1. I due volti della moderna costituzione
La costituzione moderna ha il duplice volto di Giano. Essa è constituere e constitutio. Da un canto è costruzione di un nuovo ordine sociale attraverso la potenza della politica, dall’altro è preservazione di un ordine, originario o conseguito, dalle pretese della politica di manometterlo. Da una parte vi è l’indirizzo fondamentale dei poteri costituiti, che corrisponde ad un progetto di società e che rinvia ad una decisione politica fondamentale, dall’altra l’esercizio di una funzione di garanzia dei diritti, affidata alla giurisdizione costituzionale ed a quella comune. L’indirizzo fondamentale della Costituzione italiana è inscritto nell’art. 3 cpv.: la rimozione degli ostacoli economico-sociali che, limitando l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione dei lavoratori all’organizzazione del Paese. E’ un «compito della Repubblica», come prevede la norma, non un comune principio.
Non è difficile rintracciare le origini storiche di questi due lati del costituzionalismo moderno. Il constituere risale alla presa della Bastiglia il 14 luglio 1789. Il suo problema storico è quello della costituzione di un nuovo ordine mediante l’abbattimento della gerarchia dei ceti e la promozione della società dei cittadini portatori di eguali diritti. La constitutio rinviene invece il suo il paradigma originario nella rivoluzione americana, il cui problema storico non era un antico regime da abbattere, ma la protezione dei diritti dei coloni dalla madrepatria inglese. Non è un caso che sia stata la Corte suprema americana ad avere affermato, per la prima volta, nel 1803 (Marbury v. Madison), il primato della costituzione sugli atti legislativi. Nell’idea di constitutio, quale preservazione dell’ordine vigente, residua il fondo di tradizionalismo della old constitution che i cittadini del Nuovo Mondo ereditano dalla vecchia Inghilterra, e con essa il primato medievale del diritto sulla politica, ma nel corso del tempo il costituzionalismo americano ha avuto anche il segno della trasformazione sociale.
Nell’esperienza occidentale i due lati del costituzionalismo non sono, infatti, rimasti reciprocamente non comunicanti. Al contrario, vi sono state forme di ibridazione, perché l’assolutezza del constituere ha il costo del deficit in termini di garanzia dei diritti derivante dal perseguimento dell’impresa collettiva, mentre l’assolutezza della constitutio ha il costo di un potere pubblico che non ha altro scopo che la protezione dei diritti individuali. Le costituzioni dell’Europa continentale hanno sviluppato, in primo luogo attraverso i tribunali costituzionali, la funzione di garanzia dei diritti, mentre il costituzionalismo americano è diventato fattore di progresso sociale attraverso la “politica” dei diritti sviluppata dalla Corte suprema.
Quanto abbiamo finora tratteggiato corrisponde ai modelli storici ed alle tendenze di lungo periodo. Una costituzione vivente ideale sarebbe quella che realizzi un perfetto equilibrio fra i due lati del constituere e della constitutio. E’ il progetto, storico e normativo, del Moderno cui dovremmo restare saldamente ancorati. I processi costituzionali non possono però essere scritti a tavolino sulla base di un documento scritto, ma vivono del contesto materiale, si nutrono, cioè, del processo storico-sociale. E’ acquisendo questo punto di vista che possiamo scorgere i nodi, ancora da sciogliere, del costituzionalismo contemporaneo.
2. Cronaca di un mutamento
Le società dell’Europa continentale, ed in particolare quella italiana, sono profondamente cambiate, nel trentennio che ha fatto seguito al secondo conflitto mondiale, grazie a politiche di redistribuzione economico-sociale, e di trasferimento di risorse fra gruppi sociali, che inveravano il «compito» che l’art. 3 cpv. Cost. affida alla Repubblica. La pervasività dell’indirizzo fondamentale, supportata da un sistema di partiti politici con un forte radicamento sociale e dalle organizzazioni dei lavoratori, teneva fermo il legame sociale intorno ad un’impresa collettiva. Vi era il conflitto sociale, ma vi era anche un’incisiva organizzazione politica dei rapporti sociali, che contribuiva al mantenimento di una fondamentale coesione su obiettivi comuni. In tutto questo vi era il segno profondo di un costituzionalismo centrato sul constituere. Quest’ultimo è anche un modello di potere pubblico: tutte le istituzioni repubblicane, compresa la magistratura, sono attraversate da un comune indirizzo fondamentale, mentre il modello di origine statunitense del pluralismo istituzionale non conosce un indirizzo unitario dei poteri, ma solo l’effetto di libertà che deriva dal gioco del potere che frena l’altro potere, perché l’imperativo istituzionale non è in questo caso la trasformazione sociale, ma la tutela dei diritti individuali. Non è comprensibile la svolta del congresso di Gardone del 1965 dell’Associazione Nazionale Magistrati, nella cui mozione finale si legge che il giudice «deve essere consapevole della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia», senza l’inclusione della magistratura fra le istituzioni della costituzione quale indirizzo fondamentale.
Con gli anni Ottanta si avvia un processo che non è solo costituzionale, ma anche socio-politico. In breve, si assiste ad un progressivo depotenziamento della funzione costituzionale di indirizzo delle istituzioni e della società, cui, a partire dalla seconda metà del decennio, anche grazie ad una sempre più penetrante legislazione comunitaria, si accompagna una progressiva espansione della funzione di garanzia, di cui ben presto diventa protagonista non solo la giurisdizione costituzionale, ma anche quella comune.
Rispetto alla vecchia giurisprudenza costituzionale dei limiti naturali dei diritti fondamentali, la funzione di garanzia si arricchisce di due nuove dimensioni: sulla scena appaiono i principi e la garanzia costituzionale si esercita come bilanciamento fra principi all’insegna del criterio della compressione strettamente necessaria del principio soccombente (c.d. criterio di proporzionalità); la fonte primaria non è più solo quella costituzionale, ma ad essa si accompagna la fonte sovranazionale del diritto comunitario (poi euro-unitario) e quella internazionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Principi e pluralismo delle fonti disegnano in modo nuovo la funzione costituzionale di garanzia, della quale i giudici comuni diventano soggetto attivo non solo grazie all’incidente di costituzionalità, ma anche grazie alla cosiddetta interpretazione conforme a costituzione.
Viene inoltre a maturazione una tendenza che, sul piano dell’interpretazione in generale della legge, si era già affacciata nel trentennio del costituzionalismo come constituere. La funzione precettiva, e non meramente programmatica, della costituzione aveva portato i giuristi a mettere in discussione il neutralismo dell’ermeneutica tradizionale basata sulla coincidenza di legge e significato linguistico del testo normativo, in realtà veicolo di inserimento nell’attività interpretativa dei valori soggettivi dell’interprete. Doveva schiettamente prendersi atto della portata di mero enunciato linguistico della disposizione legislativa. La norma si produceva così nel corso dell’interpretazione sulla base di quanto rivelato dall’enunciato e con la compartecipazione valoriale dell’interprete, ormai educato ai valori costituzionali.
Questa tendenza si è oggi stabilizzata nei termini seguenti: il precetto che la giurisprudenza porta alla luce è quello che è già contenuto nell’enunciato linguistico, i cui confini non possono essere superati pena, come affermano le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. Sez. U. n. 9659 del 2023), l’usurpazione di funzioni normative da parte dell’interprete, che così creerebbe una nuova disposizione, un enunciato linguistico cioè, non esistente nell’ordinamento. Non c’è creazione di norma in senso proprio se l’interprete resta nei margini delle potenzialità semantiche dell’enunciato linguistico, il quale resta tuttavia il vincolo in ultima istanza dell’attività interpretativa. «L’attività interpretativa, quindi, non può superare i limiti di tolleranza ed elasticità dell’enunciato, ossia del significante testuale della disposizione che ha posto, previamente, il legislatore e dai cui plurimi significati possibili (e non oltre) muove necessariamente la dinamica dell’inveramento della norma nella concretezza dell’ordinamento ad opera della giurisprudenza» (Cass. Sez. U. n. 24413 del 2021).
Depotenziamento della funzione di indirizzo, potenziamento di quella di garanzia e vincolo essenzialmente linguistico nell’interpretazione della legge: sono questi i nodi da affrontare.
3. Constituere e interpretazione conforme
Non c’è un rapporto di causa-effetto, ma c’è sicuramente il medesimo contesto temporale nella ricorrenza sia di un’abbondanza di dichiarazioni di diritti e di corti addette alla loro applicazione, come mai prima la civiltà occidentale aveva conosciuto, che di una crisi sempre più profonda del sistema democratico in termini di «partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3 cpv. Cost.). L’espansione del giudiziario avviene in un ambiente di diffusa disaffezione alla politica, di cui l’imponente astensionismo elettorale, ma anche la stessa volatilità degli elettori, sono la manifestazione più evidente. Ciò che le democrazie contemporanee sembrano evidenziare è la perdita della percezione della partecipazione ad un’impresa collettiva e dell’identificazione in un comune indirizzo fondamentale, con la slabbratura del legame sociale e l’avvio di processi di identificazione mobile e contingente, su base individuale e non collettiva, esposti alle derive più diverse. Ad una stagione di forti appartenenze collettive subentra un’epoca di polverizzazione e atomizzazione sociale, che fa parlare perfino di declino della democrazia, quale esperienza collettiva di autogoverno mediante la rappresentanza politica. Insomma, un paesaggio sociale e politico decisamente differente da quello del trentennio successivo al 1945.
Se da una parte procedono i fenomeni di disintermediazione politica e disgregazione sociale, dall’altra la tendenza è alla giurisdizionalizzazione dei rapporti sociali. Il governo della propria vita è afferrato non prendendo parte ai procedimenti, a diversi livelli, della decisione politica, ma facendo ricorso ad un giudice. Di fronte a questo scenario, il primo passo è cominciare a prendere di petto alcuni nodi e provare a scioglierli. Il primo nodo è certamente quello del depotenziamento della funzione costituzionale di indirizzo, perché è innegabile che un nesso vi sia fra l’indebolimento del versante del constituere e lo sfilacciamento del legame sociale e della partecipazione al processo democratico.
Un costituzionalismo appiattito sulla funzione di garanzia è politicamente destrutturato dal punto di vista della costituzione quale politica fondamentale di una comunità. Esso esprime la logica postmoderna dell’identità liquida, nella quale non vi sono più imprese collettive, non si fanno più avanti istanze di autodeterminazione del proprio destino all’interno di una comunità, secondo quanto la modernità europea ha proposto nel corso della sua formazione secolare, ma vi sono solo individui, sciolti da nessi di appartenenza, disponibili a qualsiasi deriva che possa rappresentare una forma di identificazione e orientati a fare dell’iniziativa giudiziaria l’unico mezzo di contatto con il pubblico potere. Non più cittadini che concorrono «con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art. 49 Cost.), ma parti in giudizio o autori di esposti presso le procure della Repubblica.
Si tratta ovviamente di un ragionamento ideal-tipico, perché la nostra non è un’epoca di giuridificazione integrale dei rapporti, come lo era l’ordine giuridico medievale, ma si tratta tuttavia di segni, questa volta negativi, dei tempi. Non è dalla magistratura che può partire la riattivazione della funzione costituzionale del constituere, perché quest’ultima non si colloca dal lato della garanzia, che è quello della giurisdizione, ma dal lato della trasformazione sociale (anzi, un attivismo giudiziario, da questo lato, potrebbe aggravare la fuga dalla politica nella direzione della giurisdizione, e la magistratura non può essere complice del processo di depoliticizzazione della società). Il costituzionalismo è, su questo versante, un fenomeno materiale, è l’esito di un processo complesso, dove prendono parte una pluralità di soggetti, istituzionali, politici e sociali. E’ la Weltanschauung di una società, globalmente considerata. Una ripresa del costituzionalismo quale politica fondamentale di una comunità deve poi confrontarsi, in un’epoca di sovranazionalismo, con la variabile Unione Europea.
Non si può naturalmente negare che anche la garanzia dei diritti possa essere un fattore di promozione sociale. E’ troppo facile richiamare il diritto del lavoro, perché quest’ultimo appare, come elemento di trasformazione sociale, proprio nella stagione costituzionale dell’indirizzo fondamentale. Si può invece richiamare il cambiamento sociale dovuto all’introduzione di una serie di diritti civili o alle politiche antidiscriminatorie che vengono dall’Unione europea. Tutto questo significa indubbiamente civilizzazione dei rapporti attraverso il diritto, ma ciò a cui stiamo guardando ora è il compito di rimozione delle diseguaglianze economico-sociali che l’art. 3 cpv. affida alla Repubblica, un tema riapertosi prepotentemente dopo il ritorno negli anni Ottanta della centralità della mediazione di mercato ed il dominio del capitalismo finanziario nei successivi decenni di globalizzazione. Dal ristretto punto di vista della magistratura, quello su cui bisogna interrogarsi è il rapporto fra il precetto dell’art. 3 cpv. ed il bilanciamento dei principi costituzionali.
Il bilanciamento fra principi, cui provvede il legislatore nel porre la norma, corrisponde ad una scelta politica ed in questo ambito è libero. Politica è l’opzione in favore di un determinato principio, piuttosto che in favore di un altro, ma politica è la stessa posizione della fattispecie legale, quale espressione tecnico-giuridica della graduazione e combinazione dei principi. Il limite giuridico di questa libera scelta risiede nel canone di proporzionalità, corollario della regola suprema di eguaglianza formale, in base al quale la compressione del principio soccombente deve avvenire nello stretto necessario per realizzare il principio prevalente ed in modo che il nucleo indisponibile del principio perdente lasci una traccia e non sia del tutto sacrificato. Se però si tratta di una norma di attuazione dell’eguaglianza sostanziale, il bilanciamento non è più libero. La rimozione delle diseguaglianze economico-sociali non è un principio che cada in un bilanciamento, è un compito della Repubblica, come prevede espressamente l’art. 3 cpv.. Non c’è da bilanciare questo compito fondamentale della Repubblica, c’è da darvi obbligatoriamente attuazione, per cui gli altri principi sono sempre soccombenti. La scelta politica è giuridificata dall’essere espressione della scelta politica costituzionale. I principi riemergono dal lato della compressione proporzionata e sufficiente del principio che, nell’occasione, sia rimasto cedevole di fronte all’imperativo dell’eguaglianza sostanziale. La direzione del bilanciamento è imposta dalla Costituzione, ma il principio soccombente deve essere salvaguardato nel suo nucleo essenziale.
L’interpretazione conforme all’art. 3 cpv. è il contributo limitato che la magistratura, come istituzione della Repubblica, ancor prima che come organo di garanzia, può dare alla ripresa di un costituzionalismo quale politica fondamentale del potere pubblico. E’ un compito della Repubblica che la magistratura, in questo modo, assume, coerentemente al modello di costituzione-indirizzo fondamentale. Gardone rappresenta qui ancora un punto di non ritorno. Il volto dell’istituzione repubblicana è nella finalizzazione dell’interpretazione conforme al superamento della diseguaglianza economico-sociale, il volto del giudice risiede nell’inclusione del criterio ermeneutico della proporzionalità nella compressione del principio soccombente. L’interpretazione conforme va esercitata nei confronti della legge che, dovendo rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale di cui all’art. 3 cpv., manchi il suo obiettivo perché nel bilanciamento tale compito resta soccombente o perché, pur trattandosi di legge di promozione sociale, il mezzo previsto non sia conciliabile con il fine dell’eguaglianza sostanziale, sempre che i margini linguistici della disposizione consentano l’adeguamento a costituzione.
Quest’ultimo aspetto consente di introdurre un tema più generale sulla interpretazione della legge nel contesto del costituzionalismo contemporaneo: è coerente soggezione del giudice alla legge la riduzione di quest’ultima ad enunciato linguistico? Il punto fisso ed inaggirabile da cui muovere per l’attività interpretativa è dato solo dalle potenzialità semantiche dell’enunciato?
4. L’interpretazione della legge nell’epoca del pluralismo dei principi
Si suole discorrere di creazionismo giudiziario quando si tematizza il rapporto fra disposizione e norma. La metafora della creazione è adoperata perché la norma, tratta dalla disposizione, corrispondente all’enunciato linguistico, non c’è prima dell’interpretazione, ma questo non significa che l’interprete sia produttore di diritto, significa solo che la disposizione rivela la norma, che in essa è depositata, solo grazie al contributo dell’interprete. Si misura qui la diversa valenza dei discorsi interpretativi, quello della giurisprudenza con valenza prescrittiva su cosa è diritto e quello della dottrina con valenza soltanto descrittiva. Il primo costituisce un valore giuridico e partecipa della funzione prescrittiva dell’ordinamento, il secondo è conoscenza scientifica.
Costituisce usurpazione di funzioni normative (“eccesso di potere giurisdizionale”) l’interpretazione giurisprudenziale che ecceda i confini del linguaggio, fraintendendo la stessa portata semantica dell’enunciato. Il percepire diversamente il significante linguistico dell’enunciato corrisponde così alla posizione di una disposizione diversa da quella che il legislatore ha posto, attraverso l’introduzione di una possibilità di significato normativo che non c’è nell’ordinamento. Non di interpretazione in senso proprio si tratta, ma dello stadio precedente rappresentato dalla percezione linguistica. Ma se ciò integra l’assunzione di funzioni para-normative da parte dell’interprete, il limite dell’interpretazione in generale non può essere dato soltanto dal mero enunciato linguistico, perché vi è un vincolo ulteriore rispetto al linguaggio, che costituisce in realtà la sostanza della soggezione del giudice alla legge. Fra l’eccesso di potere, derivante dal fraintendimento linguistico, ed il rispetto delle potenzialità semantiche dell’enunciato non c’è la libertà senza limiti dell’interprete.
Come ho detto in precedenza, la divaricazione di norma e disposizione ha avuto il merito storico del superamento dell’appiattimento dell’interpretazione alla lettera della legge, secondo i canoni di una scuola esegetica che occultava le scelte di valore dell’interprete dietro la neutralità del rispetto del testo. La legge era soprattutto il codice, ed il codice non poteva più essere interpretato in modo disancorato dalla Costituzione. Era questo il contesto del cambio di paradigma. Il codice per sua parte rinviava all’omogeneità sociale di una società basata su divisioni semplici e limitate linee di frattura. Quando nel costituzionalismo entra la problematica dei principi e del loro bilanciamento, quello è il segno che la società è cambiata e con essa anche la legge. Non a caso, da una certa epoca in poi si comincia a parlare di età della decodificazione e di moltiplicazione della legislazione speciale.
Lo spartiacque fra il vecchio codice e la nuova legge è il pluralismo, quale cifra fondamentale della società a qualsiasi livello, sociale, valoriale, religioso, culturale. Questo pluralismo si riflette nel costituzionalismo come pluralismo di principi. Ogni principio ed ogni forma di relazione (prevalenza o soccombenza) fra principi corrisponde ad una scelta politica, la quale rinvia, a sua volta, a valori e culture diverse. Anche l’interprete sta di fronte alla legge con i principi corrispondenti alla sua scelta politica, ma, a fronte del dominio del pluralismo, non è più il tempo di concepire l’interpretazione come l’accostamento ad un enunciato linguistico dal punto di vista dei valori di cui l’interprete medesimo si fa portatore. La legge ha ora una densità di principi che impone all’interprete di mettere da parte il principio che corrisponde alla sua scelta politica.
Costituisce un’acquisizione irreversibile la forza maieutica dell’interpretazione, la disposizione ha tuttavia un nocciolo duro che fa attrito rispetto all’estrazione della norma per via interpretativa e che non può essere circoscritto alle potenzialità semantiche dell’enunciato. Per riprendere la definizione di Herbert L. A. Hart di norma come struttura aperta, il nucleo di certezza, intorno al quale vi sono i margini di dubbio affidati al dispiegarsi dei fenomeni interpretativi, non è dato solo dal significato linguistico, ma da un ulteriore limite che precede l’attività interpretativa. Coerentemente alla genesi della legge moderna nel pluralismo, il limite è dato dalla scelta del principio prevalente da parte del legislatore nell’ambito di un bilanciamento. Di questo sono consapevoli le Sezioni Unite, quando affermano che la posizione della norma avviene «nell'ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione» (Cass. Sez. U. n. 12193 del 2019). Il nucleo di certezza della disposizione, ulteriore rispetto all’enunciato linguistico, corrisponde alla scelta politica del legislatore in favore di un principio nell’ambito di una graduazione fra principi. L’interprete non può sostituire la scelta politica del legislatore con quella propria in favore di un diverso principio. Sull’asse della scelta politica, indisponibile per l’interprete, ruota la norma, quale mezzo giuridico apprestato per il perseguimento del fine politico, norma che resta affidata al dispiegarsi dei diversi fenomeni interpretativi nel corso del tempo. E’ la radice dinamica ed evolutiva della giurisprudenza, mediante la quale il fondo precettivo della disposizione si rivela in modo cumulativo e progressivo.
L’indisponibilità per l’interprete del senso politico del diritto non significa che un’interpretazione della legge da parte della Corte di Cassazione o delle corti superiori delle giurisdizioni speciali, che contraddica la scelta politica soggiacente la norma, possa costituire usurpazione di poteri normativi. Tale è, come abbiamo visto, soltanto la posizione di una nuova disposizione mediante il fraintendimento linguistico dell’enunciato. La scelta politica non è parte della norma, ma la fonda, condizionando l’interpretazione. Il contenuto del precetto è uno svolgimento del giudizio di valore iniziale (del legislatore o dell’interprete) La sostituzione della scelta politica del legislatore con quella dell’interprete si riflette nell’ermeneutica della disposizione. E’ sempre dunque l’interpretazione ad essere in gioco e l’interpretazione non può costituire materia per un conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato (legislativo e giudiziario), perché è il proprium del potere giudiziario. L’unica autorità legittimata a rilevare l’interpretazione contra legem è la stessa giurisprudenza la quale, supportata in questo dal contributo fondamentale della dottrina, apporta gli aggiustamenti necessari nella sua funzione di attuazione dell’ordinamento giuridico, secondo la logica incrementale e progressiva che è propria alla giurisprudenza. E’ questo il punto di equilibrio fra la sovranità popolare, che si manifesta attraverso la rappresentanza politica, ed il potere dei giudici di interpretare la legge.
Il vincolo della scelta politica non viene meno neanche con l’interpretazione conforme a costituzione. Quest’ultima è espressione della gerarchia fra le fonti (o della cessione di sovranità, nel caso della disciplina euro-unitaria) e del criterio della conservazione degli atti giuridici. La supremazia costituzionale e la conservazione della legge impongono di guardare alla disposizione unicamente quale complesso di segni linguistici. Poiché, però, la non conformità a costituzione risiede nella compressione non proporzionata del principio soccombente, ciò che l’interpretazione conforme richiede non è un mutamento della scelta politica, cioè di quale debba essere il principio prevalente, ma soltanto una modifica nel bilanciamento, in modo da giungere alla compressione del principio perdente nella misura strettamente necessaria ed in modo da salvaguardare il suo nucleo indisponibile. L’interpretazione conforme copre l’area solo di ciò che appare incostituzionale. La norma che l’interprete deve estrarre dall’enunciato linguistico, fermi i confini di quest’ultimo, deve corrispondere alla compressione proporzionata del principio soccombente, che il cattivo bilanciamento non ha rispettato, facendo salva la scelta politica del legislatore in favore di un principio determinato, perché non è quest’ultima l’oggetto dalla valutazione di incostituzionalità. Soltanto nel caso dell’interpretazione conforme all’art. 3 cpv. può essere mutato il segno della scelta politica, ma qui, come si è visto nel precedente paragrafo, la scelta politica che si fa valere è quella del costituente, mentre, nel caso della normativa euro-unitaria, il relativo adeguamento non è altro che il riempimento dell’involucro linguistico con la scelta politica unionale.
Possiamo agevolmente rileggere il fenomeno dell’interpretazione conforme alla luce della conversione del contratto nullo di cui all’art. 1424 cod. civ., che esprime la regola aurea del principio di conservazione degli atti giuridici: la legge, come il contratto nullo, «può produrre gli effetti» di una norma diversa, della quale contenga gli stessi «requisiti» linguistici («di sostanza e di forma»), purché sia rispettata la scelta politica del legislatore («lo scopo perseguito dalle parti»), dovendo soltanto così ritenersi che questi «avrebbe[ro] voluto» la norma diversa in presenza della correzione della causa di «nullità» (ossia il sacrificio del principio soccombente nello stresso necessario, salvaguardando il suo nucleo indisponibile). Si consegue così anche nel campo dell’interpretazione conforme l’equilibrio fra sovranità popolare e potere giudiziario.
5. L’imparzialità dell’interprete
Proprio perché la legge moderna è un condensato di principi da decifrare, l’interprete deve mettere da parte i principi che corrispondono alle sue scelte politiche e di valore, ed accostarsi in modo neutrale ed imparziale alla disposizione. Ho scritto più volte che il giudice deve assumere un dovere di indipendenza da se stesso, non solo quando deve interpretare la legge, ma anche quando deve renderla conforme alla Costituzione, in questo secondo caso perché, stendendo un velo di ignoranza sul principio corrispondente alla sua scelta politica, egli deve identificare la proporzione ideale di compressione del principio soccombente nel bilanciamento, senza sostituire la scelta politica alla base della norma con una propria scelta politica. Lo stato di fatto dell’interprete è quello della collocazione in un determinato contesto di valori e culture. Il dover essere, che da lui si pretende, è quello di un auto-trascendimento, in vista dell’emancipazione dalle proprie appartenenze valoriali. E’ un esercizio che bisogna compiere, e la motivazione del provvedimento, che il giudice adotterà, darà conto di questo percorso di ascesi. Vi è un’imperfezione da scontare in questi esercizi, ed è la natura umana, e non erculea, per dirla con Ronald Dworkin, dell’interprete. Ciò che importa è la coerente assunzione del dovere di indifferenza rispetto alle proprie concezioni di ciò che è bene per la comunità.
L’assunzione del dovere di indipendenza da se stessi attiene alla responsabilità del giudicare. Il giudice deve puntare ad una condizione ideale di emancipazione dalla propria soggettività quale assunzione di una responsabilità. Il cattivo esercizio della giurisdizione, se derivante dall’inadempimento del dovere di indipendenza da se stessi, non produce conseguenze giuridiche sul piano dello statuto del magistrato, perché il tutto si risolve all’interno del sistema delle impugnazioni della decisione. Il diritto, però, non è soltanto un sistema di fattispecie legali produttrici di conseguenze giuridiche, come sostiene la concezione legalistica. Se si allarga lo sguardo, e si guarda pure alla concezione cosiddetta istituzionalistica, il diritto è anche un complesso di regole costitutive di una prassi, la quale non esisterebbe senza quelle regole, come il gioco degli scacchi, che non esiste prima delle regole che lo costituiscono. La prassi che le regole costituiscono è un’istituzione e non rispettare quelle regole significa muoversi fuori della funzione istituzionale che le regole identificano. Come muovere un cavallo in diagonale vuol dire smettere di giocare a scacchi, così per un giudice non puntare all’indipendenza da se stesso vuol dire muoversi all’esterno della prassi istituzionale del giudicare e non restare leali all’istituzione, la quale va servita con «disciplina ed onore», come prevede per ogni cittadino cui siano affidate funzioni pubbliche l’art. 54 Cost.. L’indipendenza costituzionale del giudice dagli altri poteri, prevista dal primo comma dell’art. 104 Cost., comporta l’indipendenza del giudice da se stesso, quale dovere identificativo della funzione istituzionale e coefficiente di responsabilità dell’indipendenza costituzionale.
Viene così in gioco la regola costitutiva della funzione giudiziaria rappresentata dall’imparzialità. Si innesta qui un altro lato del problema: la necessità che l’interprete non solo sia, ma anche appaia imparziale. L’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo prevede che per legge possono essere fissate condizioni e restrizioni alla libertà di espressione a garanzia dell’imparzialità del potere giudiziario. Il dovere di riserbo del magistrato non deve farci dimenticare che, come affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Żurek c. Polonia del 16 giugno 2022, «il diritto generale alla libertà di espressione dei giudici nell’affrontare questioni riguardanti il funzionamento del sistema giudiziario può trasformarsi in un corrispondente dovere di parlare in difesa dello Stato di diritto e dell’indipendenza giudiziaria quando questi valori fondamentali sono minacciati».
Lo statuto della libertà di espressione del giudice nella moderna società democratica è un work in progress che si alimenta delle diverse circostanze nelle quali quella libertà interferisce con la necessità che, per quanto appare all’esterno, le parti del processo possano fare affidamento su un giudice imparziale. A differenza della violazione del dovere di indipendenza da se stesso, le cui conseguenze giuridiche restano sul piano dell’impugnazione della decisione, non apparire imparziali potrebbe mettere in moto una fattispecie legale al livello dello statuto del magistrato e produrre degli effetti giuridici, a parte l’illecito disciplinare derivante dall’iscrizione ai partiti politici e dalla partecipazione sistematica e continuativa ad essi, nonché dal «coinvolgimento nelle attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario che possono condizionare l'esercizio delle funzioni o comunque compromettere l'immagine del magistrato» (art. 3, comma 1, lett. h, legge n. 109 del 2006).
In linea di principio, non c’è materia né per l’illecito disciplinare, che si ha, oltre che nel caso appena richiamato, quando la violazione dei doveri di imparzialità e riserbo arreca ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti (art. 2, comma 1, lett. a, d. lgs. n. 109 del 2006), né per l’obbligo di astensione, le cui ragioni sono sempre relative al processo ed al caso concreto, mentre l’intervento in sede dottrinale o la manifestazione di dissenso politico rispetto ad una legge restano sul piano astratto e generale (senza, poi, considerare il rispetto che il giudice deve al valore dell’uniformità della giurisprudenza, anche quest’ultima regola costitutiva della funzione giudiziaria, la quale obbliga il giudice, entro certi limiti, a mettere da parte le sue convinzioni quale studioso del diritto). Si tratta piuttosto di una questione di professionalità del magistrato in senso tecnico-giuridico, che può quindi incidere sulle relative valutazioni cui è periodicamente addetto il Consiglio Superiore della Magistratura.
Sul punto due criteri possono essere fissati. Il primo, ricavato dal principio soggiacente l’art. 3, comma 1, lett. h, legge n. 109 del 2006, è che la libertà di espressione va esercitata fino al punto in cui essa non rinvii ad un’appartenenza che possa minare l’indipendenza del giudice, perché ciò che, in realtà, deve apparire non è tanto l’imparzialità, che ne è la conseguenza, ma l’indipendenza. Il secondo è che la libertà di espressione va esercitata secondo modalità che non consentano alle parti del processo di dubitare circa l’assunzione da parte del giudice di un dovere di indipendenza da se stesso. Un magistrato che, assegnato alla trattazione (in via esclusiva o prevalente) degli affari in materia consumeristica, sia un impegnato attivista, con una forte e riconosciuta presenza pubblica, nelle associazioni a difesa dei consumatori non consente al professionista, controparte in giudizio del consumatore, di confidare sulle capacità del giudice di auto-trascendersi al momento del giudizio. Una cosa è la fredda argomentazione tecnica spesa in un convegno scientifico, altra cosa è la passione e il calore che accompagna un attivo impegno politico, sia pure non partitico, in un’associazione quale quella a difesa dei consumatori.
6. La sfida per l’associazionismo giudiziario
Di fronte alla magistratura associata c’è oggi la costellazione di nodi che abbiamo tratteggiato. Il prossimo congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati, dedicato proprio al tema “magistratura e legge tra imparzialità e interpretazione”, potrebbe avere una valenza costituente, come accadde a Gardone nel 1965. A quel tempo, come ho anticipato, si era nel cuore della stagione del constituere: in una fase in cui la Costituzione era il motore della trasformazione sociale, bisognava prendere sul serio il modello di società che essa prefigurava e adattare ad esso la legge, fuori dal falso agnosticismo di una interpretazione fedele osservante del testo normativo. Oggi siamo al cospetto di un costituzionalismo in frammenti: l’attuazione sospesa del disegno costituzionale di società, lo spostamento degli individui dai luoghi della democrazia alle aule di giustizia, le domande nuove che la forma di legge pone all’interprete. Questi frammenti si proiettano nell’associazionismo giudiziario e formano le diverse anime che lo compongono. Il punto è che, proiettandosi come frammenti, sono esposti a percorsi di avvitamento involutivi.
La centralità di una politica costituzionale dell’eguaglianza sostanziale, se non si accorda al tema dell’imparzialità dell’interpretazione ed alla esigenza di garanzia del nucleo essenziale dei principi soccombenti rispetto all’imperativo egualitario, rischia la deriva nel primato della scelta politica dell’interprete. D’altra parte, una visione puramente concentrata sulla pluralità dei principi ed i diversi livelli di fonti del diritto per un verso rischia di essere politicamente destrutturata dal punto di vista costituzionale, perché smarrisce il senso dell’attraversamento di tutte le istituzioni repubblicane da parte dell’imperativo politico-costituzionale della trasformazione sociale, per l’altro rischia di restare inconsapevole di quanto la giurisdizionalizzazione dei rapporti possa allontanare i cittadini dai circuiti del processo democratico.
Più in generale, deve essere compreso il vero significato dell’immagine del giudice garante dei diritti fondamentali. Questi ultimi, nel costituzionalismo contemporaneo, sono formulati per principi. Ciascuno di essi corrisponde ad una scelta politica ed il compito della giurisdizione non è perseguire la scelta politica in favore di un principio, ma salvaguardare il rispetto del criterio di proporzionalità nel bilanciamento fra principi che il legislatore ha stabilito. E’ il rispetto del criterio di proporzionalità, e non il diritto fondamentale ut sic, che il giudice garantisce quando provvede all’interpretazione conforme a costituzione. Per restare ad una terminologia tradizionale, ciò che il giudice deve garantire è l’applicazione del diritto oggettivo, solo che questo non è più soltanto la legge, ma anche il corretto bilanciamento dei principi costituzionali e, naturalmente, le fonti plurali che integrano l’ordinamento.
Soltanto nell’ipotesi residuale della diretta attuazione dei principi costituzionali, ove manchi la fattispecie legale e non vi sia riserva di legge, il giudice presta garanzia al principio che reputa prevalente sulla base di una scelta di valore, la quale sarà recessiva una volta che il legislatore, introducendo la fattispecie legale, abbia fatto la propria scelta politica. Si tratta di un’ipotesi eccezionale, che trova un addentellato nella giurisprudenza costituzionale sulle sentenze additive di principio, e in relazione alla quale è il divieto del non liquet a giustificare una scelta politica, quale è quella dell’identificazione del principio prevalente, sia pure per fissare il diritto di un caso concreto, da parte di un organo estraneo alla rappresentanza politica. Si comprende così perché sia la necessità di fare scelte politiche ad imporre la legge e a non permettere che il diritto sia affidato alla sola costituzione.
Infine, la legge. Riproporre il tema della soggezione alla legge, senza immetterlo nel contesto del moderno pluralismo dei principi, e senza saldarlo sia all’inevitabile contributo dell’interprete nella costruzione del fenomeno interpretativo che alla necessità di tenere ferma l’interpretazione conforme, significa restare avviluppati nel testualismo e nella vecchia scuola dell’esegesi, inconsapevoli della distanza che c’è fra noi giuristi del ventunesimo secolo ed un’epoca in cui tutto il diritto era racchiuso nel codice, ed affidato ad una pedissequa applicazione burocratica. Negli stessi termini, invocare l’apparenza di imparzialità dell’interprete, astraendola dal contesto della democrazia repubblicana, nella quale tutti prendono parte alla discussione politica su ciò che è bene per la comunità, significa risospingere il magistrato nella vecchia società liberale, dove la vita pubblica del cittadino non era altro che la preservazione della propria sfera privata dalle intrusioni del potere politico.
Le diverse anime dell’associazionismo giudiziario hanno tutto da perdere se restano isolate nel loro punto di vista, mentre hanno tutto da guadagnare se trovano i punti di integrazione e di raccordo. Non solo perché questo significa evitare derive involutive, ma anche soprattutto perché dalla sintesi delle diverse sensibilità può emergere qualcosa di nuovo, che non sia la mera sommatoria dei suoi elementi. Il pluralismo associativo è una risorsa, perché tiene viva l’attenzione sui diversi lati della problematica costituzionale della magistratura, che un irrigidimento unitario può smarrire. Ma oggi, nel contesto dei nuovi interrogativi che il costituzionalismo pone, e di una crisi importante nel circuito magistratura - istituzioni - società, è necessario comporre un quadro unitario. Riemerge qui la ragione costitutiva dell’associazionismo giudiziario, che è quella di formare ad un ruolo costituzionale, e dunque al costituzionalismo, un corpo di funzionari selezionati per concorso.
Fare sintesi dovrebbe essere così il compito dell’Associazione Nazionale Magistrati ed il prossimo congresso, da questo punto di vista, è un’occasione da non perdere. A quasi cinquanta anni da Gardone potrebbe venire dalla magistratura associata un nuovo contributo al costituzionalismo, in una stagione che non è, come quella degli anni Sessanta del secolo scorso, di “magnifiche sorti e progressive”, ma di crisi e di ripiegamenti. Dal fondo oscuro e difficile di un’epoca possono nascere nuove visioni.