «proprietà diretta coltivatrice» e all’«investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese» [1].
In dottrina c’è chi ha escluso che da tale disposizione costituzionale possa essere dedotta l’affermazione di un diritto costituzionale all’abitazione [2]. Pur concordando sul punto, altri studiosi non escludono che tale diritto possa essere comunque ricavato da una più ampia lettura della Costituzione [3]: valgano, per autorevolezza, due citazioni tratte da Temistocle Martines e Franco Modugno. Così scrive Martines: «L’abitazione costituisce punto di riferimento di un complesso sistema di garanzie costituzionali, e si specifica quale componente essenziale (oltre che presupposto logico) di una serie di “valori” strettamente legati a quel pieno sviluppo della persona umana che la Costituzione pone a base (assieme all’istanza partecipativa) della democrazia sostanziale» (e specifica, poi, che tali valori sono, oltre al domicilio, la famiglia, la scuola, la salute e il lavoro) [4]. Altrettanto netta la presa di posizione di Modugno: «Il diritto all’abitazione è un diritto inviolabile anzitutto perché è deducibile da una pluralità di riferimenti costituzionali (artt. 2, 4, 13, 14, 16, 29, 30, 31, 32, 35, 36, 37, 38, 42 e 47) tutti rivolti a creare le condizioni minime di uno Stato sociale» [5].
Si può, dunque, assumere come punto di partenza questa prima indicazione: se non ci si limita a considerare l’art. 47 Cost. isolatamente, ma si guarda alla Costituzione nel suo complesso, allora si può affermare l’esistenza di un diritto costituzionale sociale all’abitazione.
Con il che, però, subito si apre la questione inerente al grado di effettività assicurabile al diritto stesso. Che cosa significa, concretamente, riconoscere il diritto all’abitazione nel novero dei diritti sociali costituzionalmente garantiti? Che si tratta di un diritto immediatamente azionabile (alla stregua del diritto alla salute) o di un vincolo anzitutto politico (com’è per il diritto al lavoro)?
2. I diritti sociali nel quadro di una Costituzione pluralista
Per provare a rispondere a queste domande è necessario fare un passo indietro per soffermarsi sul tema del riconoscimento dei diritti – e, in particolare, dei diritti sociali – nell’ambito di una Costituzione pluralista.
2.1 Pluralismo e bilanciamento
Il pluralismo è caratteristica che accomuna tutte le costituzioni del Novecento, come effetto del superamento del voto per censo e del conseguente allargamento dei confini della cittadinanza politica a tutte le classi sociali: quell’allargamento che – per ricorrere al linguaggio di Massimo Severo Giannini – nella prima metà del secolo trasforma lo Stato da monoclasse a pluriclasse [6]. In uno scenario in cui gli attori politici diventano molteplici ed esprimono visioni del mondo diverse – se non, su taluni profili, contrapposte – le costituzioni diventano documenti riassuntivi delle variegate tendenze culturali, economiche e politiche che è necessario far convivere nella società.
In questa prospettiva, la contestuale presenza nella costituzione di una pluralità di princìpi – anche tra loro contrastanti e comunque non gerarchizzati – è un dato positivo, perché tesse, anziché lacerare, il legame sociale [7]. Includere il più ampio numero di visioni in competizione, anziché escluderne a forza alcune, consente alle carte fondamentali di operare come strumenti di convivenza tra forze sociali contrapposte, sostituendo alla logica dello scontro fratricida amico-nemico (à la Carl Schmitt) [8] quella del conflitto tra avversari politici (secondo la teorizzazione di Hans Kelsen) [9]. Sul piano politico, il conflitto riguardo al contenuto da dare alla Costituzione si trasforma in conflitto sull’attuazione di quel contenuto, vale a dire sulla scelta, rimessa alla discrezionalità politica, dell’ordine e dell’intensità di realizzazione concreta delle diverse previsioni costituzionali, pur con l’onere di non dimenticarne nessuna. Sul piano giuridico, è il bilanciamento lo strumento attraverso cui princìpi diversi trovano, contestualmente, parziale attuazione nella regola di volta in volta sancita dal legislatore o dal giudice [10].
Nell’ottica del bilanciamento, i princìpi sono destinati a limitarsi reciprocamente, dando vita a un sistema costituzionale sempre aperto al possibile raggiungimento di nuovi punti di equilibrio, rappresentati dalle regole nel tempo concretamente stabilite. Il compito di scegliere tra i vari possibili punti di equilibrio spetta al legislatore: le scelte effettuabili sono molteplici e quella che prevarrà dipende dai rapporti di forza, sempre mutevoli, in un dato momento vigenti nella società. Vi è, tuttavia, un limite invalicabile, che vincola la discrezionalità legislativa (anch’essa inevitabilmente limitata, come tutti i poteri costituiti): il sacrifico del principio che in un determinato frangente è socialmente e politicamente meno “sostenuto” non potrà mai spingersi sino al suo completo annullamento, pena il prodursi di uno “sbilanciamento” incostituzionale sanzionabile dal giudice delle leggi. È ciò che Luigi Ferrajoli – pur critico nei riguardi della nozione di bilanciamento – definisce la «sfera del non decidibile» [11].
La Corte costituzionale si è espressa in argomento con grande chiarezza, attraverso le sentenze n. 264 del 2012 e n. 85 del 2013. La sentenza n. 264 del 2012 [12] afferma che compito della Corte costituzionale è proteggere la Costituzione come un insieme unitario, in modo da assicurare una tutela «sistemica e non frazionata» di tutti i diritti e i princìpi in essa presenti. Quel che, in particolare, non deve accadere – ha aggiunto la sentenza n. 85 del 2013 [13] – è «l’illimitata espansione di uno dei princìpi, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette», ed è per questo che la «Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi».
Si potrebbe dire così: la tecnica del bilanciamento prevede che ogni principio vada rispettato nella sua intima essenza, perché non farlo significherebbe espungerlo dal compromesso costituzionale che ha dato unità al pluralismo [14]. La scienza giuridica ha parlato, in proposito, di «nocciolo duro», «contenuto minimo», «livello essenziale», «soglia invalicabile», «elemento incomprimibile», «nucleo indefettibile» etc. dei princìpi costituzionali [15]. Non è senza rilievo che tale nozione abbia trovato positivizzazione nel nostro ordinamento costituzionale, nel 2001, con la riscrittura dell’art. 117, comma 2, lett. m), Cost. per il quale i «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (…) devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». Ciò comporta – ha precisato la Corte costituzionale – che «nella individuazione delle misure necessarie a tutela dei diritti delle persone», «il legislatore (…) gode di discrezionalità», ma «detto potere discrezionale non ha carattere assoluto e trova un limite nel rispetto di un nucleo indefettibile di garanzie per gli interessati» (sentenza n. 80 del 2010) [16].
Ciò detto, un elemento di potenziale perplessità merita di essere sottolineato: una volta positivizzata, la nozione di «livello essenziale» – configurabile come limite di costituzionalità “in negativo” alla legislazione, finché frutto di teorizzazione dottrinale – diventa per il legislatore obiettivo da realizzare “in positivo”, con il rischio evidente che quello che dovrebbe essere il livello minimo di tutela dei diritti diventi il livello di tutela dei diritti, oltre il quale si perde ragione di andare. Per ricorrere a una metafora: che ciò che nella costruzione dell’“edificio” dei diritti dovrebbe essere il “pavimento” si trasformi nel “tetto” [17].
2.2 E l’equilibrio di bilancio?
Il discorso si fa ulteriormente delicato in seguito all’inserimento in Costituzione del principio dell’equilibrio di bilancio (l. cost. 20 aprile 2012, n. 1) [18]. Con riferimento al discorso in svolgimento, il tema, ricco di implicazioni, rileva soprattutto per una questione: il principio dell’equilibrio dei bilanci (statale, regionali, locali) è un super-principio costituzionale «imperioso» [19] o «tiranno» [20], destinato a prevalere in ogni caso sugli altri princìpi, o è un principio costituzionale posto sullo stesso piano degli altri princìpi costituzionali e dunque, al pari degli altri, suscettibile di bilanciamento? [21].
Sulla base della ricostruzione sopra prospettata a proposito del pluralismo costituzionale, non si può che affermare la necessaria ponderabilità anche dell’equilibrio di bilancio: tutti i princìpi costituzionali, nessuno escluso, devono essere bilanciabili, a pena di far cadere l’intero pluralismo costituzionale [22]. Se anche solo un principio non risultasse bilanciabile, se ne dovrebbe infatti dedurre che quel principio vale in assoluto: ne deriverebbe l’assolutismo, non il pluralismo, costituzionale. Senza considerare che ritenere l’equilibrio di bilancio un super-principio non ponderabile causerebbe, come inaccettabile conseguenza, l’inversione dell’ordine gerarchico delle fonti, con la subordinazione della Costituzione alla legislazione (di bilancio) ordinaria: i diritti risulterebbero infatti attuabili solo se, e nella misura in cui, fossero loro destinate risorse dalla legge di bilancio.
A conforto di tale ricostruzione – per la quale la ponderazione deve necessariamente interessare tutti i princìpi costituzionali, nessuno escluso – si può richiamare la prima sentenza pronunciata dalla Corte costituzionale, la n. 1 del 1956, adottata in polemica con la Corte di cassazione proprio per via della differente concezione dei diritti costituzionali fatta valere dalle due supreme magistrature. Ridotta all’essenziale, la questione verteva intorno al tentativo – sostenuto dalla Cassazione – di vincolare la normatività delle disposizioni costituzionali di programma (in particolare quelle che prevedono la realizzazione di uno Stato sociale) alla previa adozione della legislazione ordinaria di attuazione (Sezioni penali unite, sentenza del 7 febbraio 1948). Di contro, la Consulta approfittò proprio della prima occasione in cui poté pronunciarsi per tagliare il nodo che si voleva stringere al collo della Costituzione, proclamando la prescrittività di tutte le disposizioni costituzionali, incluse quelle di programma e di principio [23].
In definitiva, allora come oggi, il riconoscimento costituzionale di un diritto non è un atto meramente formale, la cui attuazione normativa è rimessa alla buona volontà del legislatore; al contrario, produce un vero e proprio vincolo giuridico. Introdurre un diritto in una Carta costituzionale significa porre un vincolo alla discrezionalità politica, che da quel momento deve predisporre gli apparati necessari a far fronte alle esigenze riconducibili a quel diritto. Naturalmente, occorre considerare anche gli altri interessi costituzionali coinvolti – tra cui, oggi, l’esigenza che i bilanci pubblici siano «in equilibrio» – e, come visto, bilanciarli: com’è accaduto, con esiti diversi, nelle sentenze della Corte costituzionale n. 264 del 2012, n. 10, n. 70, n. 178 del 2015 e, da ultimo, n. 275 del 2016 [24].
3. Crisi e diritti sociali
Il discorso sin qui svolto vale, a maggior ragione, in tempi di crisi economica, quando la contrazione delle risorse disponibili tende, anzitutto, a ripercuotersi sulle prestazioni che costituiscono il sistema di welfare pubblico [25].
I dati relativi alla condizione economico-sociale del Paese sono a tratti drammatici, nonostante – occorre ricordarlo – l’Italia continui a essere una delle dieci economie più floride del pianeta. Il problema fondamentale, in effetti, non è tanto quello della carenza di risorse, quanto, piuttosto, quello della loro sempre più diseguale distribuzione, al punto che l’Ocse colloca l’Italia nel gruppo dei Paesi in cui, nei dieci anni della crisi, la disuguaglianza sociale, provocata dalla concentrazione delle risorse economiche (reddito e patrimonio) verso l’alto, è maggiormente aumentata [26]. E così, mentre l’Eurostat stima che l’Italia conti, in termini assoluti, il più alto numero di poveri in Europa (10,4 milioni su un totale di 78,5) [27], l’Associazione italiana dei gestori del risparmio (Assogestioni) dichiara che negli ultimi dieci anni l’ammontare delle risorse affidate a fondi d’investimento e gestioni di portafogli è sempre aumentato, sino a toccare la cifra record di 2.089 miliardi di euro nel 2017 (a fronte degli 841,2 miliardi del 2008) [28]. L’indice di Gini certifica chiaramente questa situazione, collocando l’Italia al settimo posto in Europa per tasso di diseguaglianza, ben oltre la media dell’Unione europea [29].
A incidere sulla diseguaglianza sono soprattutto due elementi [30].
Il primo è l’inadeguatezza del sistema tributario, che – a tacere dell’abnorme evasione – ha da tempo abbandonato la strutturazione progressiva, che costituzionalmente dovrebbe essergli propria, per assumerne una sostanzialmente proporzionale a vantaggio dei più ricchi. È un discorso che vale per l’imposizione sui redditi [31], così come per quella sui patrimoni (con riguardo a questi ultimi, la situazione è così anomala da aver indotto l’Ocse e il Fmi a suggerire l’introduzione di un’imposta patrimoniale e un incremento delle imposte sulle successioni) [32]. Straniante, sul punto, l’andamento del dibattito pubblico, completamente assorbito da proposte – quali la flat tax e il “recupero” dei cd. residui fiscali da parte delle regioni più ricche – che ulteriormente allargherebbero la forbice tra indigenti e benestanti, anziché da iniziative – quali la lotta all’evasione, l’ampliamento della base imponibile, la ristrutturazione secondo progressività dell’imposizione su redditi e patrimoni – rivolte al contrasto e alla riduzione delle disparità.
Il secondo elemento all’origine della diseguaglianza è la vertiginosa contrazione della spesa sociale [33], da cui derivano crescenti difficoltà d’intervento a favore dei più deboli, quantomeno per lenire ex post le conseguenze della povertà. Tutti i principali diritti sociali risultano in stato di grave sofferenza: la salute, l’assistenza, l’istruzione, l’abitazione. Per non dire del lavoro. Non è questa la sede in cui si può approfondire l’argomento. Ai fini del discorso in atto, è sufficiente ricordare poche cifre:
a) con il 9,2% rispetto al Pil, l’Italia spende oramai in salute meno di Regno Unito, Spagna, Francia e Germania. Gli indicatori che misurano la salute dei cittadini restano per il momento superiori alla media europea, ma ci si chiede se ancora sarà così quando – come previsto dall’ultimo Documento di economia e finanza (Def) – nel 2019 il finanziamento scenderà al 6,4% del Pil, un decimale al di sotto del livello minimo fissato dall’Ocse affinché un sistema sanitario possa adeguatamente funzionare [34];
b) il Fondo nazionale per le politiche sociali – strumento principe di intervento in materia di assistenza – ammontava nel 2002 a 1,09 miliardi di euro; dieci anni dopo era precipitato a 42,9 milioni. Risalito sopra la soglia dei 300 milioni negli anni successivi, è ridisceso a 77 milioni nel 2017: vale a dire, ad appena il 7% dell’ammontare di un tempo [35]. A ciò vanno aggiunti i tagli che hanno colpito i trasferimenti statali agli enti territoriali (la Corte dei conti ne ha certificati per 40 miliardi di euro tra il 2008 e il 2015) [36], considerato che da tali enti dipende una parte significativa del sistema di assistenza sociale;
c) la spesa in istruzione, colpita dalle draconiane decurtazioni degli anni 2008-2012 (pari ad almeno 10 miliardi di euro), colloca oramai l’Italia agli ultimi posti in Europa, con una quota di risorse impiegate rispetto al Pil di appena il 4% (e conseguenti dati statistici disastrosi riguardo ad abbandono scolastico, percentuale di diplomati e laureati, analfabetismo funzionale) [37];
d) la spesa in edilizia residenziale pubblica è stata praticamente azzerata, nonostante la disponibilità di edilizia residenziale pubblica sia oggi in grado, sul territorio nazionale, di far fronte alle esigenze abitative di 700 mila famiglie, pari ad appena un terzo di quelle che avrebbero realmente necessità di un alloggio [38].
4. Dai vincoli di bilancio ai vincoli al bilancio
Nel quadro della situazione ora sommariamente descritta, il tema dell’attuazione dei diritti costituzionali diventa, a maggior ragione, ineludibile. Se già è problematico assicurare adeguata attuazione a tutti i diritti quando le circostanze economiche sono favorevoli, che fare nei contesti di crisi economica? Anche a volersi limitare al diritto alla casa, come si può, nella situazione attuale, riuscire a dare credibile risposta alla carenza di abitazioni popolari appena ricordata?
Un’indicazione di direzione sembra emergere da quanto detto nei paragrafi inziali a proposito del pluralismo costituzionale e del conseguente necessario bilanciamento tra i diritti. L’indicazione è la seguente: se è vero che tutti i diritti vanno, quantomeno, attuati con riguardo al loro «contenuto minimo essenziale», non tutti gli impieghi delle risorse pubbliche sono allora equivalenti, ma occorre distinguere tra «spese costituzionalmente vincolate», «spese costituzionalmente facoltative» e «spese costituzionalmente vietate». «Spese costituzionalmente vincolate» sarebbero quelle che il legislatore deve necessariamente disporre, in quanto rivolte alla soddisfazione dei livelli essenziali delle prestazioni inerenti ai diritti civili e sociali. «Spese costituzionalmente facoltative» sarebbero quelle che, solo a fronte della eventuale disponibilità di risorse eccedenti, il legislatore è libero di decidere discrezionalmente, al fine di finanziare attività, prestazioni o servizi diversi da quelli inerenti al «nucleo duro» dei diritti. «Spese costituzionalmente vietate» sarebbero, infine, quelle volte a realizzare obiettivi il cui raggiungimento è precluso dalla Costituzione (come, per fare un facile esempio, le spese rivolte a costruire strutture in cui dare esecuzione a sentenze di morte e ad acquistare le strumentazioni a tal fine necessarie).
Si può dire così: posta l’inammissibilità delle «spese costituzionalmente vietate», le «spese costituzionalmente vincolate» devono avere la «priorità» [39] sulle «spese costituzionalmente facoltative», dal momento che queste ultime risultano costituzionalmente legittime solo se, una volta soddisfatte le prime, avanza disponibilità di risorse. Altrimenti, si configurerebbe un utilizzo incostituzionale della discrezionalità politica, contro il quale sarà possibile chiamare a intervenire la Corte costituzionale. Il legislatore agisce, infatti, incostituzionalmente sia se non prevede «spese costituzionalmente necessarie», sia se prevede «spese costituzionalmente facoltative» senza che prima siano state soddisfatte tutte le «spese costituzionalmente necessarie», sia, infine, se prevede «spese costituzionalmente vietate». Se così è, la Corte costituzionale deve allora essere messa in condizione di controllare la manovra di bilancio decisa dal Parlamento, eventualmente colpendola con dichiarazione di incostituzionalità. Come ha scritto Gustavo Zagrebelsky, per le spese che corrispondono a veri e propri diritti di prestazione sanciti dalla Costituzione «non c’è politica (e quindi nemmeno dipendenza da interpositio di valutazioni discrezionali del legislatore) ma solo giurisdizione in nome della Costituzione» [40].
In concreto, si possono distinguere tre ipotesi.
La prima ipotesi è quella dell’inadeguatezza dell’ammontare complessivo delle risorse pubbliche disponibili, per cui, anche se non sono state previste «spese costituzionalmente facoltative», non è comunque possibile soddisfare tutte le «spese costituzionalmente vincolate». In tal caso, sebbene la scelta del quantum spendere spetti al legislatore [41], se le condizioni economiche complessive sono tali da consentire una maggiore spesa (grazie a un maggiore prelievo fiscale), la Corte costituzionale dovrebbe poter dichiarare l’incostituzionalità della legge di bilancio per carenza di entrate. L’ipotesi è presa esplicitamente in considerazione da Massimo Luciani, che immagina due possibili strumenti di intervento [42]:
1) l’«adozione di una sentenza parziale, nella quale enunciare il “principio” dell’incostituzionalità della legge in assenza del reperimento delle risorse necessarie entro il termine indicato, con contestuale fissazione di una nuova udienza subito dopo la scadenza di tale termine. A seguito della seconda udienza si potrebbe adottare la sentenza definitiva, che – ovviamente – sarebbe di rigetto o di accoglimento a seconda della risposta data dal legislatore»;
2) l’adozione di «una sentenza di incostituzionalità condizionata e differita. La Corte potrebbe dichiarare la legge illegittima a condizione che il legislatore non abbia reperito, entro l’esercizio finanziario indicato, le risorse necessarie, con effetti annullatori decorrenti a far data dal maturarsi dell’inadempimento».
La seconda ipotesi è quella in cui, pur in presenza di un’adeguata raccolta di risorse attraverso il sistema fiscale, si sia in presenza di «spese costituzionalmente vietate». A prescindere dal fatto che ciò renda o meno insufficienti le risorse disponibili per le «spese costituzionalmente vincolate», la Corte costituzionale dovrebbe poter dichiarare l’incostituzionalità della legge di bilancio perché prevede decisioni di spesa contrarie alla Costituzione. Come strumento utilizzabile si potrebbe pensare a sentenze di accoglimento parziale che annullano la legge di bilancio nella parte in cui prevede spese contrarie alla Costituzione, con l’effetto di liberare risorse per le «spese costituzionalmente vincolate», se insufficienti, o per ulteriori «spese costituzionalmente facoltative» se le «spese costituzionalmente vincolate» sono già adeguatamente finanziate.
La terza ipotesi è quella in cui, pur in presenza di un’adeguata raccolta di risorse attraverso il sistema fiscale, vi sia un eccesso di «spese costituzionalmente facoltative», tale da rendere insufficienti le risorse disponibili per le «spese costituzionalmente vincolate». In tal caso, grazie a un giudizio di ragionevolezza [43], la Corte costituzionale dovrebbe poter dichiarare l’incostituzionalità della legge di bilancio per cattivo utilizzo della discrezionalità politica nella scelta d’impiego delle risorse tramite sentenze additive di principio che colpiscono la legge di bilancio nella parte in cui non consente di attribuire adeguate risorse per l’attuazione del livello minimo essenziale dei diritti costituzionali. L’ipotesi è presa in considerazione da Cesare Pinelli [44] che immagina la possibilità di impugnare innanzi alla Corte costituzionale le leggi di stabilità e di bilancio in caso di «manifesta inadeguatezza delle risorse necessarie al finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti fondamentali»: operando tramite lo strumento della pronuncia additiva di principio, la Corte avrebbe modo di controllare le scelte di bilancio compiute dal legislatore senza invaderne l’ambito di competenza, dal momento che il Parlamento manterrebbe piena discrezionalità nel decidere come riequilibrare il bilancio, scegliendo quali risorse assegnate a «spese costituzionalmente facoltative» ricollocare in favore delle «spese costituzionalmente vincolate» finanziate in misura insufficiente [45]. C’è, peraltro, almeno un precedente in cui la stessa Corte costituzionale si è spinta oltre: è il caso della sentenza n. 241 del 1989 che, con riferimento al diritto all’abitazione, ha dichiarato incostituzionale l’art. 22, comma 2, della legge finanziaria n. 67 del 1988 perché aveva arbitrariamente sottratto una parte cospicua (5 mila miliardi di lire) del contributo Gescal destinato alla costruzione di abitazioni per i lavoratori dipendenti, assegnandolo al bilancio generale dello Stato [46].
Concludendo sul punto, la possibile soluzione capace di garantire il rispetto delle priorità costituzionali di spesa potrebbe essere quella di configurare vincoli, costituzionalmente giustiziabili, non di ma al bilancio, vale a dire in favore della destinazione di risorse certe all’attuazione del contenuto minimo dei diritti. Come qui sostenuto, è possibile ricavare tali vincoli attraverso l’interpretazione del testo costituzionale. Ma si potrebbe andare oltre: Gianni Ferrara ha proposto di modificare la Costituzione inserendovi una «riserva di bilancio in favore dei diritti sociali» in modo «che nei bilanci di previsione dello Stato, delle regioni, dei comuni il cinquanta per cento della spesa risulti complessivamente destinato a garantire direttamente o anche indirettamente i diritti: alla salute, all’istruzione, alla formazione e all’elevazione professionale delle lavoratrici e dei lavoratori, alla retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro, all’assistenza sociale, alla previdenza, all’esistenza dignitosa ai lavoratori e delle loro famiglie» [47].
5. Il diritto all’abitazione come diritto sociale costituzionalmente garantito
Si può, a questo punto, riprendere il filo del ragionamento sul diritto costituzionale alla casa.
Come si ricorderà, l’iniziale, rapida, ricognizione della dottrina in materia aveva consentito di raggiungere una prima conclusione: se non ci si limita a considerare l’art. 47 Cost. isolatamente, ma si guarda alla Costituzione nel suo complesso, si può allora affermare l’esistenza di un diritto costituzionale sociale all’abitazione. Subito, però, si era posta la questione inerente al grado di effettività assicurabile al diritto stesso: riconoscere il diritto all’abitazione nel novero dei diritti sociali costituzionalmente garantiti implica, infatti, che si tratti di un diritto immediatamente azionabile o di un vincolo essenzialmente politico? Sulla base di quanto sostenuto nei paragrafi precedenti, dovrebbe ora essere chiaro che la risposta va ricercata più nella prima che nella seconda direzione. Se davvero un diritto costituzionale all’abitazione è entrato a far parte – ancorché implicitamente – del compromesso costituzionale, allora il legislatore ha il dovere di provvedere alla sua attuazione, quantomeno per quel che concerne il suo «contenuto minimo essenziale».
In tal senso sembra andare la stessa giurisprudenza costituzionale. Con le sentenze n. 49 del 1987, n. 217 del 1988 e n. 404 del 1988 [48] la Consulta ha infatti proclamato l’esistenza di un «dovere collettivo di “impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione” (sentenza n. 49 del 1987)», precisando che tale dovere assume una duplice valenza: da un lato, «connota (…) la forma costituzionale di Stato sociale»; dall’altro lato, «riconosce un diritto sociale all’abitazione collocabile fra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 della Costituzione» (sentenza n. 404 del 1988). Ne deriva – ha detto ancora la Corte – che, tra i «compiti cui lo Stato non può abdicare in nessun caso», al fine di «creare le condizioni minime di uno Stato sociale», rientra quello di «concorrere a garantire al maggior numero di cittadini possibile un fondamentale diritto sociale, quale quello all’abitazione», così contribuendo «a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana» (sentenza n. 217 del 1988) [49].
Una presa di posizione molto netta, che tuttavia stride aspramente con la realtà oggi osservabile, se solo si ricorda lo iato sopra segnalato tra domanda e offerta di edilizia residenziale pubblica. La cosa che più sorprende, a tale proposito, è la direzione opposta lungo cui si sono mosse dottrina e politica negli ultimi decenni: quanto più, infatti, cresceva il riconoscimento del diritto all’abitazione nella prima, tanto più diminuiva nella seconda. Una contraddizione che merita di essere approfondita.
5.1 La parabola della dottrina: dall’accezione debole all’accezione forte del diritto all’abitazione
Iniziando dalla dottrina, si possono distinguere le posizioni degli studiosi a seconda che ricostruiscano il contenuto del diritto all’abitazione in un’accezione “debole” o in un’accezione “forte”.
Tra i fautori dell’accezione “debole” vi sono coloro – come Franco Modugno e Paolo Caretti [50] – per i quali il diritto all’abitazione va configurato come «un diritto strumentale rispetto ad altre situazioni soggettive riconosciute di bisogno». Dunque, non un diritto in sé, ma una sorta di complemento di altri diritti costituzionali. Tali diritti hanno soprattutto a che fare con la famiglia di fatto e si concretizzano nel riconoscimento del diritto a succedere nel contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, a favore:
a) del convivente more uxorio;
b) del coniuge separato di fatto, se tra i coniugi era stata convenuta la conservazione dell’abitazione per uno solo di essi;
c) del già convivente quando vi sia prole naturale;
d) dei figli di un figlio premorto del conduttore, se conviventi con quest’ultimo sino al momento del decesso [51].
Si comprende la “debolezza” dell’accezione qui riassunta: come scrive Franco Modugno, il diritto alla casa può, sì, porsi come «obiettivo di un programma del legislatore e dei pubblici poteri» – programma che «può ritenersi, al limite, persino implicitamente imposto (…) dalla Costituzione» – ma non può giungere a «negare la proprietà privata, la libera iniziativa economica e quindi il libero mercato anche soltanto nel settore della offerta e della domanda delle abitazioni» [52].
All’opposto, per i fautori dell’accezione “forte” il diritto all’abitazione configura un vero e proprio diritto soggettivo a ricevere un’abitazione (a qualsiasi titolo: proprietà, locazione o assegnazione) o a conservarla qualora la si sia già ricevuta (la giurisprudenza di merito degli anni Settanta ha parlato, in proposito, di «diritto alla stabilità di godimento del proprio alloggio»). Enfatizza al massimo tale posizione chi – come Andrea Giorgis – arriva a ipotizzare la configurabilità di un ricorso giudiziale volto a ottenere (eventualmente anche in via d’urgenza, ex art. 700 cpc) effettiva tutela del diritto a fronte dell’inerzia dei pubblici poteri [53]. In questa prospettiva, ciascun essere umano, non importa se cittadino o meno, risulterebbe titolare di un «vero e proprio diritto soggettivo alla casa» a condizione che:
1) il bene “abitazione adeguata” sia considerato essenziale;
2) tale bene sia già realizzato per iniziativa di un soggetto pubblico o privato;
3) esista una struttura organizzativa pubblica alla quale sia stato attribuito dal legislatore il compito di assicurare l’attuazione del diritto all’abitazione.
E, poiché la prima condizione è soddisfatta dall’assunzione di una prospettiva interpretativa della Costituzione magis ut valeat [54] (e comunque è stata fatta propria dalla stessa Corte costituzionale); la seconda dalla constatazione della presenza, specie nei centri urbani, di numerose abitazioni non abitate (si calcola che i vani sfitti siano addirittura 20 milioni, per un’offerta potenziale pari a dieci volte la domanda effettiva); la terza dalle previsioni legislative che attribuiscono a Stato, regioni ed enti locali il compito di attuare i precetti costituzionali in materia di abitazione: da tutto ciò ne consegue che i giudici potrebbero, effettivamente, essere considerati nella condizione di «ordinare l’assegnazione di un alloggio (di edilizia pubblica) o, in alternativa, l’erogazione di una somma di denaro, pur non prevista nel bilancio nazionale, regionale e locale, tale da consentire anche ai meno abbienti di disporre di una abitazione adeguata» [55]. In definitiva, per rispondere alla domanda formulata all’inizio: il diritto all’abitazione andrebbe inteso come un vincolo non solo politico, ma pienamente giuridico.
5.2 L’opposta parabola del legislatore: dall’attuazione all’inattuazione del diritto all’abitazione
Se la dottrina segue un percorso segnato dalla progressiva valorizzazione del diritto all’abitazione, l’attività legislativa risulta invece – come accennato – connotata da un processo di progressiva svalutazione.
Storicamente, due sono le linee lungo le quali si è mosso l’intervento del legislatore. La prima è quella rivolta all’incremento del numero delle abitazioni disponibili, da ottenersi tramite la realizzazione di un sistema di edilizia residenziale pubblica con cui provvedere alla costruzione di nuove unità abitative e alla loro assegnazione ai bisognosi [56]. La seconda è quella vertente sulla tutela della parte debole nei rapporti contrattuali di diritto privato – caso tipico, il rapporto di locazione – che vedono entrare in relazione il proprietario di un immobile e un soggetto interessato a fare di quell’immobile il proprio luogo di abitazione.
Gli interventi del primo tipo (edilizia residenziale pubblica) si snodano, sia pure a pause alterne, lungo l’arco della storia repubblicana, dal piano Ina-casa del 1949 (legge n. 43 del 1949) alle cd. riforme federaliste (d.lgs n. 112 del 1998 e revisione del Titolo V) realizzate sul finire del secolo scorso [57]. In mezzo, il cd. piano Gescal-Gestione Case per i lavoratori (legge n. 60 del 1963), la razionalizzazione degli Iacp e l’istituzione del Comitato edilizia residenziale (Cer) come “cabina di regia” centralizzata a livello statale (legge n. 865 del 1971), il coinvolgimento degli enti territoriali con funzioni di programmazione locale, per quanto riguarda le regioni, e assegnazione degli alloggi, per quanto riguarda i comuni (d.lgs n. 616 del 1977), il cd. piano decennale per l’edilizia residenziale (legge n. 457 del 1978), gli interventi di recupero del patrimonio esistente (legge n. 179 del 1992) e di alienazione del patrimonio (legge n. 560 del 1993). Si tratta di un percorso di progressivo abbandono dell’impegno pubblico in materia, sino al passaggio delle principali competenze in materia dallo Stato alle regioni, origine del vero e proprio «collasso del sistema» [58]. Un dato su tutti: le risorse destinate alla realizzazione del diritto all’abitazione, pari dal 26% degli investimenti pubblici totali negli anni Cinquanta, crollano a meno dell’1% negli anni Duemila. Oggi l’Italia riserva alle politiche abitative appena lo 0,09% delle proprie spese per il welfare, contro l’1,19% del Regno Unito, il 2,05% della Germania e il 2,62% della Francia [59].
Quanto agli interventi del secondo tipo (limitazioni alla libertà contrattuale dei privati nelle locazioni immobiliari per uso abitativo), meritano soprattutto di essere ricordate la legge n. 392 del 1978, che ha predefinito la durata delle locazioni abitative e previsto, come corrispettivo, un canone prefissato dalla legge in base alle caratteristiche dell’immobile locato (cd. equo canone, venuto poi meno nel 1998), e i numerosi provvedimenti legislativi che, a partire dal 1979, hanno costantemente rinnovato la sospensione degli sfratti per rilascio di immobili, tanto per fine locazione, quanto per morosità (cd. blocco degli sfratti).
L’insieme di questi interventi rende evidente come, sul finire degli anni Settanta, vi sia stato il tentativo, da parte del legislatore, di intervenire organicamente sulla materia, da un lato prevedendo il rilancio delle misure di edilizia residenziale pubblica, dall’altro adottando provvedimenti-tampone (il riferimento è soprattutto al blocco degli sfratti) volti a sopperire a quella che allora poteva ritenersi una carenza di alloggi temporanea e in via di superamento [60]. Di seguito, il progressivo abbandono dell’impegno in materia.
6. Dall’attuazione del diritto all’abitazione alla repressione del disagio abitativo
Volendo gettare, conclusivamente, uno sguardo sull’oggi, sembra di poter dire che il problema abitativo delle fasce della popolazione maggiormente disagiate risulti oramai quasi del tutto espunto dall’agenda politico-legislativa.
A fronte di una crisi abitativa dalle dimensioni sopra ricordate (quasi 1,5 milioni di famiglie impossibilitate ad accedere all’edilizia residenziale pubblica per insufficiente disponibilità di abitazioni) [61], gli ultimi interventi in materia paiono ispirati, oltre che dall’intento di rilanciare il settore edilizio a sostegno della ripresa economica [62], essenzialmente dalla preoccupazione di reprimere i comportamenti privati di reazione al disagio abitativo [63]. Siamo al completo ribaltamento dell’impostazione costituzionale: anziché dare attuazione al diritto previsto nella Carta fondamentale, in modo da dare soddisfazione alle esigenze materiali a esso sottostanti, il legislatore interviene esclusivamente per impedire che tali esigenze possano sfociare in azioni volte a farvi autonomamente fronte. Con l’assurdo risultato che comportamenti – come l’occupazione di immobili abbandonati – mossi dall’intento di dare soddisfazione a un bisogno riconosciuto come diritto costituzionale provocano la reazione penale dello Stato sulla base di previsioni normative di rango legislativo: un vero e proprio cortocircuito logico-giuridico.
È evidente quanto lontano sia il disegno costituzionale così mirabilmente riassunto dalla Consulta nella sentenza n. 217 del 1988: considerata l’«acuta tensione [esistente] tra il riconoscimento di un diritto sociale fondamentale, quello all’abitazione, e la situazione reale, caratterizzata da una preoccupante carenza di effettività dello stesso diritto», è necessario «l’impegno concorrente del complesso dei poteri pubblici rientranti nel concetto di Repubblica», allo scopo della realizzazione di misure che soddisfino l’«inderogabile imperativo costituzionale di ridurre la distanza o la sproporzione nel godimento dei beni giuridici primari» [64]. Riaccendere i riflettori sul diritto all’abitazione può essere importante per contribuire a rilanciare questo impegno.
[*] Il presente articolo, frutto della rielaborazione della relazione tenuta al convegno organizzato da Magistratura democratica «Diritti sociali e diritto all’abitazione. Occupazioni abusive, ruolo della giurisdizione» (Bologna, 17 maggio 2017), è basato su due lavori già pubblicati: F. Pallante, Gli stranieri e il diritto all’abitazione, in Costituzionalismo.it, n. 3, 2016, pp. 135-155 e F. Pallante, Dai vincoli di bilancio ai vincoli al bilancio (in occasione di Corte costituzionale, sentenza n. 275 del 2016), in Giurisprudenza costituzionale, n. 6, 2016, pp. 463-487.
[1] Peraltro, come fa notare F. Bilancia, Brevi riflessioni sul diritto all’abitazione, in Le istituzioni del federalismo, n. 3-4, 2010, pp. 245 ss., l’art. 47, comma 2, Cost. mostra una sorprendente attualità: la «tutela» del «risparmio popolare» come strumento di «accesso alla proprietà dell’abitazione» è esattamente quel che è mancato nella vicenda dei cd. mutui subprime, a quanto pare il fattore scatenante della crisi economica mondiale (cfr. altresì P. Chiarella, Il diritto alla casa: un bene per altri beni, in Tigor: rivista di scienze della comunicazione, n. 2, luglio-dicembre 2010, pp. 140 ss..
[2] Così D. Sorace, A proposito di «proprietà dell’abitazione», «diritto all’abitazione» e «proprietà (civilistica) della casa», in Aa.Vv., Scritti in onore di Costantino Mortati, vol. III, Giuffrè, Milano 1977, pp. 1037-1038.
[3] Tra coloro che, più di recente, assumono questa prospettiva, cfr. Q. Camerlengo, Costituzione e promozione sociale, Il Mulino, Bologna 2014, p. 172 e S. Civitarese Matteucci e G. Gardini, Diritto alla casa e uguaglianza sostanziale: dalla edilizia economica e popolare ai programmi di riabilitazione urbana, in Pausania.it, http://www.pausania.it/files/relaz_gardini_civitarese.pdf, pp. 7-8. Contra A. Pace, Il convivente more uxorio, il «separato in casa» e il c.d. diritto «fondamentale» all’abitazione, in Giurisprudenza costituzionale, n. 1, 1988, pp. 1801 ss., che denuncia l’atteggiamento della Consulta troppo orientato verso la scoperta di “nuovi” diritti.
[4] T. Martines, Il “diritto alla casa”, in N. Lipari (a cura di), Tecniche giuridiche e sviluppo della persona, Laterza, Roma-Bari, 1974, pp. 392 ss.
[5] F. Modugno, I «nuovi diritti» nella giurisprudenza costituzionale, Giappichelli, Torino, 1995, p. 63.
[6] M.S. Giannini, L’amministrazione pubblica dello Stato contemporaneo, Cedam, Padova 1988, pp. 35 ss.
[7] Come scrive M. Luciani, Diritti sociali e livelli essenziali delle prestazioni pubbliche nei sessant’anni della Corte costituzionale, in Rivista AIC, n. 3, 2016, pp. 1 ss., il pluralismo produce «integrazione politica», specie attraverso l’attuazione dei diritti sociali. Insiste sull’attitudine dei diritti sociali di dare concretezza al principio di solidarietà L. Carlassare, Solidarietà: un progetto politico, in Costituzionalismo.it, n. 1, 2016, specie pp. 57 ss.
[8] C. Schmitt, Le categorie del «Politico», Il Mulino, Bologna, 1972 (ed. orig. 1927).
[9] H. Kelsen, La democrazia, Il Mulino, Bologna, 1984 (ed. orig. 1929).
[10] Sul tema del bilanciamento cfr. G. Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge diritti giustizia, Einaudi, Torino, 1992, pp. 170 ss. e A. Morrone, Il bilanciamento nello stato costituzionale. Teoria e prassi delle tecniche di giudizio nei conflitti tra diritti e interessi costituzionali, Giappichelli, Torino, 2014. Quanto al nesso di implicazione esistente tra costituzioni pluraliste e giustizia costituzionale, cfr. G. Zagrebelsky e V. Marcenò, Giustizia costituzionale, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 50 ss.
[11] L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 15 e Id. Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, vol. I, Teoria del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 822.
[12] Punto 4.1 del Considerato in diritto.
[13] Punto 9 del Considerato in diritto.
[14] A. Morrone, Il bilanciamento nello stato costituzionale cit., p. 10.
[15] Per il significato del contenuto essenziale dei diritti in un ordinamento costituzionale pluralista, cfr. P. Häberle, Le libertà fondamentali nello Stato costituzionale, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1993, pp. 92 ss. e, con riferimento all’ordinamento costituzionale italiano, anche per una panoramica della dottrina in argomento, M. Losana, Il riconoscimento del principio di uguaglianza sostanziale nell’ordinamento dell’Unione europea: modelli di riconoscimento, tecniche di realizzazione, strumenti di garanzia, Jovene, Napoli, 2010, pp. 120 ss.
[16] Punto 4 del Considerato in diritto (la sentenza richiama come precedenti le sentenze n. 251 del 2008 e n. 226 del 2000).
[17] Sulle criticità di tale nozione cfr. D. Messineo, La garanzia del “contenuto essenziale” dei diritti fondamentali. Dalla tutela della dignità umana ai livelli essenziali delle prestazioni, Giappichelli, Torino, 2012 e F. Pizzolato, Il minimo vitale. Profili costituzionali e processi attuativi, Giuffrè, Milano, 2004, pp. 117 ss. Nella giurisprudenza costituzionale cfr. la sentenza n. 134 del 1982, criticabile – a giudizio di G. Razzano, Lo “statuto” costituzionale dei diritti sociali, relazione al Convegno annuale dell’Associazione “Gruppo di Pisa” sul tema I diritti sociali: dal riconoscimento alla garanzia. Il ruolo della giurisprudenza, Trapani, 8-9 giugno 2012, https://www.gruppodipisa.it/images/rivista/pdf/Giovanna_Razzano_-_Lo_statuto_costituzionale_dei_diritti_sociali.pdf, par. 5 – per aver «lasciato ampia discrezionalità al legislatore nel determinare [il] minimum».
[18] La bibliografia sul tema è amplissima. Si può iniziare da: A. Brancasi, Bilancio (equilibrio di), in Enciclopedia del diritto, annali VII, Milano 2014, pp. 167-186; C. Buzzacchi, Bilancio e stabilità. Oltre l’equilibrio finanziario, Giuffrè, Milano, 2015, specie cap. 2; D. Cabras, L’introduzione del principio del c.d. pareggio di bilancio: una regola importante per la stabilizzazione della finanza pubblica, in Quaderni costituzionali, n. 1, 2012, pp. 111-115; T.F. Giupponi, Il principio costituzionale dell’equilibrio di bilancio e la sua attuazione, in Quaderni costituzionali, n. 1, 2014, pp. 51-77; M. Luciani, L’equilibrio di bilancio e i princìpi fondamentali: la prospettiva del controllo di costituzionalità, relazione al seminario Il principio dell’equilibrio di bilancio secondo la riforma costituzionale del 2012, Corte costituzionale, Roma, 22 novembre 2013, http://www.cortecostituzionale.it/documenti/convegni_seminari/Seminario2013_Luciani.pdf; A. Morrone, Pareggio di bilancio e Stato costituzionale, in Rivista AIC, n. 1, 2014; G. Scaccia, L’equilibrio di bilancio fra Costituzione e vincoli europei, in Osservatorio sulle fonti, n. 2, 2013; A. Tabacchi, L’equilibrio dei bilanci: una regola costituzionale “europea” per le finanze pubbliche, in Rassegna parlamentare, n. 1, 2013, pp. 109-150.
[19] A. Ruggeri, La Consulta rimette abilmente a punto la strategia dei suoi rapporti con la Corte EDU e, indossando la maschera della consonanza, cela il volto di un sostanziale, perdurante dissenso nei riguardi della giurisprudenza convenzionale (“a prima lettura” di Corte cost. n. 264 del 2012), in Consulta online, Sezione “Studi e Commenti”, 2012, p. 6, http://www.giurcost.org/studi/Ruggeri23.pdf.
[20] L. Carlassare, Diritti di prestazione e vincoli di bilancio, in Costituzionalismo.it, n. 3, 2015, p. 153.
[21] Naturalmente ci sarebbe una terza opzione: l’abrogazione dell’equilibrio di bilancio dal dettato costituzionale. Qui, però, si intende fare realisticamente i conti con il dato normativo esistente.
[22] È la stessa Corte costituzionale a dirlo nella sentenza n. 88 del 2014, là dove, facendo espresso riferimento alla revisione operata dalla l. cost. 20 aprile 2012, n. 1, lascia «intendere (…) che l’equilibrio di bilancio avrebbe potuto essere elemento attivo del bilanciamento» (I. Ciolli, L’art. 81 della Costituzione: da limite esterno al bilanciamento a super principio, in Forum di Quaderni costituzionali, 26 maggio 2015, http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2015/05/ciolli.pdf, p. 1): con la conseguenza che non solo può limitare gli altri principi, ma che anche può esserne limitato.
[23] In dottrina, aveva indicato questa prospettiva P. Barile, La Costituzione come norma giuridica, Firenze, Barbera, 1951. Per un’ampia ricostruzione della questione, cfr. M. Losana, Il riconoscimento del principio di uguaglianza sostanziale nell’ordinamento dell’Unione europea cit., pp. 248 ss.
[24] Ad accomunare i primi quattro casi, pur nella diversità delle questioni trattate, era la necessità di decidere se i sacrifici economici richiesti a determinate categorie di cittadini in tempo di crisi fossero o meno conformi alla Costituzione. In estrema sintesi: nel primo e nel secondo caso l’equilibrio di bilancio ha prevalso, rispettivamente, sul diritto alla previdenza (art. 38 Cost.) e sul diritto del contribuente (art. 53 Cost.); nel terzo caso il diritto alla previdenza (art. 38 Cost.) ha prevalso sull’equilibrio di bilancio; nel quarto caso l’equilibrio di bilancio e il diritto di libertà sindacale (art. 39 Cost.) hanno prevalso il primo per il passato, il secondo per il futuro. Nell’incertezza di questo quadro, la sentenza n. 275 del 2016: è potenzialmente suscettibile di lasciare il segno per la perentorietà del suo passaggio centrale, in cui si legge che «è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione» (punto 11 del Considerato in diritto): un’affermazione di portata generale, idonea potenzialmente a operare come regola “di sistema” in tutti i casi in cui esigenze di attuazione dei diritti costituzionali ed esigenze finanziarie dovessero porsi in contrapposizione.
[25] Sul tema dei diritti, in particolare sociali, in rapporto alla crisi economica scoppiata nel 2007 cfr.: I. Ciolli, I diritti sociali, in F. Angelini e M. Benvenuti, Il diritto costituzionale alla prova della crisi economica, Jovene, Napoli, 2012, pp. 83 ss.; S. Gambino (a cura di), Diritti sociali e crisi economica. Problemi e prospettive, Giappichelli, Torino, 2015; A. Poggi, Crisi economica e crisi dei diritti sociali nell’Unione Europea, in Rivista AIC, n. 1, 2017; C. Salazar, Crisi economica e diritti fondamentali. Relazione al XXVIII Convegno dell’Aic, in Rivista AIC, n. 4, 2013; G. Razzano, Lo “statuto” costituzionale dei diritti sociali, relazione al Convegno annuale dell’Associazione “Gruppo di Pisa” sul tema I diritti sociali: dal riconoscimento alla garanzia. Il ruolo della giurisprudenza, Trapani, 8-9 giugno 2012, https://www.gruppodipisa.it/images/rivista/pdf/Giovanna_Razzano_-_Lo_statuto_costituzionale_dei_diritti_sociali.pdf; A. Spadaro, Diritti sociali di fronte alla crisi (necessità di un nuovo “modello sociale” europeo: più sobrio, solidale e sostenibile, in Rivista AIC, n. 4, 2011.
[26] Cfr. il rapporto The Role and Design of net wealth taxes, 12 aprile 2018, http://www.oecd.org/ctp/the-role-and-design-of-net-wealth-taxes-in-the-oecd-9789264290303-en.htm.
[27] Cfr. http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Income_distribution_statistics/it.
I dati Istat riportano una situazione ancora peggiore. Come risulta dal Bilancio di fine legislatura redatto da Sbilanciamoci! – http://sbilanciamoci.info/un-bilancio-fine-legislatura/ – sulla base dei rilievi dell’istituto di statistica nazionale, nel 2017 versavano in condizioni di povertà 13,2 milioni di italiani (4,7 milioni in povertà assoluta e 8,5 milioni in povertà relativa). Contando anche le fasce di popolazione a rischio, Sbilanciamoci! stima che si raggiunga un totale di 18 milioni di persone povere o sulla soglia della povertà (il 30% della popolazione). Si tratta di numeri raddoppiati al 2005. Secondo Save the Children, la povertà colpisce in modo particolare i bambini: 1,3 milioni dei poveri assoluti e 2 milioni dei poveri relativi sarebbero, infatti, minori. Cfr. https://www.savethechildren.it/sites/default/files/files/uploads/pubblicazioni/viii-atlante-dellinfanzia-rischio-lettera-alla-scuola.pdf
[28] La serie storica può essere consultata qui: http://www.ifh.assogestioni.it/Cubo/Viewer?confId=55.
[29] I dati sono consultabili qui: http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/submitViewTableAction.do. Dei Paesi di dimensioni comparabili a quelle dell’Italia, solo la Spagna risulta maggiormente diseguale.
[30] Per una ricostruzione sintetica ma completa del quadro delle disuguaglianze in Italia, cfr. M. Franzini e M. Pianta, Disuguaglianze. Quante sono, come combatterle, Laterza, Roma-Bari 2016. A.B. Atkinson, Disuguaglianza. Cosa si può fare?, Raffaello Cortina, Milano, 2015 consente di contestualizzare il discorso tenendo conto delle dinamiche mondiali.
[31] S. Boscolo, Che fine ha fatto la progressività dell’Irpef?, in Lavoce.info, 23 marzo 2018, http://www.lavoce.info/archives/52070/fine-la-progressivita-dellirpef/. Merita ricordare che, quando venne istituita nel 1973, l’Irpef prevedeva trentadue scaglioni, con aliquote che andavano da un minimo del 10% a un massimo del 72%. Oggi – come noto – gli scaglioni sono solo più cinque e le aliquote variano tra il 23% e il 43%, anche se l’Ufficio studi del Consiglio nazionale dei commercialisti ha calcolato che – tra esenzioni, sgravi, deduzioni, detrazioni e compensazioni di varia natura – solo un contribuente su quattro paga un’aliquota superiore al 15% (la rielaborazione dei dati della dichiarazione dei redditi del 2016 ha rivelato che, su 40,9 milioni di contribuenti, 12,6 milioni sono esenti dal pagamento dell’imposta, 18,1 milioni contribuiscono con un’aliquota inferiore al 15%, 10,2 milioni pagano un’imposta superiore al 15%. Cfr. http://www.cndcec.it/Portal/Documenti/Dettaglio.aspx?id=748288af-d701-4083-97d5-c7e3f74f03d9.
[32] Cfr., per quanto concerne l’Ocse, il già citato rapporto The Role and Design of net wealth taxes del 12 aprile 2018 (http://www.oecd.org/ctp/the-role-and-design-of-net-wealth-taxes-in-the-oecd-9789264290303-en.htm) e, con riguardo al Fmi, il Fiscal monitor: Capitalizing on Good Times dell’aprile 2018 (https://www.imf.org/en/Publications/FM/Issues/2018/04/06/fiscal-monitor-april-2018). Per rendere l’idea dell’anomalia che connota il nostro sistema tributario sulle successioni è sufficiente ricordare che l’aliquota italiana più alta risulta inferiore alla più bassa aliquota della corrispondente imposta tedesca.
[33] Cfr. il Bilancio di fine legislatura redatto da Sbilanciamoci!, http://sbilanciamoci.info/un-bilancio-fine-legislatura/. Tanto più che, come nota L. Carlassare, Diritti di prestazione e vincoli di bilancio, in Costituzionalismo.it, n. 3, 2015, pp. 151 ss., la politica dei “tagli” alla spesa sociale produce un esito paradossale, dal momento che è proprio nelle fasi di crisi economica che i cittadini, e in particolare quelli più deboli, hanno maggiore necessità di veder tutelati i propri diritti.
[34] Documento di economia e finanza 2018, Sezione II, Analisi e tendenze della finanza pubblica, p. 37, http://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato8781361.pdf.
[35] Cfr. http://www.condicio.it/focus/fondo-politiche-sociali/. Il discorso si farebbe maggiormente articolato, pur non cambiando sostanzialmente di segno, qualora venisse preso in considerazione il complesso dei “fondi sociali nazionali”, vale a dire i fondi allocati presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali e presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze che contribuiscono alle diverse “voci” di cui si compone la spesa sociale. A seconda dei fondi presi in considerazione, analisi diverse producono risultati diversi. Una rassegna contenente elementi che, se confermati, consentirebbero di introdurre una qualche nota di ottimismo può essere consultata qui: https://welforum.it/fondi-sociali-nella-legge-bilancio-2018/.
[36] La notizia può essere consultata qui: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2015-07-30/corte-conti-8-anni-40-miliardi-tagli-enti-locali-063636.shtml?uuid=ACF4C2Z.
[39] Così L. Carlassare, Priorità costituzionali e controllo sulla destinazione delle risorse, in Costituzionalismo.it, n. 1, 2013.
[40] G. Zagrebelsky, Problemi in ordine ai costi delle sentenze costituzionali, in Aa.Vv., Le sentenze della Corte costituzionale e l’art. 81, u.c. della Costituzione, Atti del seminario svoltosi in Roma, Palazzo della Consulta, nei giorni 8 e 9 novembre 1991, Giuffrè, Milano, 1993, p. 24.
[41] Come scrive M. Luciani, Diritti sociali e livelli essenziali delle prestazioni pubbliche nei sessant’anni della Corte costituzionale, in Rivista AIC, n. 3, 2016, p. 16, è decisione «schiettamente politica».
[42] M. Luciani, Diritti sociali e livelli essenziali delle prestazioni pubbliche nei sessant’anni della Corte costituzionale cit., pp. 17-18
[43] È Lorenza Carlassare ad aver individuato nel giudizio di ragionevolezza lo strumento attraverso cui dare la corretta priorità alle decisioni di spesa, rilevando come «per mettere due leggi a confronto con i principi e denunziare la violazione della logica imposta dalla Costituzione nell’allocazione delle risorse, gli strumenti e le tecniche di giudizio alla Corte non mancano. Tanto più che spesso non si tratterà di mettere a confronto con i principi due leggi, ma due norme contenute in disposizioni della medesima legge relativa al bilancio dello Stato». (L. Carlassare, Priorità costituzionali e controllo sulla destinazione delle risorse cit., p. 13).
[44] C. Pinelli, Interpretazione e interpreti dell’equilibrio di bilancio, in Astrid Rassegna, n. 5, 2015, p. 19.
[45] Due recenti casi sembrano andare per la prima volta in questa direzione. La Corte costituzionale ha infatti colpito con dichiarazione di parziale nullità le leggi regionali del Piemonte contenenti i bilanci di previsione per il 2013 (sentenza n. 188 del 2015) e il 2014 (sentenza n. 10 del 2016), unitamente ai relativi bilanci pluriennali e agli interventi di assestamento e variazione, perché non destinavano alle province piemontesi risorse adeguate a far fronte alle funzioni (anche di carattere sociale) loro conferite o delegate dalla Regione stessa. L’intervento della Consulta è stato tanto incisivo da spingersi a indicare le UPB e i capitoli del bilancio inadeguatamente finanziati, pur senza giungere al punto di indicare la cifra da destinarvi. Ciò rende queste sentenze delle particolarissime additive di principio (i dispositivi dichiarano, rispettivamente per i bilanci 2013 e 2014, l’incostituzionalità dell’unità previsionale di base UPB DB05011, capitolo 149827R, «nella parte in cui non consent[e] di attribuire adeguate risorse per l’esercizio delle funzioni conferite (…) dalle (…) leggi regionali»).
[46] Un caso analogo è ipotizzato da Alessandro Pace con riguardo al finanziamento della scuola privata quando risultano insufficienti le risorse destinate alla scuola pubblica (A. Pace, Il diritto all’istruzione nel tempo di crisi, in Astrid Rassegna, n. 4, 2013).
[47] G. Ferrara, Regressione costituzionale, in Costituzionalismo.it, 18 aprile 2012.
[48] Più prudenti erano state la sentenza n. 45 del 1980, l’ordinanza n. 128 del 1980 e la sentenza n. 252 del 1983 (che, come dice la Corte stessa, «non aveva[no] dato il dovuto rilievo all’abitazione come bene primario»).
[49] Una posizione assai netta, che non scaturisce, peraltro, esclusivamente dalla ricostruzione giurisprudenziale del dettato costituzionale, bensì anche dal riconoscimento dell’esistenza di vincoli di diritto positivo riconducibili all’ordinamento internazionale: La Corte ricorda la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 (art. 25) e il Patto internazionale dei diritti economici, sociali e culturali del 1966 (art. 11), ma meritano di essere richiamati anche la Convenzione internazionale per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 1965 (art. 5), la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne del 1979 (art. 14), la Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo del 1989 (art. 27) e, nell’ambito del Consiglio d’Europa, la Carta sociale europea del 1961 e 1996 (artt. 30 e 31). In base a tali disposizioni, il diritto all’abitazione viene riconosciuto quale componente di una più ampia aspettativa, di cui sarebbero titolari tutti gli esseri umani, a condurre un’esistenza realmente dignitosa (la disponibilità di un’abitazione risulterebbe, in effetti, strumento particolarmente idoneo a combattere l’emarginazione sociale e la povertà).
[50] F. Modugno, I «nuovi diritti» nella giurisprudenza costituzionale cit., pp. 58 ss. e P. Caretti, I diritti fondamentali. Libertà e diritti sociali, Giappichelli, Torino, 2005, pp. 424 ss.
[51] Sono tutte questioni oggetto di giudizi di costituzionalità: si vedano, rispettivamente, le sentenze n. 45 del 1980, n. 404 del 1988, n. 423 del 1988, n. 545 del 1989, n. 28 del 1990, n. 394 del 2005 della Corte costituzionale.
[52] F. Modugno, I «nuovi diritti» nella giurisprudenza costituzionale cit., p. 58.
[53] A. Giorgis, Il diritto costituzionale all’abitazione. I presupposti per una immediata applicazione giurisprudenziale, in Questione Giustizia trimestrale, n. 6/2007, Franco Angeli, pp. 1129-1138. Altri sostenitori dell’accezione “forte” del diritto all’abitazione sono F. Corvaja, L’accesso dello straniero extracomunitario all’edilizia residenziale pubblica, in Diritto immigrazione cittadinanza, n. 3/2009, pp. 89 ss., G. Gilardi, Abitare: un diritto, non una semplice aspettativa, in Questione Giustizia trimestrale, n. 1, 2008, Franco Angeli, pp. 111 ss., M. Golinelli, «La casa è il mio mondo». I migranti e la questione abitativa, in Questione Giustizia trimestrale, n. 1, 2008, Franco Angeli, pp. 136 ss.
[54] Secondo quanto sostenuto da V. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Giuffrè, Milano, 1952, p. 11.
[55] A. Giorgis, Il diritto costituzionale all’abitazione cit., p. 1134.
[56] Più precisamente, si può distinguere tra: a) edilizia sovvenzionata: è quella che «fruisce di contributo diretto dello Stato ed è finalizzata a realizzare alloggi da destinare permanentemente in locazione agli aventi titolo (in base a parametri legati al reddito e alla categoria lavorativa) destinati a ruotare man mano che gli assegnatari escono dai parametri reddituari»; b) edilizia agevolata: è quella «diretta alla proprietà della casa per categorie “protette o corporative” con la previsione di agevolazioni statali circa la copertura degli interessi sui mutui contratti dagli assegnatari»; c) edilizia convenzionata: è quella «diretta anch’essa alla proprietà della casa e per specifiche categorie che si avvale di prezzi di locazione o di acquisto successivo a prezzi calmierati in base a convenzioni stipulate con i Comuni». Così P. Urbani, L’edilizia residenziale pubblica tra Stato e autonomie locali, in Le istituzioni del federalismo, n. 3/4, 2010, p. 252.
[57] I primi interventi, a livello comunale, risalgono comunque agli inizi del Novecento e vengono, poi, sviluppati dal regime fascista con la legge n. 251 del 1903 (cd. legge Luttazzi), che istituì i primi Iacp (Istituti autonomi per le case popolari), e il TU n. 1165 del 1938.
[58] Così P. Urbani, L’edilizia residenziale pubblica tra Stato e autonomie locali cit., p. 251.
[59] Dati del Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale (CeRGAS) dell’Università Bocconi (maggio 2013): http://www.cergas.unibocconi.it/wps/wcm/connect/a62a8bad-69ab-4659-9730-e26baa4afd8a/Presentazione+CERGAS+09_06.pdf?MOD=AJPERES&CVID=kr7W0zC.
[60] In realtà, le cose andarono poi diversamente da quanto previsto, in particolare con riferimento alla seconda tipologia di interventi, che risultò, quanto all’equo canone, largamente elusa nelle contrattazioni private e, quanto al blocco degli sfratti, oggetto delle censure della Corte costituzionale per la trasformazione del suo carattere temporale da transitorio a permanente (sentenze n. 310 del 2003 e n. 155 del 2004).
[61] Non va dimenticato che il disagio abitativo colpisce anche parte di coloro che hanno la disponibilità di un’abitazione, considerato che 1,7 milioni di famiglie incontra difficoltà nel pagare regolarmente il canone di locazione e che gli sfratti per morosità sono decine di migliaia ogni anno (cfr. http://www.unioneinquilini.it/public/doc/Tabelle_Anno_2016.pdf).
[62] Si inseriscono in questa visione tanto il cd. “piano-casa” Berlusconi (realizzato con leggi regionali dopo l’intesa Stato-regioni-enti locali del 1° aprile 2009), che consentiva ai proprietari di ampliare i propri immobili sfruttando bonus volumetrici che, in alcuni casi, arrivavano al 75% della superficie, quanto la cd. “legge sblocca-Italia” (legge n. 164 del 2014, Capo V), che elimina la richiesta di autorizzazione per lo svolgimento di lavori di ristrutturazione edilizia (compresi frazionamenti e accorpamenti di unità immobiliari), sostituendola con una mera comunicazione ai competenti uffici comunali. Il tutto, peraltro, in un Paese segnato da un abusivismo edilizio che pare inarrestabile, nonostante i ripetuti condoni (si stima che le domande in attesa di regolarizzazione siano almeno 5 milioni), e da un conseguente eccesso di disponibilità abitativa inutilizzata (su un totale di 14,5 milioni di edifici, 7 milioni risultano vuoti e 1,5 milioni sottoutilizzati: l’offerta potenziale di abitazioni supera di dieci volte la domanda reale).
[63] Si pensi: a) al dl n. 47 del 2014 (converto nella legge n. 80 del 2014), il cui art. 5 mira a contrastare il fenomeno dell’occupazione abusiva degli immobili, sancendo il divieto di concessione della residenza anagrafica e la nullità dei contratti di allaccio o voltura delle utenze di gas, acqua, elettricità e telefono (su cui (E. Ponzo, L’articolo 5 del “Piano Casa” del governo Renzi. Un dubbio bilanciamento tra esigenze di legalità e diritto alla casa, in Costituzionalismo.it, n. 2, 2014). Ora l’art. 11 del dl n. 14 del 2017 (cd. decreto Minniti), convertito nella legge n. 48 del 2017, ha introdotto una disposizione che consente al sindaco di garantire l’allaccio alle utenze in caso di presenza di minori nell’immobile occupato; b) al d.lgs n. 72 del 2016, recante attuazione della direttiva 2014/17/UE, in cui si prevede che, in caso di mancato pagamento di diciotto rate di muto, anche non consecutive, da parte del mutuatario, la banca titolare dell’ipoteca possa procedere alla vendita dell’immobile direttamente, senza dover sottostare ai vincoli previsti in caso di vendita tramite intervento dell’autorità giudiziaria (cfr. la scheda di lettura predisposta dai servizi studi di Camera e Senato, consultabile all’indirizzo internet: http://documenti.camera.it/Leg17/Dossier/Pdf/FI0411.Pdf).
[64] Punto 5.2 del Considerato in diritto.